Un convegno a Brescia per celebrare Emanuele Severino

L’Associazione Studi Emanuele Severino (ASES) ha organizzato a Brescia, città natale del filosofo, il 2-3 marzo 2018, un congresso  per onorare la sua filosofia. Il congresso ha avuto il patrocinio tra gli altri del Senato della Repubblica, della Presidenza del Consiglio  dei Ministri, dell’Accademia dei Lincei, della Pontificia Universitas Lateranensis, dell’Università Cattolica, dell’Università degli Studi di Brescia, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Università Vita-Salute San Raffaele. L’occasione, che ha dato lo spunto per organizzare l’incontro, è stata la ricorrenza dei sessant’anni dalla pubblicazione di “La struttura originaria”, l’opera fondamentale del filosofo bresciano. Per questo motivo il convegno è stato intitolato “All’alba dell’eternità. I primi 60 anni de ‘La struttura originaria’“.
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Filosofia e scienza. Amiche, nemiche o altro?

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Edoardo Boncinelli non è nuovo nei suoi attacchi alla filosofia. L’ultimo in ordine di tempo è apparso in un’intervista pubblicata lo scorso 16 gennaio sul giornale online Linkiesta nella quale, denunciando l’Italia ignorante, sospettosa e nemica della scienza, attribuisce la colpa di tale situazione anche alla filosofia. «I filosofi – ha detto il celebre genetista – sono i peggiori nemici della scienza, peggio anche dei preti», sicché le ore dedicate alla filosofia nelle scuole italiane sono un male e non un bene al contrario di quanto sosteneva il suo amico Giovanni Reale, autore di un fortunatissimo manuale scolastico per gli studenti delle Superiori insieme a Dario Antiseri. Boncinelli, un fiorentino doc dalla battuta di spirito pronta ed arguta, ha ripetuto la sua requisitoria nei confronti della filosofia di fronte ad una platea di studenti del Liceo delle Scienze Umane di Nocera Umbra accorsi venerdì 26 febbraio nella sala dell’ex seminario (che di solito ospita i nostri ritiri filosofici). La conferenza dal titolo “La scienza oggi” si è tenuta nell’ambito di una serie di incontri organizzati in preparazione della Festa di Scienza e Filosofia di Foligno che si svolgerà dal 14 al 17 aprile prossimo, manifestazione ormai affermatasi in modo significativo e che metterà a confronto su diversi temi i maggiori scienziati e filosofi del panorama nazionale e internazionale.

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La Scuola di Roma dell’IISF: le attività del 2016

Anche per il 2016 la Scuola di Roma dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici propone una interessante serie di seminari a cadenza mensile. Il tema scelto per quest’anno è Emancipazione.

La lezione inaugurale verrà tenuta martedì 19 gennaio, alle ore 17:30, presso lo Studio Campo Boario di Roma (via del Campo Boario 4a), da Emilio Gentile, allievo di Renzo de Felice, con una relazione dal titolo Fra capo e folla. Fuoco amico sull’emancipazione.

Il rapporto fra emancipazione e religione, fra emancipazione e teologia politica, nonché l’idea dell’emancipazione come rischiaramento, saranno solo alcuni dei temi trattati nei vari seminari. Qui è reperibile il programma completo.

Per la partecipazione ai seminari la Scuola di Roma, come ogni anno, mette a disposizione tre borse di studio per giovani studiosi impegnati in ricerche su temi connessi a quelli che verranno via via trattati. Le modalità di candidatura si trovano qui.

 

Le relazioni degli studenti al convegno di Napoli su Spinoza e la radicalità della natura

Il giardino interno dell'Università Federico II di Napoli.
Il giardino interno dell’Università Federico II di Napoli.

Lo scorso 2 ottobre 2015, presso l’Università Federico II di Napoli, si è svolta una giornata di studi dal titolo Spinoza, la radicalità della natura, organizzata dall’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del CNR insieme al presidente di Ritiri Filosofici Maurizio Morini. Al convegno sono intervenuti anche i nostri Federica De Felice e Saverio Mariani.

