L’individuo assoluto di Evola

Nella filosofia italiana esiste un pensatore rimosso, oggetto di vera e propria avversione, che risponde al nome di Julius Evola (1898-1974). Le ragioni dell’ostracismo da parte della cultura ufficiale e universitaria sono numerose e, per certi aspetti, anche comprensibili. Ma non è questo che ci interessa. Quello che importa o dovrebbe importare a chi si occupa di cultura, e soprattutto di filosofia, è discutere tesi e argomenti aventi plausibilità e forza teoretica capaci di smuovere l’intelletto. E gli argomenti del pensatore romano sono numerosi. Intanto, come appare evidente a chi si addentra nella sua opera, esistono tanti periodi in cui il filosofo (anche se questa definizione sarebbe respinta dall’interessato) ha cambiato registro speculativo e dato il suo contributo in differenti aspetti del sapere. Esiste così l’Evola artista, l’Evola filosofo, l’Evola mago, l’Evola orientalista, l’Evola teorico della politica. A prescindere dalle sensibilità e dagli orientamenti personali, la sua è un’opera straordinaria per erudizione, genialità e vastità di orizzonti tale che non si può liquidare con formule superficiali o becere.  

L’Evola filosofo è quello che, dopo il periodo dadaista, ripensa in modo radicale gli esiti dell’idealismo, inteso come il punto più alto dello sviluppo della filosofia. A partire da ciò, egli elabora un pensiero che si definisce come dottrina dell’individuo assoluto o dell’idealismo magico. Le opere di riferimento a questo proposito sono diverse: da Teoria dell’Individuo assoluto a Fenomenologia dell’Individuo assoluto, da L’uomo come Potenza (poi riscritto e diventato Lo Yoga della Potenza) a Saggi sull’Idealismo magico, fino alle due conferenze riportate nel volume L’Individuo e il suo divenire nel mondo. Siamo nel periodo che va dal 1922 al 1929, anni caratterizzati anche da un importante scambio epistolare con i due giganti dell’idealismo italiano, Croce e Gentile. Continue Reading

Evola e Guénon, due pensatori al di là dell’ordinario

Nell’analisi del rapporto tra Oriente e Occidente un ruolo fondamentale spetta a due grandi figure del pensiero del novecento: Julius Evola e René Guénon. Come ha scritto lo storico e filosofo Andrea Scarabelli, «i due furono attenti diagnosti della crisi della modernità, costituendo quasi un unicum in quel panorama frastagliato ed eterogeneo che siamo soliti chiamare Kulturcrisis». Ai due si può aggiungere anche il nome del tedesco Oswald Spengler soprattutto a motivo della distinzione, utilizzata da tutti e tre per leggere lo sviluppo storico delle società umane, tra Kultur (Civiltà) e Zivilisation (Civilizzazione). Si tratta di un’opposizione nata nell’ambito della cultura tedesca in cui il termine negativo è quello di Zivilisation in quanto indica, secondo le parole dello stesso Guénon, «la tendenza a ridurre ogni cosa al solo punto di vista quantitativo, tendenza talmente radicata nelle concezioni scientifiche degli ultimi secoli (…) da permettere di definire la nostra epoca il regno della quantità». Continue Reading

La teoria dei molteplici stati dell’essere

Il fondamento teoretico su cui è costruito il sistema di Guénon è la teoria dei molteplici stati dell’essere. Per diretta ammissione del filosofo francese, nonché per gli espliciti riferimenti utilizzati per la sua spiegazione, essa è strettamente dipendente dalla dottrina del Vedanta, la visione metafisica che, secondo la tradizione indù, ci permette di capire ciò che è.

Non solo. La teoria metafisica in esame viene spesso illustrata da Guénon tramite il simbolismo geometrico, metodo che, oltre a rendere esoterica la sua dottrina, può facilmente indurre in errore i lettori occidentali abituati alla logica del concetto discorsivo. In tutti i casi, il messaggio dell’autore è univoco: ridestare quella che egli definisce la “sensazione dell’eternità” attivabile soltanto con una chiara quanto esplicita coscienza metafisica.  Continue Reading

Europa e Cina sotto le lenti dei filosofi di ieri e di oggi

Odi et amo. È forse questa l’espressione che meglio di tutte riesce a cogliere la natura del rapporto tra Occidente e Oriente, per lo meno per come lo si percepisce da Occidente. Tutto, e il suo contrario, contemporaneamente. Come nella dottrina dei contrari di Eraclito, questi due momenti del mondo vivono una perenne contrapposizione – ieri più geografica e culturale, oggi economica e politica – all’interno della quale però, in sporadici punti di contatto, hanno saputo scoprirsi molto più simili di quanto non potesse sembrare.

