Che cosa sono analisi e sintesi?

In questa serie di articoli nei quali proviamo ad indagare filosoficamente il significato di alcuni termini di uso comune, non tanto per mostrarne l’errato utilizzo quanto piuttosto per arricchirne il senso e darne una lettura di più ampio respiro, abbiamo per forza avuto un approccio analitico in alcuni momenti. L’analisi, infatti, è uno dei versanti del processo gnoseologico che più comunemente si intende come il nostro processo gnoseologico. L’altro lato di questo promontorio è la sintesi. Analisi e sintesi, quindi, vanno a comporre una diade conoscitiva che per lo più intendiamo come lineare e collegata.

Nel tentativo di proporre una definizione: l’analisi è la scomposizione di un elemento che si vuole conoscere; la sintesi è la ricomposizione alla luce di ciò che si è inteso dello stesso elemento. L’osservazione analitica (lo si dice pure delle persone, dell’approccio che hanno nei confronti del modo di conoscere le cose) è orientata verso i punti che compongono le figure, mentre lo sguardo sintetico ci racconta di una “astrazione” che è riassemblaggio di parti suddivise.  Continue Reading

Educazione come esercizio al dominio

Per chiunque abbia ancora qualcosa da decidere nella propria vita, l’incontro con Nietzsche si rivela spesso un punto di svolta. L’acutezza della sua capacità critica, la forza dirompente delle sue intuizioni, il superuomo: ogni suo pensiero è il tassello di un mosaico geniale in cui il centro sembra essere ovunque e in nessun luogo, ma che solo ai rari in grado di ammirarlo nella sua interezza svelerà i propri segreti. Ha giocato molto con la portata evocatrice degli enigmi Nietzsche, perfettamente in linea con quel mondo presocratico tanto a lungo studiato nella sua giovinezza da filologo. C’è una cosa però, rispetto alla quale è sempre stato fin troppo chiaro: solo il solutore di enigmi possiede la forza per dominare se stesso e di riflesso essere una guida per tutti “i temerari della ricerca” in cammino lungo il percorso per diventare se stessi. È questa l’essenza di ogni educazione ma, per comprendere a pieno la sua reale portata semantica, risulta imprescindibile addentrarsi in quella che fu l’esperienza educativa di Nietzsche in prima persona, il suo incipit filosofico. Eccoci dunque di fronte alle pagine della Terza inattuale, pubblicata nel 1874 con il titolo Schopenhauer come educatore, una delle più forti legittimazioni del valore pedagogico intrinseco al contatto con quegli individui superiori, tanto preziosi quanto rari. Continue Reading

L’uomo, la pietra scagliata in aria che pensa

Non esiste argomento in cui la distanza tra coscienza comune e coscienza filosofica appare più lontana come nel rapporto tra libertà e necessità. Se da un lato la libertà è sostenuta come un dato naturale dalla coscienza comune, dall’altro la necessità è esibita come ovvietà logica dalla coscienza filosofica. Come si può negare infatti che dietro tutti i comportamenti dell’uomo vi sia una causa che li abbia determinati ad essere in un certo modo? Va detto, per la verità, che anche all’interno della stessa coscienza filosofica, il dibattito tra i due schieramenti è sempre stato particolarmente acceso. Il motivo principale della controversia consiste nell’argomento secondo il quale, una volta negato il libero arbitrio, sarebbe con ciò cancellata la responsabilità umana con conseguente perdita del senso morale: che valore avrebbero quelle azioni interamente determinate da motivi esterni in cui l’individuo non trova dentro di sé il principio che rende autonome le sue azioni? Come si può parlare di disposizione al bene se il motivo dell’agire è determinato da una causa esterna? Continue Reading

Il mondo come macroantropo e rappresentazione

In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.  Continue Reading

Metafisica e meraviglia: il ruolo dell’esperienza in Schopenhauer

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer è per lo più identificato come l’autore de Il mondo come volontà e rappresentazione. A quest’opera, e intorno ad essa, Schopenhauer ha lavorato in effetti tutta la vita. Pubblicata nel 1818, Il mondo è un’opera totale, onnicomprensiva, che si occupa di tutte le discipline filosofiche al suo interno. Dopo venticinque anni dalla prima edizione, Schopenhauer dà alle stampe un altro corposo volume che ha ancora a che fare con Il mondo e che intitola Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione». Cinquanta capitoli che ripercorrono la struttura dell’opera principale e ne commentano il contenuto, la approfondiscono, chiarendone alcuni passaggi decisivi.