 

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Contro la filosofia pop

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Fare filosofia oggi, quale che siano il suo livello e le sue pretese, significa innanzi tutto rinunciare all’apparizione. Non tanto perché sarebbe un male in sé, ma perché vorrebbe dire rinunciare a pensare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, che si trova appunto nella scomparsa, la discrezione. Da questo punto di vista, non bisogna dunque formalizzarsi troppo rispetto a tutti quelli che, ancora oggi, si lasciano reclutare nel circo mediatico o sociale: non sono colpevoli, stanno semplicemente dalla parte di uno spirito che è morto. Si tratta unicamente di orientare i propri pensieri su ciò che è vivo: tutto ciò che si vive, si crea, si pensa, si condivide oggi è ben lontano da un simile circo.

Pierre Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, Il Saggiatore, 2015, 115-116.

Spinoza e la radicalità della natura

Spinoza e la radicalità della natura

Una delegazione di RF ha preso parte al convegno organizzato a Napoli dall’Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno su un tema particolarmente ricco di spunti di riflessione: Spinoza e la radicalità della natura.  Federica De Felice ha presentato una relazione sulla strategia degli affetti nell’Etica di Spinoza, tema sul quale la docente ha già sviluppato da tempo una serie di originali riflessioni oggetto di discussione anche in un recente ritiro. Saverio Mariani  ha trattato il tema dei rapporti fra Spinoza e Bergson, individuando, nel solco della ricerca che sta conducendo su un tema tanto interessante quanto poco battuto, ipotesi di assonanze e collegamenti fra pensatori pure così distanti. Maurizio Morini ha posto al centro del proprio intervento la figura di Spinoza come esegeta biblico, mettendo a fuoco il nucleo del pensiero del filosofo olandese in relazione alle Scritture, evidenziando le ricadute e le ramificazioni di tale rapporto anche in ottica politica.

 

Festa di Scienza e Filosofia 2015

Si è conclusa con il tutto esaurito all’Auditorium San Domenico la V edizione della Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, confermando l’andamento positivo dei risultati nel corso degli anni passati. Nel contesto di una città che, come al solito, non ha mancato di rispondere prontamente e con entusiasmo all’iniziativa, ottanta studiosi di primo piano hanno riempito i palazzi simbolo della storia folignate di studenti ed appassionati per una quattro giorni all’insegna della cultura di qualità. Ad alternarsi nelle oltre novanta conferenze sono stati fra l’altro Edoardo Boncinelli, Piergiorgio Odifreddi, Gianni Vattimo e Giulio Giorello, i cui interventi sono stati suddivisi in quattro aree tematiche al fine di favorire al massimo i partecipanti nella scelta degli ambiti di maggior interesse. Aree tematiche che sono poi il riflesso dell’ambizioso intento di questa Festa, ossia del suo volersi porre come il punto d’incontro — e di scontro anche — fra i due approcci alla verità più fecondi che la storia umana abbia mai fatto emergere: la scienza e la filosofia. Se della sezione “Cervello e mente” abbiamo già parlato nell’articolo dello scorso 9 aprile 2015, l’ampiezza di respiro della Festa invita a svolgere qualche considerazione ulteriore anche sulle altre tre aree.

 

