Che cos’è la sostenibilità?

Uno dei concetti più utilizzati nel dibattito odierno, soprattutto quello che intende commentare o valutare scelte e direzioni politiche (nel senso più ampio del termine), è quello di sostenibilità. Sempre più spesso è considerato “un tema centrale”, “una questione irrinunciabile”. Questo articolo non vuole minimamente sminuirne l’importanza, semmai approfondire quale schema c’è alle spalle di questo concetto e provare a offrire uno sguardo più aereo sulla tematica. Tale scavo ci permetterà forse di vedere il concetto di sostenibilità secondo un’ottica diversa, la quale non reitera alcuni dei problemi che le pratiche di sostenibilità intendono invece risolvere. 

Questo articolo, quindi, è una primissima bozza di una genealogia della sostenibilità; proveremo a rispondere a domande come: cos’è la sostenibilità? O meglio, cosa presupponiamo alla base di questo concetto? Su quale visione della natura, del mondo e dei rapporti che regolano forze ed enti naturali, ci appoggiamo nel momento in cui facciamo della sostenibilità un mantra delle nostre scelte?

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Cinema: filosofia in movimento

In Platone il mito è l’esposizione di un pensiero attraverso le immagini che consente quindi una maggiore e più profonda comprensione del primo. Potremmo dire che il filosofo greco nei suoi dialoghi usa il mito in chiave didattica e per estendere l’indagine razionale con l’intento di farle superare i limiti stessi del pensiero razionale. Ecco allora che indagare il rapporto tra filosofia e cinema è tentare di analizzare due aspetti che nascono già associati fin dall’inizio del pensiero occidentale. In questa serie di articoli si ricostruirà tale rapporto che ha caratterizzato molto la filosofia del ‘900, seguendo l’evoluzione del mezzo cinematografico e lo sviluppo del pensiero filosofico.

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Unità e relazione in Hegel (IV)

Tornando a riflettere sulla dialettica di vero/falso, così come viene indicata da Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia, troviamo un passo che giudichiamo molto significativo. Scrive, infatti, Hegel: “Poiché dunque quel sistema dell’esperienza dello spirito ne comprende soltanto l’apparire, il processo che conduce da esso alla scienza del vero che è nella forma del vero, sembra meramente negativo; e potrebbe darsi che si volesse evitare di avere a che fare con il negativo [inteso] come il falso, e si pretendesse di venir condotti senz’altro alla verità; a che impacciarsi del falso?” (Hegel 1960, 30).

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Il sovrano e l’eccezione

Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno recentemente pubblicato un libro (Croce e Salvatore 2022) che aiuta a inquadrare il concetto di stato di eccezione, forgiato da Carl Schmitt nei primi decenni del secolo scorso e che viene «da più parti presentato come ciò che prende a ostaggio la coscienza e la percezione di intere popolazioni per consegnarle a una nuova concezione del diritto e della politica, in cui i valori liberal-democratici passano in secondo piano»: a causa di un pericolo percepito come incombente e letale, «le persone sono indotte a barattare la sacralità dei valori della libertà e della democrazia per aver salva la vita». Lo stato di eccezione consentirebbe allora un rimodellamento della normalità senza spargimento di sangue ma con una «gestione accorta di un pericolo  collettivo presentato come incalzante e prossimo». 

Il libro smentisce convincentemente questa impostazione: «l’intera impalcatura concettuale che si fonda sull’idea di stato di eccezione non aiuta in alcun modo né a criticare i processi politici in corso né a rinvenire modalità più efficaci e trasparenti di gestione dei vari rischi in cui una popolazione può incorrere in uno o più frangenti della sua storia».

Il tema si colloca sulla faglia fra diritto e politica e di conseguenza la prospettiva storica è ineliminabile: in questo articolo esamineremo dunque alcuni passaggi, fra i molti d’interesse che il libro mette in luce.

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Il senso dell’intero nella filosofia di Hegel (III)

La dialettica di vero e falso, così come compare nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, mette capo alla dialettica di unità e unificazione, della quale abbiamo cominciato a parlare nel precedente saggio.

Spesso Hegel parla bensì di “unità”, ma intende in effetti “unificazione”. Per quale ragione affermiamo ciò? Per la ragione che ravvisiamo una differenza fondamentale tra l’unità, che non è articolata al suo interno, e l’unificazione, che invece è una sintesi, cioè una relazione.

L’unificazione è la sintesi di due termini, ossia la relazione che si instaura tra due termini determinati; di contro, l’unità è l’esito del togliersi di ogni determinato, così che vale come l’emergere dell’assoluto oltre il relativo.

