L’importanza di non essere un pipistrello

L’esperimento mentale del filosofo americano Thomas Nagel, pubblicato su The Philosophical Review nell’ottobre del 1974, mira a confutare le ipotesi fisicaliste e riduzioniste che intendono spiegare il rapporto tra mente e corpo in termini puramente biologici. Nagel, ponendo una serie di problemi che s’incentrano essenzialmente sul ruolo della coscienza e su quello della soggettività individuale, parte da questo presupposto: anche se conoscessimo tutta la meccanica del cervello, anche se fossimo in grado di mappare ogni cellula che costituisce la nostra materia grigia, noi non comprenderemmo mai che cosa significhi fare un’esperienza spirituale, percepire un oggetto o provare delle emozioni. La ragione è semplice: nel momento in cui appare qualcosa alla coscienza, significa che appare qualcosa che equivale al come essere una certa altra cosa. Per dimostrare ciò, egli ricorre alla finzione di pensare a cosa si prova ad essere un pipistrello.

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Wittgenstein e la distruzione del cogito cartesiano

Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l’esperienza per cui si è desiderato avere delle parole speciali per descrivere un momento speciale. Le parole a disposizione erano insufficienti e si avrebbe voluto avere un proprio linguaggio creato appositamente per la sensazione che si stava vivendo. Il desiderio sarebbe stato sensato? Sarebbe pensabile cioè un linguaggio in cui si potesse esprimere le proprie esperienze per uso personale? In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze interiori? In che modo designo le mie sensazioni con le parole?

Tutte domande che Wittgenstein si pone continuamente, non solo nelle sue Ricerche Filosofiche. E la sua risposta è negativa: un linguaggio privato non solo non si costituisce ma non è nemmeno pensabile. Nel suo stile irrequieto, frenetico, mai sistematico, egli utilizza almeno tre blocchi di argomenti: la definizione ostensiva (“questo è S”), la sensazione del dolore e la natura dei colori. In tutti questi casi, il filosofo austriaco intende demolire alla radice l’idea che un soggetto, nominando qualcosa, voglia indicare qualcosa che a sua volta si possa distinguere in reale ed irreale. Non esiste cioè una prospettiva ontologica che parta dal soggetto: l’idealismo, come dice in una sua lezione, si lega soprattutto ai dati di senso visivi. In parole più chiare, per chi è abituato a ragionare in filosofia aiutandosi con la storia della filosofia, Wittgenstein ha come riferimento polemico Cartesio e il cogito cartesiano, il cuore stesso dell’idealismo.  Continue Reading

Gli esploratori allo sbaraglio e la voce nel deserto

All’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger piace cimentarsi con tematiche di carattere filosofico. Un paio di anni fa un suo articolo dedicato ai problemi posti dall’intelligenza artificiale dal titolo How the Enlightments End (Come finisce l’Illuminismo) ha fatto parecchio discutere. La tesi era quella secondo cui il nostro tempo si troverebbe nella situazione opposta a quella dell’Illuminismo: mentre quest’ultimo sarebbe nato da idee filosofiche poi sostenute e diffuse dalle nuove tecnologie, il nostro tempo avrebbe generato una tecnologia ancora alla ricerca di una filosofia che le faccia da guida. Kissinger affrontava e dava risposta ad un tema classico del pensiero, quello del rapporto tra filosofia e scienza che, nella storia della filosofia, è stato più volte e a vario titolo oggetto d’indagine. Da questo punto di vista, Bacone e Popper, rispettivamente con la tesi del primato della scienza e di quello della filosofia, sono tra i pensatori che maggiormente hanno dedicato la loro attenzione su tale problema. Diversa la strada presa da Emanuele Severino il quale ha invece suggerito una terza quanto inaudita modalità di porre la questione. Essa, varie volte indicata nei suoi scritti, è stata formulata in uno dei suoi libri essoterici più noti, A Cesare e a Dio del 1983, con la metafora degli esploratori allo sbaraglio.  