Due culture o una sola cultura?
Il panel che ha affrontato questo tema, come ha sottolineato anche Valerio Meattini nella sua conferenza dal medesimo titolo, prende le mosse dall’opera di Percy Charles Snow Le Due Culture e la rivoluzione scientifica (Marsilio, 2005). È al suo interno infatti che, nel tentativo di sottolineare la necessità di una cultura all’altezza delle sfide proposte dalla contemporaneità, viene formulata in questi termini la separazione fra ambito umanistico e ambito scientifico del sapere. Distinguendo tra “cultura umanistica” e “cultura scientifica” però, la questione viene affrontata in modo impreciso, perché parlare di “due culture” equivale a pretendere che una parte del tutto possa sostituirsi ad esso conservando la medesima pervasività. Se per cultura s’intende quell’insieme delle manifestazioni umane che costituisce l’oggetto dell’antropologia culturale infatti, la contrapposizione, al più, può porsi come un conflitto fra diversi “atteggiamenti culturali” o, ancora meglio, fra diverse prospettive sulla medesima realtà. Se il Novecento è stato il secolo che ha celebrato l’ascesa della scienza, sancendo dunque il declassamento della filosofia quale approccio conoscitivo, molto spesso l’atteggiamento che di tale prospettiva è stato l’avanguardia, il neopositivismo logico, non ha saputo cogliere il debito enorme che aveva proprio nei confronti della filosofia. Nel suo delineare “l’impostazione scientifica quale discrimine della sensatezza di ogni discorso però, Carnap — che insieme a Russel fu una dei simboli del neopositivismo —, intenzionato ad affidare alla scienza il controllo di ogni processo conoscitivo, dimentica l’insegnamento di Wittgenstein, per il quale anche se la scienza rispondesse a tutti i quesiti del mondo, non ci avrebbe detto ancora nulla intorno alla vita. In ultima istanza dunque, ciò che emerge è l’importanza di non far sì che la questione metodologica possa finire col prevalere su quella che invece è la radice stessa del porsi di tale questione, ossia dell’indagine intorno alla verità. Di conseguenza è più che mai necessario che scienza e filosofia non solo imparino a coesistere, ma che imparino a collaborare affinché si possa raggiungere un giusto equilibrio fra il piano oggettivo e quello soggettivo del conoscere, anche al fine di evitare il radicalizzarsi di una dicotomia che — oltre a risultare impropria — potrebbe facilmente assumere pericolose derive dogmatiche.
A tale scenario si riallaccia anche — pur con le dovute proporzioni — l’analisi delle vicende biografiche di Giulio Cesare Vanini, filosofo italiano del Seicento la cui sorte fu analoga a quella di Giordano Bruno, e del quale oggi si sta riscoprendo il valore grazie al lavoro di ricerca di Mario Carparelli. Quando il confronto fra due atteggiamenti interni al medesimo orizzonte culturale si radicalizza e diventa scontro infatti, rischia di perdere i caratteri che ne fanno un’espressione del pensiero e precipitare nella violenza; da lì alla persecuzione poi il passo è più breve di quanto non si possa pensare.

Scienza, Pace, Futuro.
Il panel “Scienza, Pace, Futuro”, era quello dedicato in maniera più esplicita al confronto con la contemporaneità e con le aspettative da essa nutrite nei confronti di un futuro, sì, all’insegna del progresso, ma di un progresso capace di opporsi al conflitto anziché alimentarlo. I diversi sostrati culturali all’interno dei quali, in passato, sono maturati i concetti filosofici come tempo, spazio, mondo e che attualmente costituiscono il fulcro dell’indagine scientifica, infatti, troppo spesso sono stati considerati come del tutto irrilevanti a fronte della possibilità di tradurre le parole da una lingua all’altra. In questo atteggiamento però, si cela il germe dell’incomunicabilità; e ne ha offerto un esempio molto interessante Massimo Donà (con il quale RF ha realizzato un’intervista che pubblicheremo nei prossimi giorni) nel suo confronto fra mondo greco e mondo ebraico intorno al concetto di tempo. Donà evidenzia come per i primi il principio originario è l’unità del Tutto, dalla quale segue una concezione del tempo circolare perché il distinguersi del particolare è già da sempre compreso nell’interezza della totalità eternamente perfetta (quindi il tempo è manifestazione della sacralità dello spazio); per i secondi è il tempo ad essere sacro, cosicché lo spazio (il mondo) si trova in una sorta d’incompiutezza perenne che — lungi dal porsi come le negazione escludente la perfezione della creazione divina — pone in luce l’eccedenza costituita dalla vita all’interno del cosmos. In tale ottica, il rischio di fraintendimento nel pensare un concetto apparentemente semplice come il tempo non solo è significativa, ma pare quasi inevitabile, giacché negandone la validità, in realtà si negano nuclei semantici del tutto differenti. Pertanto non deve sorprendere, nel dilagare della fede scientista, l’ostilità da parte di intere aree culturali, per cui accettare certi dettami potrebbe portare al sacrificio della propria identità.