Fra le tante voci che hanno contribuito ad approfondire questo guardarsi da lontano – spesso troppo lontano – una delle più autorevoli è senz’altro quella di Eugenio Garin, celebre storico della filosofia che nel 1975, con il suo saggio Alla scoperta del “diverso”: i selvaggi americani e i saggi cinesi, contenuto nella raccolta Rinascite e rivoluzioni, s’interrogava sul ruolo giocato dalla Cina nell’evoluzione della civiltà europea nell’età moderna.

Dopo di lui, un altro studioso che più si è prodigato affinché tali punti di convergenza potessero emergere e rendersi visibili a beneficio di entrambe le parti è Filippo Mignini. Docente universitario presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, Mignini è stato anche direttore dell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente. Nel suo Europa e Cina, uscito durante il turbolento 2020, Mignini tenta di ricostruire le tappe fondamentali del percorso di assimilazione del pensiero orientale dall’Europa illuminista, per farne il punto di partenza di una speculazione che allunga il suo sguardo fino al futuro prossimo.

Due voci che partendo da punti diversi, cercano di accorciare le distanze, per lo meno dal punto di vista mentale, fra due mondi che proprio nel dialogo basato sulle reciproche differenze potrebbero trovare la chiave per un nuovo mondo. Continue Reading

Guénon e la scienza come sapere ignorante

A leggere René Guénon, filosofo francese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, uno si domanda come mai, nella letteratura relativa alla decadenza della civiltà occidentale, il canone filosofico abbia imposto esclusivamente autori come Marx, Freud o la Scuola di Francoforte. Sono queste le tradizioni di pensiero che costituiscono la vulgata dell’Occidente, imprescindibili per mettere a fuoco la crisi ormai secolare in cui versa questa parte del pianeta.

La risposta alla domanda forse consiste in ciò: mentre quei pensatori non intaccano un sistema di valori che finisce per conservare il suo primato planetario, Guénon investe con la sua critica le radici stesse della civiltà occidentale. Non si tratta in altre parole di mettere in campo dei mutamenti grazie ai quali essa possa correggersi, emendare aspetti anche importanti ma che non cambiano lo scenario di fondo. Il problema è che, nell’ambito dello sviluppo complessivo dell’umanità, l’Occidente costituisce una vera e propria anomalia.

Questa è la posizione di Guénon il quale, tramite anche il confronto sistematico con la civiltà orientale, mina alle fondamenta il pregiudizio della superiorità indiscussa e indiscutibile della civiltà occidentale. Continue Reading

Oriente e Occidente, una relazione da ripensare

Quello dei rapporti tra pensiero orientale e pensiero occidentale è un tema diventato sempre più oggetto di attenzione. Basta entrare in una qualsiasi libreria per accorgersene, dove i libri che trattano questioni di filosofia o di spiritualità orientale, un tempo relegati in spazi angusti e nascosti, ora sono collocati accanto ai testi del pensiero filosofico occidentale. 

Si tratta di un fenomeno che segue la grande contaminazione socio culturale degli ultimi cinquant’anni,  giunta dopo  un rapporto antichissimo che ha conosciuto nel tempo alti e bassi, anche a seconda degli aspetti politici implicati. In questo senso, l’immagine dell’oriente (che si arricchisce anche con vari festival in giro per il nostro Paese) rischia però di essere alterata e banalizzata con un vago esotismo  che promette il raggiungimento di uno stato spirituale in realtà del tutto confuso. Peggio ancora hanno fatto quelle dottrine che, sotto l’apparente rivestimento orientale, contengono categorie tipicamente occidentali (come ad esempio la teosofia). Continue Reading

“Essere o Non Essere”: non è questo il problema

Nel mese di novembre del 2014, l’Università di Macerata ha organizzato un convegno interdisciplinare dal titolo “Assoluto e Relativo”. Molto apprezzabile mi è sembrato l’intento alla base dell’iniziativa: raccogliere tentativi di ragionamento in termini assoluti, e non assolutistici, per trovare risposte soddisfacenti alle derive relativiste della contemporaneità.