In alcune circostanze, sia nella Fenomenologia sia nella Scienza della logica sia, infine, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, come abbiamo rilevato in vari lavori (Stella, 1994; Id., 2020; Id., 2021), Hegel mostra di intendere l’unità nel suo autentico significato, ossia come emergente oltre la relazione. Continue Reading

Per una nuova concezione dell’abitare il mondo

Giusto un’idea: questa. Il fatto che viviamo in un ambiente, inteso come guardarsi intorno e modellare ciò in cui siamo immersi, può essere fuorviante. Certo, ci serve per pensare in prima istanza di essere separati da quell’ambiente, quasi immaginando di viverlo dall’esterno. Questo ci consente di poter giudicare e, in qualche modo, ci illude di poterci appropriare del territorio in cui viviamo. Ma ripartiamo dalla domanda iniziale di questa serie di articoli: se fossimo un giglio? Come vedremmo l’ambiente che abbiamo intorno? Sicuramente in maniera diversa. Quella maniera diversa è così distante però dal modo in cui anche noi siamo calati nell’ambiente? Non sto parlando dell’illusione che abbiamo, che ci siamo costruiti grazie alla nostra coscienza. Sto parlando di come siamo noi, come animali, all’interno dell’ambiente che viviamo. Siamo realmente così diversi dal giglio? Siamo così differenti dal rizoma o da una vespa che sta tentando di pungerci? Continue Reading

Che cos’è il virtuale?

Nello spot pubblicitario con cui Meta, la società di Mark Zuckenberg che ingloba tutte le sue piattaforme, compresa quella legata al progetto sul metaverso, si dice che quest’ultimo sarà utile anche alla realtà. «Il suo impatto – dice il claim finale – sarà reale». Lo sarà, sostiene la narrazione pubblicitaria, poiché un chirurgo potrà operare moltissime volte nel metaverso, prima di entrare fisicamente in sala operatoria; perché un gruppo di studenti potranno tornare al 32 a.c. e parlare con Marco Antonio. 

Come si vede già da questo tentativo di descrizione, i giochi linguistici che abbiamo dovuto attivare sono molteplici e l’ambiguità di alcune parole viene smorzata o, almeno, spostata da una parte invece che dall’altra, grazie a un termine che svolge il ruolo di àncora a tutto il discorso: reale. La definizione di reale/realtà è, infatti, così scontata e forte da non essere mai posta in dubbio. Ma in che rapporto si trova con il concetto di virtuale? E, più indietro, cos’è il virtuale? 

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Verità come unificazione nella Fenomenologia dello spirito (II)

Già dalle prime battute della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito si va delineando la concezione hegeliana, secondo la quale la verità deve venire pensata in forma dinamica, così che di essa deve venire colta l’esposizione, ossia il suo estrinsecarsi, che è poi il suo divenire, fatto di forme che si succedono.

Tali forme, se considerate in un’ottica angusta, risultano essere l’una in opposizione all’altra; se, invece, vengono considerate alla luce dell’intero, allora risultano collegate (relate) fra di esse e parimenti essenziali, perché costituiscono i momenti in cui l’intero, ossia la verità pensata da Hegel come “unità organica”, si articola e si esprime (manifesta).

Una nuova domanda, che il testo di questa Prefazione ci suggerisce, è la seguente: nel dichiarare che il vero e il falso non possono venire rigidamente contrapposti – e che l’uno tende a capovolgersi nell’altro – nonché nel far valere l’intero come sintesi di determinazioni diverse, finanche opposte, Hegel intende forse sostenere il primato della contraddizione, in modo tale che di fatto finisce per assumere la verità come la contraddizione stessa? Continue Reading

Il pilota di Hiroshima contro la banalità del male

Il secondo episodio di Hic Rhodus, hic salta, il podcast che arricchisce la nostra filosofia. 
Oggi parliamo di Günther Anders, della banalità del male e del pilota di Hiroshima. 

Di seguito la trascrizione dell’episodio.

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Esistono dei nomi nella storia che sintetizzano delle vicende drammatiche e cariche di significato etico, politico, filosofico. Dreyfuss, il capitano francese che alla fine dell’ottocento fu accusato ingiustamente di spionaggio perché ebreo, è uno di questi. Un nome altrettanto celebre è quello di Alfred Eichmann, il burocrate nazista che aveva il compito di organizzare l’eliminazione sistematica degli ebrei nei campi di concentramento. Eichman, al processo a cui fu sottoposto nel 1960, dichiarò che egli non era responsabile di tutte quelle uccisioni in quanto aveva semplicemente obbedito agli ordini. Egli, altri non era che un esecutore in un meccanismo più grande di lui di cui non poteva portare la responsabilità.

A fronte di questo personaggio ce n’è uno di cui si è discusso molto meno ma che in realtà è altrettanto importante, e che risponde al nome di Claude Eatherly, un ufficiale dell’aviazione americana, noto come il pilota di Hiroshima.

La mattina del 6 agosto del 1945, Eatherly si alzò in volo con il suo aereo per controllare le condizioni meteo sopra Hiroshima, una città nella parte occidentale dell’isola del Giappone. In tal modo, una volta assicuratosi che il cielo fosse sgombro da nuvole, egli diede il via all’operazione che avrebbe portato l’aereo bombardiere dal nome Enola Gay, a sganciare la prima bomba atomica della storia su una città. L’ordigno esplose esattamente alle 8:15 causando 70 mila morti all’istante, cifra che arrivò a 200 mila negli anni successivi.