Proprio in tale direzione si muove il monito lanciato da Gianni Vattimo, che in un afflato totalmente antiscientista, non ha esitato a puntare il dito contro la scienza quale nuovo strumento di dominio. La sua continua dipendenza da fonti di finanziamento infatti, ne farebbe l’agente ideale per la messa in atto di progetti che lungi da favorire il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità (per lo meno lungi da farne l’aspetto predominante), servono gli interessi economici di “poteri forti”, come il settore farmaceutico o quello bellico, contravvenendo nella maniera più radicale allo spirito che nel Secolo dei Lumi ne aveva sancito l’ascesa, ossia la battaglia in nome della libertà. Certamente l’intervento di Vattimo ha assunto toni molto forti, ma non crediamo che ciò debba essere inteso come un invito a muovere crociate in difesa della scienza o contro di essa. Ciò che questa area ha finito per portare all’attenzione, invece, è stata la necessità di mantenere un atteggiamento nei confronti della verità, anche all’interno della metodologia scientifica, il più aperto possibile tanto verso qualsiasi esito, quanto verso qualsiasi strumentalizzazione, affinché quello che è stato un vento di liberazione non si tramuti in vento di tempesta.

Vero e falso nella scienza e nella comunicazione scientifica.
Quest’ultimo panel, all’interno del quale si è tenuta anche la conferenza conclusiva della Festa, ossia quella di Piergiorgio Odifreddi dal titolo Che cos’è la verità (senza punto interrogativo), affronta senz’altro una delle questioni più spinose dei nostri tempi. Dalla sua affermazione infatti, il metodo scientifico ha iniziato ad avere una presa sempre più forte sull’opinione pubblica che, mobilitata dalle innumerevoli possibilità da essa aperte, il più delle volte finisce per idolatrarla come il nuovo Vitello d’oro. Le cose in realtà stanno ben diversamente, giacché se ai tempi di Galileo la scienza si esprimeva ancora attraverso la formulazione di leggi assolute, da qualche secolo tale posizione è stata ormai superata. Così come si è aperta una voragine fra il punto matematico e il punto fisico, anch’essi pensati come coincidenti all’inizio della storia della scienza. Mutamenti che hanno via via portato ad una iperframmentazione dell’ambito di studio della verità, al punto che Odifreddi ha pensato bene di tenere una conferenza nella quale ha provato a fare chiarezza sulla molteplicità di significati che il termine “verità” assume, a seconda del registro linguistico cui si fa riferimento. Ne è emerso che, almeno secondo il matematico torinese, l’unica verità cui possa inerire il grado d’indubitabilità è quella matematica, ossia quella verità che fa discendere logicamente delle conseguenze dai postulati; per cui solo al suo interno si gode del massimo grado di certezza. Sorvolando sulla legittimità di tale posizione che pur solleva più di un quesito, ben diversa è la situazione della scienza, la quale, nonostante l’esaltazione omnilaterale del suo metodo, proprio in virtù di quest’ultimo è costretta a rinunciare alla pretesa di esprimere giudizi definitivi. Stando alle regole del metodo sperimentale infatti, è sempre possibile immaginare l’emersione di un caso capace di confutare la validità di una legge fino ad allora ritenuta “vera”, pertanto il massimo grado di verità raggiungibile in tal campo sarà quello della probabilità. Un po’ troppo ingenerosa, ma perfettamente in linea con buona parte del pensiero scientista del Novecento, risulta la sua collocazione della verità filosofica all’interno delle “verità di fede”, ossia di quell’approccio alla verità che non potendo dire nulla di certo, inventa la sua verità. Fermo restando che si potrebbe muovere un’obiezione analoga al criterio in base al quale vengono stabiliti i postulati, una simile conclusione ha senz’altro avuto il merito d’infervorare gli animi e di tenere il dibattito intorno alle questioni sollevate dalla Festa decisamente attivo.

C’è di che ritenersi soddisfatti dunque per gli organizzatori di questa manifestazione, che anno dopo anno si conferma sempre di più come un punto di riferimento a livello nazionale per gli amanti di una cultura alta, ma altresì capace di raggiungere ogni tipo di pubblico.