Fin dal primo intervento, si è proposta la domanda fondamentale: “che cosa compete all’assoluto, l’Essere o il Non Essere?” Come ha immediatamente fatto notare il professor Francesco Totaro nel suo intervento Assoluto, relativo, prospettiva, in Occidente è stato Parmenide a dettare la via, mettendo direttamente in bocca alla Verità queste parole:

Quale origine vuoi cercare? Come e donde il nascere? Dal Non Essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è
(Parmenide, Frammento 8) Continue Reading

Per un paradigma non dualistico della corporeità

Nuova Asia 1600ca

In questo breve scritto cercherò di illustrare come, al di là di alcune correnti filosofiche che si sono avvicendate nel Novecento, esista un modo alternativo e ad esse complementare per sollevare obiezioni a un dualismo tra anima e corpo. Nella prima parte cercherò di avvicinarmi al lavoro di François Jullien mostrando come secondo la sua interpretazione il pensiero cinese abbia percorso una via diversa da quella del dualismo per considerare il rapporto anima-corpo, preferendo una polarità dinamica immanente. Cercherò di insistere sulla possibilità di utilizzare queste risorse concettuali per mobilitare – nella seconda parte – una concezione del corpo diversa da quella tradizionale come sottoposto al canone monopolizzante della bellezza o del meccanicismo, sperando di proporre due tematiche e due possibili linee di riflessione che integrino teoresi e prassi. Continue Reading

Le radici filosofiche del confucianesimo

Prima di proseguire lungo il cammino che ci porterà ad esplorare alcune delle idee e delle suggestioni che – attraversando la Via della Seta –  sono giunte fino in Europa, è indispensabile aprire una finestra sui valori che di quel mondo sono stati il fondamento. Addentrarsi fino alle radici del pensiero orientale non è compito semplice, perciò, risulta quanto mai prezioso affidarci ad una guida esperta. Il confucianesimo di Maurizio Scarpari è senz’altro uno dei testi più adatti per iniziarci alla sapienza del mondo cinese. Una civiltà che al di là dai deserti aridi dell’Asia centrale, ha saputo scavare al proprio interno fino a trovare il seme di una morale capace di tradursi in disegno politico, e da lì, ispirare una storia lunga più di quattromila anni. In un percorso che, lungi dall’averla svilita, all’inizio del terzo millennio la trova anzi, più vigorosa e in salute che  mai, pronta a giocare quel ruolo da protagonista della scena mondiale al quale da sempre si sente vocata. Perché se è vero che tianxia, il mondo sotto il cielo, ha notevolmente esteso i propri confini rispetto a quello delle prime dinastie, è altrettanto vero che a questa Cina non mancano di certo la forza e la mentalità per ergersi a faro. Come andrà a finire sarà solo il tempo a dircelo, intanto però, cominciamo a capire come tutto ha avuto inizio.

Le radici confucianesimo

C’è un legame molto profondo tra la storia del pensiero cinese e la sua matrice mitologica. Esso affonda senza timore le proprie radici nel regno del mito, in una dimensione velata dalla foschia che avvolge l’inizio stesso della civiltà, e da lì, protende i propri rami, carichi di frutti, oltre le nebbie del tempo, fino ai giorni nostri. Ed è già qui che si mostra chiaramente uno dei valori fondanti, del confucianesimo prima, ma in seguito dell’intera tradizione cinese: una concezione del passato come sorgente di saggezza e sapere. 

È proprio dalla fede in questo presupposto che prende forma il pensiero Kongzi (550-479 a.C.), o come abbiamo imparato a conoscerlo noi occidentali, Confucius. Cioè dalla necessità di trovare un appiglio ideologico cui aggrapparsi per fronteggiare e arrestare la degenerazione politica e sociale che ha accompagnato il lento disgregarsi della dinastia Zhou (1046-256 a.C.). Laddove gli uomini contemporanei mostravano segni di debolezza e corruzione, il Maestro trovò nella narrazione – vera o meno che importa – delle gesta dei re-saggi del passato, il seme per fondare una nuova morale capace di guidare l’intera società, verso la virtù. 