Come ha scritto il compianto Giorgio Brianese nell’introduzione alla sua traduzione di entrambi i testi, i Supplementi «sono, per lo stesso Schopenhauer, due cose insieme: da un lato ampliamento e sviluppo dei temi proposti venticinque anni prima nel Mondo come volontà e rappresentazione, dall’altro quasi un’opera a sé stante, dotata di una sua autonomia e complementare alla precedente» (Schopenhauer, 2013b, IX). Leggere i Supplementi, infatti, permette di capire la stratificazione che è avvenuta “sopra” a Il mondo, la cui genesi non è stata mai interrotta, come mostrano le tre edizioni date alle stampe nel corso di quarant’anni (su questo tema: Morini, 2017). Continue Reading

Una finestra al di là delle tenebre

What, exactly, is boredom? It is a deeply unpleasant state of unmet arousal: we are aroused rather than despondent, but, for one or more reasons, our arousal cannot be met or directed. These reasons can be internal – often a lack of imagination, motivation or concentration – or external, such as an absence of environmental stimuli or opportunities. We want to do something engaging, but find ourselves unable to do so and, more than that, are frustrated by the rising awareness of this inability.

Awareness, or consciousness, is key, and might explain why animals, if they do get bored, generally have higher thresholds for boredom. In the words of the British writer Colin Wilson: ‘most animals dislike boredom, but man is tormented by it’. In both man and animal, boredom is induced or exacerbated by a lack of control or freedom, which is why it is so common in children and adolescents, who, in addition to being chaperoned, lack the mind furnishings – the resources, experience and discipline – to mitigate their boredom.

Let’s look more closely at the anatomy of boredom. Why is it so damned boring to be stuck in a departure lounge while our flight is increasingly delayed? We are in a state of high arousal, anticipating our imminent arrival in a novel and stimulating environment. True, there are plenty of shops, screens and magazines around, but we’re not really interested in them and, by dividing our attention, they serve only to exacerbate our boredom. To make matters worse, the situation is out of our control, unpredictable (the flight could be further delayed, or even cancelled) and inescapable. As we check and re-check the monitor, we become painfully aware of all these factors and more. And so here we are, caught in transit, in a high state of arousal that we can neither engage nor escape.

If we really need to catch our flight, maybe because our livelihood or the love of our life depends on it, we will feel less bored (although more anxious and annoyed) than if it had been a toss-up between travelling and staying at home. In that much, boredom is an inverse function of perceived need or necessity. We might get bored at the funeral of an obscure relative but not at that of a parent or sibling.

So far so good, but why exactly is boredom so unpleasant? The 19th-century German philosopher Arthur Schopenhauer argued that, if life were intrinsically meaningful or fulfilling, there could be no such thing as boredom. Boredom, then, is evidence of the meaninglessness of life, opening the shutters on some very uncomfortable feelings that we normally block out with a flurry of activity or with the opposite feelings. This is the essence of the manic defence, which consists in preventing feelings of helplessness and despair from entering the conscious mind by occupying it with opposite feelings of euphoria, purposeful activity and omnipotent control – or, failing that, any feelings at all.