Eatherly fu scelto per quella missione in quanto noto per le sue capacità, che gli erano valse il riconoscimento di pilota esperto e distinto. Tornato in patria egli fu salutato come vero e proprio eroe di guerra. 

Ma fu a questo punto che qualcosa andò storto per i gestori della narrazione ufficiale del personaggio.  Eatherly, preda di veri e propri incubi notturni, denunciò la sua azione e si rese protagonista di un vero e proprio pentimento pubblico. A differenza dei suoi compagni, il pilota manifestò la sua profonda colpa per quella azione. L’ufficiale americano giunse perfino a chiedere scusa al popolo giapponese. Insomma quella di Eatherly divenne una questione di vero e proprio imbarazzo per le autorità americane.

La vicenda del pilota di Hiroshima fu resa nota da un filosofo tedesco, Günter Anders per il quale «il 6 agosto rappresenta il giorno zero di un nuovo computo del tempo».

Anders instaurò un fitto e appassionante scambio epistolare con il pilota americano verso la fine degli anni cinquanta. Eatherly, scrive Anders, è l’antitesi di Eichmann in quanto egli «non è l’uomo che fa del meccanismo un pretesto e una giustificazione della mancanza di coscienza, ma l’uomo che scruta il meccanismo come paurosa minaccia di coscienza». Se affermiamo (come disse il gerarca nazista) che ci siamo limitati a collaborare, liquidiamo la libertà di coscienza; anzi, della stessa parola libero ne facciamo l’asserzione più vuota ed ipocrita.

Eatherly fu internato dalle autorità americane in un carcere psichiatrico con l’accusa di essere pazzo. Accusa infondata se si leggono le sue lettere. Basta citare questa sua frase che dimostra anche una certa intelligenza: «La verità è che la società non può accettare il fatto della mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua colpa ben più profonda». Una frase terribile quanto paradossale: molto spesso infatti gli eroi esistono per coprire le malefatte e i crimini della società. Non è un caso che egli tentò di togliersi di dosso l’etichetta di eroe pubblico con dei veniali gesti di criminalità fatti allo scopo. Eatherly viene definito un precursore, vero e proprio simbolo del futuro perché dimostrazione del fatto che con la tecnica si può diventare incolpevolmente colpevoli.

Anders sviluppò le sue riflessioni in altri suoi libri (il più importante dei quali si chiama L’uomo è antiquato) nei quali i concetti espressi nel dialogo epistolare vengono ampliati e appronditi. Ne prendiamo soltanto tre: 

  • In primo luogo l’idea per cui nell’età della tecnica, l’uomo è in grado di produrre più di quanto riesca ad immaginare: è quello che egli chiama lo “scarto prometeico”. Le conseguenze delle sue azioni sfuggono alle sue previsioni. In altre parole, l’uomo diventa un apprendista stregone. Senza saperlo, scrive Anders, «come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti» e quindi, come detto, diventare incolpevolmente colpevoli;
  • Poi l’avvertimento secondo cui viviamo in un’epoca incapace di provare angoscia. Uno dei motivi è la mania delle competenze, e cioè della persuasione che ogni problema rientri in un ambito specialistico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Per cui ogni problema sarebbe solo ed esclusivamente tecnico e non, come invece è, sempre politico e morale. 
  • In terzo luogo la critica all’idea che la bomba atomica serva esclusivamente alla dissuasione: una pretesa dice Anders, totalmente infondata. Intanto perché la bomba atomica è già stata utilizzata. E poi perché il realismo politico (che parla appunto di necessità della bomba per la disssuasione) non ci fa capire i pericoli a cui stiamo di fronte. Tutto ciò non è altro che un segno di accecamento. La cosiddetta “cecità all’apocalisse”.

Ma è nel dialogo che queste idee traggono tutta la loro forza. E allora finiamo con le parole che il filosofo rivolge al pilota: «Che Lei sia stato condannato a simbolo non è colpa sua ed è spaventoso. Ma quello che è successo poteva e può capitare a tutti noi. Per questo Claude Eatherly è in qualche modo il nostro maestro».

Musica
Nomadi, Il pilota di Hiroshima (1985)
Orchestral Manoeuvres in the Dark, Enola gay (1980)

Photo by James Adams on Unsplash

L’uomo, l’animale che sperimenta

Per Kierkegaard il divenir-animale è la liberazione dalle infrastrutture linguistiche che ci fanno continuamente affermare “io”, che mi permettono di essere al contempo presente e assente, poiché se per un verso affermando io mi “oggettivizzo”, dall’altro perdo e abbandono la gran parte delle mie possibilità (come abbiamo detto più lungamente qua). 

Il concetto di divenir-animale si ritrova in Mille piani di Gilles Deleuze e Felix Guattari come sintesi del piano di immanenza. Ma cosa intendono i due autori con il divenir-animale?  Continue Reading

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