Il confucianesimo dunque, è un sistema di pensiero che nasce come risposta ai propri tempi, la formulazione dei presupposti di una vita esemplare – che proprio dalla volontà di seguire un esempio ha origine – regolata da solidi principi etici capaci di condurre l’individuo e la comunità intera, verso l’armonia. Di questa vocazione comunitaria, il corpus degli insegnamenti di Confucio non porrà mai in secondo piano l’importanza, anzi, si può dire senza timore che le raccolte stesse delle sue massime sono frutto di un percorso di confronto e condivisione. È  impossibile infatti, attribuire con certezza al Maestro la stesura delle formulazioni più antiche dei suoi Dialoghi, il Lunyu, e lo è altrettanto affermare che tutto quanto gli viene attribuito sia suo. Tuttavia, il valore di quanto in essi contenuto non viene minimamente scalfito da tale ombra, perché se non fu l’uomo, fu senz’altro il germe contenuto nelle sue riflessioni a dare origine ad ognuna di quelle parole. Tanto basta. Nel desiderio di tramandare e far evolvere il pensiero del Maestro, i suoi allievi hanno reso un servizio prezioso non solo a lui, ma a tutta l’umanità. 

Altrettanto fondamentale nel pensiero confuciano, è la centralità della dimensione umana a discapito della speculazione. Questa matrice pratica, che verrà poi sfruttata dal mondo cristiano, e da Matteo Ricci in particolare, per instillare gocce di fede in una cultura votata all’agire etico, sarà uno degli elementi cardine del proprio successo. Nella Cina degli albori come in quella odierna. Perché è proprio nel suo desiderio di promuovere l’ordine sociale necessario a contrastare le incertezze della politica di allora, che ancora oggi, il confucianesimo, si pone come una forma eccezionale di educazione civica. Ed è in tale veste che ora come allora, ci incalza con la sua capacità di proporre linee di condotta tanto semplici quanto condivisibili e sempre attuali. Qui sta senz’altro il più grande successo del pensiero di Confucio, nell’aver saputo trovare nel passato più remoto i germogli da piantare nel presente affinché un nuovo futuro, un futuro migliore, fiorisca.

La via del dao e la ricerca dell’equilibrio
Che fra le intenzioni di Confucio non ci fosse quella di fondare una nuova religione o di dare vita ad un pensiero mistico, appare chiaramente dalle sue parole: «Dedicarsi a ciò che è giusto per il popolo e mostrare rispetto per spiriti e divinità pur tenendoli a debita distanza, è indice di sapienza». Rimarrà perciò deluso chiunque, in questo pensiero, cerchi una dimensione spirituale analoga a quella che si può invece trovare nel daoismo. Una corrente di pensiero che nasce negli stessi anni del confucianesimo e intorno ad un concetto che anche in questo svolge un ruolo fondamentale, il dao, ma che ben presto, si discostò dalla dimensione umana, in cerca di qualcosa di più.
Che cos’è il dao? Innanzitutto, per poterci avvicinare ad un concetto tanto fluido, è fondamentale chiarire che esso, perlomeno nel confucianesimo, non ha nulla a che fare con la divinità. Essa piuttosto, è riconducibile a Tian, il Cielo. Lungi dall’assegnare sembianze umane dunque, la tradizione cinese ripone nell’elemento naturale che più di tutti sovrasta e veglia sul mondo, il ruolo di simbolo del divino. È proprio da questa entità distante, più simile a un supervisore che a un protagonista delle vicende del mondo, che Confucio impara il valore del silenzio. Già gli antichi saggi  «trattenevano le parole per timore di non riuscire a dar loro seguito nella pratica», tuttavia qui si tratta di un piano diverso. Non è il silenzio del timore, ma quello della consapevolezza che Confucio scopre nel Cielo. Non c’è bisogno ch’egli parli o si spieghi, la sua opera è sempre presente e visibile «Non se ne vede il lavoro, ma se ne vede l’effetto», questa è la saggezza che ci insegna il Cielo, agire senza agire, perché c’è già sempre un agire al di là del nostro non agire. Essere modelli con il nostro comportamento e lasciare che sia questo a parlare per noi e a irradiarsi come forza morale per le persone intorno a noi. Così nasce un maestro, imparando il silenzio di Tian. E il dao è la grande strada da percorrere per diventare capaci di una simile saggezza. 