In Albert Camus’s novel The Fall (1956), Clamence reflects to a stranger:

I knew a man who gave 20 years of his life to a scatterbrained woman, sacrificing everything to her, his friendships, his work, the very respectability of his life, and who one evening recognised that he had never loved her. He had been bored, that’s all, bored like most people. Hence he had made himself out of whole cloth a life full of complications and drama. Something must happen – and that explains most human commitments. Something must happen, even loveless slavery, even war or death

People who suffer from chronic boredom are at higher risk of developing psychological problems such as depression, overeating, and alcohol and drug misuse. A study found that, when confronted with boredom in an experimental setting, many people chose to give themselves unpleasant electric shocks simply to distract from their own thoughts, or lack thereof. Out in the real world, we expend considerable resources on combatting boredom. The value of the global entertainment and media market is set to reach $2.6 trillion by 2023, and entertainers and athletes are afforded ludicrously high levels of pay and status. The technological advances of recent years have put an eternity of entertainment at our fingertips, but this has made matters only worse – in part, by removing us further from our here and now. Instead of feeling sated and satisfied, we are desensitised and in need of ever more stimulation – ever more war, ever more gore, and ever more hardcore.

The good news is that boredom can also have upsides. Boredom can be our way of telling ourselves that we are not spending our time as well as we could, that we should be doing something more enjoyable, more useful, or more fulfilling. From this point of view, boredom is an agent of change and progress, a driver of ambition, shepherding us out into larger, greener pastures.

But even if we are one of those rare people who feels fulfilled, it is worth cultivating some degree of boredom, insofar as it provides us with the preconditions to delve more deeply into ourselves, reconnect with the rhythms of nature, and begin and complete highly focused, long and difficult work. As the British philosopher Bertrand Russell put it in The Conquest of Happiness (1930):

A generation that cannot endure boredom will be a generation of little men, of men unduly divorced from the slow processes of nature, of men in whom every vital impulse slowly withers as though they were cut flowers in a vase

In 1918, Russell spent four and a half months in Brixton prison for ‘pacifist propaganda’, but found the bare conditions congenial and conducive to creativity:

I found prison in many ways quite agreeable … I had no engagements, no difficult decisions to make, no fear of callers, no interruptions to my work. I read enormously; I wrote a book, Introduction to Mathematical Philosophy … and began the work for Analysis of Mind … One time, when I was reading Strachey’s Eminent Victorians, I laughed so loud that the warder came round to stop me, saying I must remember that prison was a place of punishment.

Of course, not everyone is a Bertrand Russell. How might we, mere mortals, best cope with boredom? If it is, as we have established, an awareness of unmet arousal, we can minimise boredom by: avoiding situations over which we have little control; eliminating distractions; motivating ourselves; expecting less; putting things into their proper perspective (realising how lucky we really are); and so on.

But rather than fighting a constant battle against boredom, it is easier and much more productive to actually embrace it. If boredom is a window on to the fundamental nature of reality and, by extension, on to the human condition, then fighting boredom amounts to pulling back the curtains. Yes, the night is pitch-black, but the stars shine all the more brightly for it.

For just these reasons, many Eastern traditions encourage boredom, seeing it as the path to a higher consciousness. Here’s one of my favourite Zen jokes:

A Zen student asked how long it would take to gain enlightenment if he joined the temple.
‘Ten years,’ said the Zen master.
‘Well, how about if I work really hard and double my effort?’
‘Twenty years.’

So instead of fighting boredom, go along with it, entertain it, make something out of it. In short, be yourself less boring. Schopenhauer said that boredom is but the reverse side of fascination, since both depend on being outside rather than inside a situation, and one leads to the other.

Next time you find yourself in a boring situation, throw yourself fully into it – instead of doing what we normally do, which is to step further and further back. If this feels like too much of an ask, the Zen master Thich Nhat Hanh advocates simply appending the word ‘meditation’ to whatever activity it is that you find boring, for example, ‘standing-in-line meditation’.