(Ha collaborato Saverio Mariani)

 

Una festa filosofica con il cervello al centro

È iniziata oggi a Foligno la V Edizione della Festa di Scienza e Filosofia, appuntamento che si sta sempre più qualificando per la vasta ed importante platea di relatori unita ad una crescente partecipazione da parte del grande pubblico.  Uno dei panel più suggestivi, che raccoglie alcuni dei tanti appuntamenti in programma, è quello relativo al rapporto tra mente e corpo. Ricordiamo a questo proposito che anche il nostro prossimo ritiro filosofico vedrà al centro delle sue discussioni proprio la questione suddetta, letta e interpretata attraverso la dottrina degli affetti e delle emozioni in Spinoza. Il tema ci consente di fare una rapida ricognizione sia sulla storia sia sullo stato della ricerca scientifica in ambito neurofilosofico e ciò non tanto attraverso enunciazioni di principio relative al rapporto tra filosofia e scienza ma tramite una breve recensione di un libro interessante apparso di recente dal titolo Nulla di più grande che indica in un particolare modo di misurazione del funzionamento del cervello il criterio per stabilire il grado di coscienza umana.

Un rapporto ancora controverso.
Quella della relazione tra cervello (o mente) e corpo è la riformulazione di un problema classico della filosofia che già nell’antichità conosce dei dibattiti intensi. Dopo che Platone aveva posto il paradigma dell’anima come essenza dell’uomo, relegando il corpo in una condizione subordinata, furono  Aristotele e Galeno le voci più significative sul tema in oggetto. Lo Stagirita sosteneva che fosse il cuore l’organo che rivestiva il ruolo più importante nell’intero corpo umano. Galeno, rifacendosi a Ippocrate, prese a confutare la posizione aristotelica sottolineando invece la centralità e la maggiore importanza del cervello. Proprio a Galeno si deve la prima grande immagine della ricerca neuronale, quella della fontana romana come metafora del cervello.

Con Cartesio e la modernità si impone un modello filosofico completamente diverso. Dividendo i due ambiti dell’essere in pensiero ed estensione, il filosofo francese infatti vede nel corpo una macchina diretta e governata dalla mente. Il modello cartesiano è quello che ancora guida implicitamente la ricerca scientifica anche se è stato corretto in modo decisivo da Spinoza per il quale mente e corpo non sono due sostanze separate ma modi (accidenti se si vuole usare il linguaggio tradizionale) della medesima sostanza. In questo modo atto corporeo e atto intellettivo non hanno più un rapporto reciproco di causa ed effetto quanto piuttosto di simultaneità. Più che Spinoza però, fu Hume ad influenzare maggiormente gli studi filosofici e scientifici in base all’idea per cui la coscienza è essenzialmente reazione agli stimoli esterni: nei nomi di Cartesio e Hume veniva così fissata, anche a livello psicologico, la distinzione tra razionalismo ed empirismo. Una contrapposizione che fu sciolta da Kant il quale distinse per la filosofia i giudizi a priori e per la scienza i giudizi a posteriori. In questo modo però, distinguendo le due discipline, Kant si rendeva responsabile del divorzio tra filosofia e scienza. Un divorzio nei confronti del quale cercò rimedio il suo più importante epigono, Schopenhauer. Fu questi infatti, dopo il tramonto dell’astro di Schelling, a tentare una difficile mediazione tra scienza e filosofia, esprimendo il principio per cui non si dà filosofia senza tenere conto dei progressi scientifici, tanto da definire la scienza come l’emendata presentazione del problema della metafisica. Secondo Georg Northoff, uno dei più influenti ricercatori contemporanei e autore di numerose pubblicazioni, è proprio il filosofo di Danzica il vero padre originario della neurofilosofia. Un termine quest’ultimo impostosi recentemente grazie al titolo di un fortunato libro di una ricercatrice canadese, Patricia Churchland, apparso nel 1986. Da quel momento quasi non si contano i libri e gli studi dedicati all’argomento. Nel novembre dello scorso anno una conferenza internazionale per fare il punto sulla ricerca si è tenuta alla Berlin School of Mind and Brain. Negli ultimi 200 anni la ricerca scientifica ha fatto passi in avanti straordinari e la filosofia, alla maniera dei ciclisti che si vedono distaccati nella scalata di una montagna, fa sempre più difficoltà nel rimanere a ruota. Questo è particolarmente vero in merito al problema della coscienza e dell’Io, tema che costituisce l’odierno punto di contatto tra fisiologia e filosofia e che sarà discusso come detto alla Festa di Foligno. In questa sede vogliamo prendere in esame il caso di un testo apparso recentemente come banco di prova per vagliare progressi, errori e fraintendimenti sul tema.