Wen è il primo passo, la cultura, elevarsi attraverso lo studio e l’educazione pone l’individuo in sintonia con il dao e lo aiuta a migliorare la propria posizione sociale – effetto inscindibile dal cammino lungo la via che conduce alla virtù – e a contribuire alla crescita armoniosa della società. «È l’uomo che può rendere grande il dao, non il dao che può rendere grande l’uomo», e lo studio continuo dei grandi insegnamenti del passato è l’elemento fondamentale per avere la conoscenza necessaria a destreggiarsi nei diversi contesti che la vita ci sottopone. Ecco dunque un altro carattere fondamentale della via confuciana, essa non è un immutabile statico al pari dei 10 comandamenti, essa non va scolpita su pietra e tramandata identica a se stessa per tutti i secoli dei secoli. Tutt’altro. «Solo chi comprende a fondo il nuovo sulla base di un’attenta analisi di quanto è già noto è degno di diventare maestro», perché la mutevolezza dei momenti fa sì che neppure il riprodurre fedelmente ogni scelta già presa dagli antichi saggi possa, di per sé, essere garanzia di un agire virtuoso. Occorre saper scegliere, saper pesare con estrema attenzione le proprie scelte, avendo la capacità di riflettere prima, sulle conseguenze che queste comporteranno per noi e per gli altri. È questa la facoltà che contraddistingue il sovrano illuminato come il saggio, è ming, «la capacità di comprendere ogni situazione valutandola simultaneamente  e con lucidità da tutte le angolazioni possibili, liberi da ogni pregiudizio o vincolo». Solo attraverso lo studio si può sperare di limare la materia grezza che dà forma all’uomo, e ne offusca il giudizio, per condurlo al giusto equilibrio.Per far sì che raggiunga la condotta virtuosa e si erga a modello capace di influenzare gli altri.

Ad aiutarci in questo difficile compito ci sono i li, l’insieme di norme comportamentali e riti che la tradizione ci ha riportato quali binari per dare un assetto stabile alla propria persona. È dunque dal mantenere in equilibrio gli insegnamenti, i li e yi (la capacità di un giudizio morale) che discende la possibilità di vivere in sintonia con il dao, con il cammino che conduce alla virtù. Come preciserà Xunzi, uno degli allievi più importanti di Confucio «Il dao degli antichi sovrani consiste nell’esaltare l’amore per il prossimo e nel metterlo in pratica seguendo la dottrina del giusto mezzo (zhong). Che cosa s’intende con giusto mezzo? Avere un comportamento appropriato nel rispetto dei riti e delle norme di comportamento (liyi). Il dao non è il dao del Cielo e nemmeno il dao della Terra: è il modo in cui l’uomo si comporta (dao), il modello che la persona esemplare segue (dao)».

Il junzi e la società giusta
La decisione del proprio comportamento è dunque un momento fondamentale del vivere sociale che, per essere misurabile, deve poggiare su parametri oggettivi di decisione e su una capacità di giudizio legata alle norme. Junzi è il nome che viene dato a colui che sa costruire in modo armonioso la propria personalità e sa comportarsi in modo adeguato grazie al rispetto dei li e di yi, anteponendo l’amore per il prossimo all’interesse personale come in una famiglia. Ed è all’interno della famiglia che tutto inizia, è alla sua basilarità che il confucianesimo si ispira come alla matrice naturale sulla quale si basa ogni rapporto umano. Qui, l’amore e il rispetto dei vincoli familiari – in particolare la sottomissione del figlio al padre – sono il fondamento dell’equilibrio, ed è a questi stessi principi che la società deve rifarsi, se vuole mettere in atto un equilibrio altrettanto solido e fecondo. Così come è fondamentale, per l’individuo virtuoso, saper irradiare in direzione del prossimo, i medesimi valori che coltiva all’interno della propria famiglia. Di tutti, il più importante è senz’altro il ren, l’amore verso il prossimo, è questo ideale dinamico che deve accompagnare ogni tappa del percorso di crescita dell’individuo affinché possa, con il suo operato, far crescere l’intera società. Ed è proprio da questa centralità del rapporto con gli altri che nasce la seconda virtù confuciana per eccellenza: shu, «non imporre agli altri ciò che non desidereresti per te stesso». È grazie a shu che Confucio riesce a delineare il metodo del ren, ossia lo spingerci nei panni del prossimo per migliorare la capacità di comprendere e valutare le nostre azioni in funzione della relazione con gli altri. A queste due si affiancano zhong, la virtù che prescrive di fare sempre il proprio dovere, xin, la sincerità, e yi, che come abbiamo già detto è la capacità di giudicare in modo appropriato. Seguire questi modelli significa pòrci sulla via per diventare simili ai saggi dell’antichità e raggiunge la dimensione dello shengren (il saggio). Tuttavia, essa pare più come un ideale di riferimento che non come una dimensione realmente alla portata dell’uomo, che, piuttosto, secondo Confucio, deve ambire alla dimensione dello junzi, della persona esemplare per virtù e nobiltà d’animo.