In the words of the 18th-century English writer Samuel Johnson: ‘It is by studying little things that we attain the great art of having as little misery and as much happiness as possible.’Aeon counter – do not remove

Neel Burton

This article was originally published at Aeon and has been republished under Creative Commons.
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La grotta di Posillipo, vedi Napoli e non muori

Le caverne sembrano essere un luogo particolarmente adatto per comunicare i significati più profondi della filosofia. Con la mente a Platone e al suo celebre mito, Schopenhauer deve aver pensato questo nel momento in cui riformulava per l’ennesima volta quel suo unico pensiero attorno al quale si espandono in modo organico i suoi scritti: la volontà è l’essenza del mondo. Del resto, metafore, esempi, similitudini sono strumenti per lui consueti: nel Mondo come volontà e rappresentazione se ne contano a decine soprattutto nel secondo volume. Dai porcospini, per spiegare i rapporti tra gli uomini, alla finanza, per illustrare il funzionamento della rappresentazione, le metafore sono utilizzate per gli argomenti più vari. A volte anche per comunicare l’importanza del suo contributo alla filosofia: come Lavoisier, scindendo l’acqua in idrogeno e ossigeno, aveva dato vita ad una nuova era della fisica e della chimica, così Schopenhauer, dividendo il corpo in volontà e rappresentazione, aveva inaugurato una nuova metafisica. Con la grotta di Posillipo, un tunnel di oltre settecento metri nel cuore di Napoli (nota anche come grotta di Virgilio), Schopenhauer aggiunge un’esperienza di grande suggestione per indicare la volontà, principio monistico della sua filosofia.

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«L’Io e l’Egoismo sono una cosa sola»: Schopenhauer e la questione dell’identità individuale (I)

Pubblichiamo la prima parte della lezione magistrale tenuta ieri dal nostro Maurizio Morini nella sala conferenze del Museo Nazionale Goethe di Weimar in Germania. La lezione, svoltasi in lingua tedesca con il titolo Ein Ich und Egoismus sind Eins: Schopenhauer über die Frage der individuelle Identität, è durata oltre cinquanta minuti ed ha inteso mettere a fuoco il tema della soggettività individuale nell’ambito di un programma dedicato ai rapporti tra Goethe e Schopenhauer. Il convegno, dal titolo Ob nicht Natur zuletzt sich doch ergründe…?, che si conclude oggi dopo tre giorni di lavori, è stato organizzato dalle Gesellschaft dedicate ai due grandi pensatori ed ha visto la partecipazione di un’ottantina di persone tra docenti, ricercatori e studiosi di vario genere. La seconda parte dell’intervento sarà pubblicata la prossima settimana.

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RF Students II: un’intuizione all’origine dell’irrazionalismo

Si può dire tutto di Nietzsche, così come è stato detto di tutto, ma una cosa non si potrà mai negare: che la sua lettura provochi sempre un sussulto, un brivido, un sorriso o una smorfia di approvazione, un moto interiore con il quale giungiamo a percepire (si può dire per un pensatore simile?) la verità. Sabato 3 giugno faremo a Nocera Umbra un nuovo ritiro filosofico per studenti delle scuole superiori. Dopo aver discusso a gennaio quei sistemi che hanno assegnato alla ragione (anche criticandola) il ruolo centrale nella costruzione del sapere, il prossimo ritiro metterà a fuoco quel filone di pensatori che l’hanno di fatto accantonata ponendo il primato su altre dimensioni dell’esistenza. Molti studenti che parteciperanno devono prepararsi per l’esame di Stato e questo costituisce il motivo occasionale del ritiro. Ma noi di RF vogliamo prepararli a qualcosa di ben più fondamentale: dialogare, pensare e parlare con la propria testa. «E bisogna parlare – come scrive il filosofo del nichilismo all’inizio di Umano troppo umano – solo quando non è lecito tacere e solo di ciò che si è superato: ogni altra cosa è chiacchiera, letteratura, mancanza di disciplina» (nella foto il lago alpino di Sils Maria in Svizzera da cui Nietzsche prese ispirazione per il suo Zarathustra).