L’enigma della coscienza.
In Nulla di più grande, testo edito nel 2013 da Baldini e Castoldi, due neuroscienziati italiani, Marcello Massimini e Giulio Tononi, hanno cercato di fare luce sul tema della coscienza. Nell’introduzione gli autori spiegano il loro ambizioso programma: non si tratta di descrivere l’ennesima localizzazione di una funzione all’interno del cervello ma di capire in che modo dalla materia possa emergere una consapevolezza, cioè una coscienza. «Come fa la materia a ospitare un soggetto che semplicemente vede luce o buio?» si chiedono i due studiosi i quali non mancheranno di fare riferimento, oltre agli altri filosofi prima menzionati, ad un altro gigante della filosofia moderna, l’inglese John Locke, il quale, tentando anch’egli di uscire dal paradigma cartesiano, ipotizzò la possibilità della materia pensante (materia cogitans). I due autori non si nascondono le difficoltà di un tale compito anche per via della molteplicità di definizioni che racchiude il termine coscienza: in alcuni casi esso è utilizzato per indicare la consapevolezza morale, in altri contesti esso indica la consapevolezza di sé, altrove la capacità di un soggetto di interagire con il mondo esterno.

Gli autori presentano due perplessità o, secondo il loro vocabolario, due dubbi: quello del filosofo e quello del fisiologo. Il dubbio del filosofo risiede nel dualismo ed in questo senso la riserva che viene avanzata è nei confronti di Cartesio e del suo modello duale di res cogitans e res extensa. Nonostante le forti controindicazioni quel modello è ancora oggi prevalente per la spiegazione dei rapporti tra anima e corpo ma esso viene usato, affermano i due scienziati, come spiegazione dell’ignoranza umana, in altre parole come limite dei modelli scientifici. Il dualismo cartesiano, nonostante e proprio a motivo della sua incredibilità, è sostenuta dall’argomento degli zombi filosofici. In termini di esempi concreti, gli zombi filosofici sono privi di coscienza, anzi vivono nel cervello di ognuno di noi quando facciamo operazioni non coscienti (guidare macchina, parlare a caso, sollevare la tazzina del caffè ecc.): uno zombi in poche parole è un individuo che non ha esperienza cosciente. Il cervelletto, affermano gli studiosi, è il vero zombi in noi. Il più grande contenitore di neuroni è infatti senza coscienza: lo si può gettare (non senza gravissime conseguenze) e tuttavia continuare a vivere la propria esperienza sensibile. Il dubbio del fisiologo consiste invece nella constatazione secondo cui, anche quando potessimo descrivere in dettaglio tutti i neuroni presenti nella nostra testa, «non saremmo in alcun modo più vicini ad una vera spiegazione scientifica di come il cervello possa generare l’esperienza soggettiva».