Il ritorno di un vecchio saggio
Il modello di società proposto da Confucio dunque, coglie nel mantenimento dell’equilibrio l’elemento fondamentale di ogni benessere. Esso infatti, comprende chiaramente che non ha senso tentare di far prevalere, una volta per tutte, un valore sul suo opposto, yin su yang, o viceversa, ma che è importante far sì che essi si trovino inarmonia e nessuno dei due tenti di prevalere sull’altro. Ben vengano dunque anche l’esercizio della violenza e delle armi, se necessari a correggere chi disattende alle direttive del sovrano, perché infondo, si configurano come mezzo per il mantenimento dell’ordine. Il quale però, va promosso anche attraverso altre vie. Tanto più che le contingenze della vita, rendendo impossibile a molti l’accesso allo studio e quindi all’elevazione, rischiano di trasformare il popolo in una pedina al servizio di fomentatori e rivoltosi, che nella rottura dell’equilibrio vedono la propria via d’accesso al potere. È per questo che è parimenti importante per il sovrano mostrarsi retto, oltre che autorevole,perché «se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine con le punizioni, il popolo cercherà di evitare le punizioni e non proverà vergogna per le proprie mancanze. Se invece si governa con magnanima virtù e si mantiene l’ordine con i li, il popolo proverà vergogna per le proprie mancanze e si correggerà». Ancora una volta dunque, è nell’innalzarsi che sta il segreto per far sì che anche gli altri si innalzino con noi e si possa, tutti insieme, dar vita ad una società retta.

Innalzando una condotta basata su rispetto e amore per il prossimo, il confucianesimo ha favorito l’emersione di una civiltà capace non solo di far prevalere l’istinto comunitario sull’individualismo, ma anche di fare proprio di tale caratteristica il suo maggior punto di forza. Per questo non è un caso che la Cina contemporanea abbia saputo cogliere in Confucio quel il saggio maestro del passato capace di ispirare il futuro, che egli stesso, a suo tempo, aveva cercato nei saggi-re dell’antichità. Già una volta questa scelta ha permesso alle genti dello Zhongguo (Stati del Centro, come la Cina chiamava se stessa anticamente) non solo di unificarsi all’insegna di una stessa identità culturale, ma anche si riunire e dominare su tutto il tianxia; perché non dovrebbe poter funzionare di nuovo?  

Europa e Cina sotto le lenti dei filosofi di ieri e di oggi

Odi et amo. È forse questa l’espressione che meglio di tutte riesce a cogliere la natura del rapporto tra Occidente e Oriente, per lo meno per come lo si percepisce da Occidente. Tutto, e il suo contrario, contemporaneamente. Come nella dottrina dei contrari di Eraclito, questi due momenti del mondo vivono una perenne contrapposizione – ieri più geografica e culturale, oggi economica e politica – all’interno della quale però, in sporadici punti di contatto, hanno saputo scoprirsi molto più simili di quanto non potesse sembrare.

Fra le tante voci che hanno contribuito ad approfondire questo guardarsi da lontano – spesso troppo lontano – una delle più autorevoli è senz’altro quella di Eugenio Garin, celebre storico della filosofia che nel 1975, con il suo saggio Alla scoperta del “diverso”: i selvaggi americani e i saggi cinesi, contenuto nella raccolta Rinascite e rivoluzioni, s’interrogava sul ruolo giocato dalla Cina nell’evoluzione della civiltà europea nell’età moderna.

Dopo di lui, un altro studioso che più si è prodigato affinché tali punti di convergenza potessero emergere e rendersi visibili a beneficio di entrambe le parti è Filippo Mignini. Docente universitario presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, Mignini è stato anche direttore dell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente. Nel suo Europa e Cina, uscito in questo turbolento 2020, Mignini tenta di ricostruire le tappe fondamentali del percorso di assimilazione del pensiero orientale dall’Europa illuminista, per farne il punto di partenza di una speculazione che allunga il suo sguardo fino al futuro prossimo.

Due voci che partendo da punti diversi, cercano di accorciare le distanze, per lo meno dal punto di vista mentale, fra due mondi che proprio nel dialogo basato sulle reciproche differenze potrebbero trovare la chiave per un nuovo mondo. Continue Reading