Non è facile inquadrare da un punto di vista teorico e storico una nozione, quella di irrazionalismo, nata essenzialmente per motivi di carattere polemico. In generale s’intende per irrazionale quella ricerca filosofica che pretende di fare a meno della conoscenza fondata sulla ragione. Soltanto nel secondo dopoguerra del secolo scorso il filosofo marxista Gyorgy Lukacs ne ha tracciato i contorni in modo più specifico, con tutti i vantaggi e i limiti che questo ha comportato. Per il filosofo ungherese, l’irrazionalismo moderno nasce nel quadro di una vasta reazione borghese che si manifesta attraverso quei sistemi filosofici che assegnano il primato all’intuizione intellettuale, ovvero a quella forma di conoscenza fondata essenzialmente su un’esperienza interiore. A partire da Schelling, l’intuizione intellettuale non percepisce qualcosa di specifico ma considera tutti i fenomeni come manifestazione di un’idea, quella dell’assoluto. Hegel fu pronto a ribattezzare questa concezione come la notte dove tutte le vacche sono nere. Dal suo punto di vista la reazione era ben giustificata: se c’è un aspetto che accomuna le visioni che traggono spunto dall’intuizione intellettuale (non a caso negata da Kant), questo è il rifiuto della dialettica, ovvero del pensiero critico. Le conseguenze legate a ciò sono numerose come, ad esempio, l’opposizione tra intuitivo e discorsivo e il diverso significato attribuito ai concetti di intelletto e ragione. L’intuizione intellettuale fu ripresa da Schopenhauer che la chiamò empirica per sottolineare il luogo in cui si realizza quella conoscenza, cioè il corpo. Ma il campione dell’irrazionalismo ha, e non solo per Lukacs, un nome e cognome ben preciso: Friedrich Nietzsche. In lui infatti vengono a maturazione altri due aspetti della polemica: la concezione aristocratica della conoscenza e il ruolo svolto dalla dimensione estetica. Già annunciata da Schopenhauer, l’attività del genio creatore diventa in Nietzsche, grazie alla figura dell’Übermensch, l’organo stesso della filosofia. Una filosofia che ora viene fatta con il martello e che ha il compito di distruggere tutti i capisaldi della tradizione, in primo luogo la nozione di verità e quella di morale. La domanda su cosa ha realmente rappresentato Nietzsche rimane ancora attuale (o meglio inattuale): colui che ha fornito l’humus culturale al nazionalsocialismo oppure, secondo la rilettura degli anni sessanta, il filosofo che per metafore, allegorie e aforismi ha suggerito un nuovo umanesimo? Da questo punto di vista Nietzsche fu davvero il pensatore dell’ambivalenza, perché, come lui stesso scrive, quando si manifesta il proprio pensiero si vuole essere in egual misura compresi ma anche, allo stesso tempo, non compresi. E allora, dandoci appuntamento al 3 giugno, e come incipit al ritiro che vedrà la presenza di tanti incomprensibili (così come gli adulti spesso considerano i giovani) dedichiamo a tutti i partecipanti un brano tratto da un’aforisma della Gaia Scienza, che esprime tutta la potenza vitale del pensatore di Röcken: «Noi incomprensibili. Veniamo confusi con altri – questo fa sì che noi stessi si cresca, continuamente ci si trasformi, si facciano cadere vecchie scorze, si continui a mutare pelle ad ogni primavera, si divenga sempre più giovani, sempre più in avvenire, sempre più alti, più forti, sempre più potentemente si affondino le nostre radici in profondità nel male – mentre nello stesso tempo abbracciamo il cielo sempre più colmi d’amore, sempre più vastamente, e con tutti i nostri rami e le foglie, sempre più assetati, succhiamo dentro di noi la luce. Noi cresciamo come alberi – questo è difficile da capire come ogni vita! – non in un luogo, ma ovunque, non in una direzione, ma sia in alto che in fuori, sia in dentro che in basso; la nostra forza spinge ad un tempo nel tronco, nei rami e nelle radici, non siamo più padroni di fare una qualsiasi cosa separatamente, di essere un qualche cosa di isolato… Così è il nostro destino: noi cresciamo in altezza; e posto che questa fosse pure nostra fatalità – giacché abitiamo sempre più vicini ai fulmini! – ebbene, non per questo la teniamo meno in onore, essa rimane ciò che noi vogliamo dividere, non vogliamo partecipare, la fatalità dell’altezza, la nostra fatalità…».

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