Dopo aver esposto nel terzo capitolo tutta una serie di casi di persone incapaci di manifestare la propria coscienza all’esterno (lettura tanto interessante quanto inquietante), i due studiosi tornano sul problema del rapporto tra sistema talacorticale e cervelletto. Il primo è di gran lunga più esteso rispetto al secondo il quale però contiene dentro di sé un numero molto più elevato di neuroni. Il paradosso è il fatto che il cervelletto, nonostante il maggior numero di neuroni, ha poco a che fare con la coscienza. Al contrario proprio nel sistema talacorticale, più povero in termini di neuroni, sembra risiedere la coscienza umana, fino al punto che se esso fosse diviso in due potremmo avere due coscienze. Nonostante questa constatazione la domanda sul perché il sistema talacorticale abbia a che fare con la coscienza e il cervelletto no rimane senza risposta da parte dei neuroscienziati. Esiste una correlazione tra quantità di neuroni e coscienza? Sembrerebbe di no, anche perché il numero di neuroni in un corpo serve a coordinare le dimensioni maggiori di un corpo (il numero più elevato di neuroni serve a stabilire i movimenti di un corpo molto più grande). Per questo motivo si considera il quoziente di encefalizzazione (QE). Anch’esso però non serve per misurare la coscienza. E soprattutto la localizzazione dei neuroni non risolve il problema della distribuzione della coscienza negli esseri animali.

La teoria dell’informazione integrata: la legge di omogeneità e quella di specificazione.
Dopo aver presentato una lunga quanto interessante analisi del sogno (ripresa ancora nel capitolo 8), i due studiosi offrono quella che secondo loro è la chiave teorica per comprendere il problema della coscienza. Essa consiste nella teoria dell’informazione integrata, secondo cui «un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione». Che significa? Che la coscienza è un sistema avente due proprietà: l’integrazione e la specificazione, ovvero essa è un tutto unitario che, allo stesso tempo, è capace di differenziare le varie informazioni agendo in modo diverso da un semplice fotodiodo o da una monetina o da un dado. Cartesio e Montaigne rappresentano le figure nelle quali viene sintetizzata l’alternativa: Cartesio è colui che attribuisce coscienza soltanto all’essere umano; Montaigne colui che invece l’estende a tutti gli esseri viventi. Il problema rischia di protrarsi all’infinito se non si dispone di uno strumento di misura.

Ecco allora che dalla combinazione di due assiomi confermati dall’osservazione empirica i due studiosi enunciano la seguente conclusione: «il substrato della coscienza deve essere un’entità integrata capace di differenziare tra un numero straordinariamente grande di stati diversi; ossia un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione». Si tratta di un equilibrio tra forze contrapposte, che avviene nella materia di cui è composto il cervello, misurabile attraverso la lettera greca Φ e la cui misura è il bit, cioè l’unità di informazione, determinabile successivamente da una serie di complicati calcoli matematici.  Questa unità di misura è accompagnata da almeno due principi. Il primo, stabilendo che la coscienza non è desumibile dalla semplice osservazione, implica che essa non discenda dal fatto del comportamento complesso di un ente il quale anzi non è nemmeno necessario (venendo così ad essere esclusi i computer). Il secondo principio consiste invece nel fatto che non solo è necessario perturbare il sistema per misurare l’informazione, «ma dobbiamo anche capire quanto l’informazione è condivisa tra le diverse parti che lo compongono». A questi principi segue la loro applicazione ai diversi corpi organici e non organici in modo da misurare il loro livello di coscienza. Avremo modo di tornare in futuro sulle tante ed interessanti implicazioni della teoria, se possibile anche con la lettura dello splendido romanzo scientifico filosofico apparso in seguito da parte di uno dei due studiosi dal titolo Φ.

Al di là dei tanti problemi toccati dal testo nei suoi ultimi capitoli, cosa può dire la teoria integrata dell’informazione alla filosofia? Innanzitutto ci sembra di poter dire che il principio a base della teoria appare del tutto simile a quello che la filosofia conosce almeno dai tempi di Platone. Si tratta  cioè del principio secondo cui, nel metodo di ogni conoscenza, si devono seguire due leggi: quella dell’omogeneità e quella della specificazione. Il principio è espresso in diversi dialoghi: nel Filebo ad esempio, nel Politico e ancora nel Fedro. Tanto per rimanere ai due filosofi prima menzionati e a noi più vicini, Kant lo ha utilizzato nell’appendice alla dialettica trascendendentale della Critica della ragion pura, Schopenhauer lo pone all’esordio della sua Dissertazione di dottorato, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. La legge di omogeneità è espressa anche con il principio di Occam in base al quale è opportuno non moltiplicare gli enti e la difficoltà della ricerca al di là del necessario; la legge di specificazione in base al principio per cui si deve distinguere in modo che gli enti siano ricondotti a ricoscere una differenza tra di loro. Le somiglianze con il principio euristico dei due neuroscienziati sono dunque notevoli: la legge di omogeneità corrisponde alla proprietà dell’integrazione che intende ridurre ad unità le varie informazioni, la legge di specificazione corrisponde addirittura nel nome al principio adottato. La teoria dei due scienziati sembra così applicare proprio quei principi desunti dalla filosofia ad una indagine empirica: ancora un caso dunque in cui gli scienziati fanno uso di leggi che la filosofia ha già scoperto da tempo.

 

 

 

Ricerche per il nuovo anno

Pubblichiamo nella sezione Studi un contributo sul difficile rapporto tra filosofia e teologia nella modernità, tema che sarà oggetto di uno dei due ritiri previsti per il prossimo anno. L’articolo è dedicato all’opera di Pierre Charron, filosofo e teologo vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. L’autore, Adamas Fiucci, è un giovane dottorando in Studi Umanistici, curriculum “Logica, Ontologia ed Etica”, dell’Università G. D’Annunzio di Chieti. Nel suo lavoro di ricerca, “La rilevanza psicologico-politica della nozione di coustume nella filosofia francese della seconda metà del Cinquecento”, Fiucci esamina la teoria dell’abitudine nel pensiero di Étienne de La Boétie, Michel de Montaigne e Pierre Charron. I suoi principali interessi in ambito filosofico sono la teoria politica della prima età moderna (con particolare attenzione al rapporto individuo-società); la rilettura rinascimentale delle idee morali della filosofia antica (scetticismo, epicureismo e stoicismo); l’impatto delle guerre di religione sulla cultura europea tra il XVI e il XVII secolo.

Un tentativo di colmare l’abisso

CeronettiSabato 8 novembre 2014, al Museo San Francesco di Nocera Umbra, verrà presentato il volume — curato dal nostro Giovanni  Marinangeli — contenente l’epistolario fra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio (Un tentativo di colmare l’abisso. Lettere 1968 – 1996, a cura di Giovanni Marinangeli, Adelphi, 2014, p. 444). Alla presentazione interverranno, oltre al curatore dell’opera, Roberto Lazzerini, Anna Giannatiempo Quinzio, Mariano Borgognoni.

Arte versus Religio. Ma anche Atene contro Gerusalemme. (Sola) Scriptura contro scrittura. Di certo la sensazione netta di essere di fronte a due diatribisti medievali, piuttosto che a due intellettuali, pur tra i più atipici e originali del novecento culturale italiano. Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, due padri adelphiani della prima ora, che la casa editrice milanese celebra pubblicandone il quasi trentennale carteggio. Due testimoni lucidi, per certi versi spietati, più ospiti che protagonisti del secolo nel quale hanno inscritto le matrici della loro opera, e  il cantus firmus della loro inossidabile amicizia. Un’amicizia circoscritta in un triangolo spazio-temporale ben definito: Alassio, Torino, il 1927, anno della comune epifania. Due vite segnate dalla abissale contaminazione col Sacro e con la parola, da quella poetica a quella scritturale, che l’epistolario restituisce in una policromia di sfumature e di rimandi serrati, nel quale il lettore (sempre impudico nel caso di una privata corrispondenza) si trova vorticosamente ad oscillare, lettera dopo lettera. Due fedi assolute, infrangibili, reciprocamente irriducibili: da un lato quella, teologicamente “scandalosa”, paolina di Sergio Quinzio nella resurrezione della carne, nella consolazione finale; dall’altro quella filosoficamente tenace di Guido Ceronetti nel potere salvifico della gnosi. Due Weltanschauung diverse e opposte, che non avrebbero potuto essere sostenute con migliore forza retorica e con maggiore rigore morale, nelle quasi trecento missive del carteggio: pagine in cui non mancano anche i segni, talvolta le stimmate, di una straordinaria cifra umana.

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