«Dalla linea di frontiera della scienza partono verso l’ignoto avventurosi esploratori senza equipaggiamento adeguato, con  molti entusiasmi e poche speranze di ritorno. (Qualcuno è anche uomo di scienza che però la scienza non se la porta dietro).  A volte, di rado, qualcuno ritorna con qualche notizia utile per chi è rimasto.  Sempre trovata per caso.  Colpi di fortuna. Si organizza allora un corpo di spedizione che costruisce mappe e strade e riesce a strappare al deserto, come si suol dire, un altro lembo di terra. E la scienza “fa un passo avanti”. Ma la maggior parte dei suoi passi avanti la scienza è convinta di farli anche e soprattutto durante l’assenza di quegli esploratori allo sbaraglio.  Il resto è accessorio. Quegli esploratori possono essere considerati indispensabili da parte di qualche amico della scienza in vena di generosità, ma più spesso sono guardati con compatimento; li si può decorare sul campo, quando la scienza vuol mostrare di essere di ampie vedute, ma il più delle volte si constata che quando ritornano hanno soltanto abiti sbrindellati e notizie confuse.
In questa situazione capita anche che qualche avventuriero indossi abiti sbrindellati, si sporchi il viso di fango, faccia qualche passo oltre la linea di frontiera, dia sfogo alla sua fantasia inventando banali avventure e torni indietro presentandosi come un “filosofo”. C’è sempre qualcuno disposto a credergli. Si trova così il modo (ma non è certamente il solo) di scrivere libri, e in particolare libri “facili” che chiunque può leggere con piacere perché si accorge che le cose raccontategli dall’avventuriero le sapeva già anche lui. E questo gli dà la possibilità di sentirsi anche lui un esploratore e un “filosofo”».

Come si vede, Severino ironizza sulla filosofia intesa come terra di nessuno, luogo in cui avviene l’esplorazione di concetti nuovi, spesso residuali rispetto alle grandi edificazioni della religione e della scienza.  Quello della filosofia come esplorazione allo sbaraglio (o come terra di nessuno) è un grande mito che dimentica la grandezza della vera filosofia che dimora in un sottosuolo ancora più sconosciuto.

I grandi pensatori dell’Occidente non sono gli esploratori ma le voci nate nel deserto, le quali hanno consentito la nascita delle oasi in cui consiste la civiltà occidentale (tecnica, ideologie, ecc.). Continuando nella metafora, Severino sostiene che da quelle oasi continuano a partire corpi di spedizione i quali si imbattono in relitti, scheletri e altri resti i quali, opportunamente raccolti, vengono sistemati in cimiteri comuni: ecco spiegata la storia della filosofia che è la vera storia della follia, a causa dell’evocazione del suo concetto centrale, quello di divenire, ovvero l’andare degli enti dall’essere al nulla. 

In realtà, continua Severino, bisogna uscire da quel mito e abbracciare lo sguardo che comprende sia il deserto che l’oasi.  Quest’ultima infatti non si contrappone al deserto ma è il deserto stesso che cresce, «il frutto del seme che il grande grido della follia ha lasciato nella sabbia». Lo sguardo che vede tutto ciò, ovvero sia il deserto sia l’oasi che le appartiene, è «lo sguardo della Gioia la quale sta già da sempre al di là del deserto e dell’oasi». Questo significa che prima della filosofia, prima della scienza e prima della religione, prima del bene e del male, esiste uno sguardo non neutro, vero e proprio sguardo divino, nel quale risiede la beatitudine eterna. Questo sguardo sta al di là della filosofia così come l’ha pensata l’Occidente, ed esso rivela un’anima ancora più sconosciuta in cui già da sempre sappiamo di essere la Gioia del tutto. Se questo è vero, la risposta al dilemma iniziale di Kissinger è presto data: la scienza del nostro tempo non è alla ricerca di alcuna filosofia perché essa stessa è già nata dalla filosofia di cui costituisce l’espressione ultima e più avanzata. Il vero problema è che questa scienza e questa filosofia sono entrambe espressioni della follia estrema.

 

Fred, Mary e gli altri. Poi c’è Severino.

Il fisicalismo è quell’insieme di dottrine filosofiche e scientifiche secondo cui tutto ciò che è conoscibile del mondo proviene solo ed esclusivamente dalla fisica. Si tratta della tendenza riduzionistica, oggi dominante, contro la quale non sono mancati argomenti per la sua confutazione, anche nell’ambito della stessa filosofia analitica. Tra questi l’esperimento mentale, definito come “argomento della conoscenza”, del filosofo australiano Frank Jackson, facente perno sui concetti di qualia, genericamente definiti come quegli elementi che costituiscono l’aspetto soggettivo dell’esperienza cosciente. Si tratta di una tesi talmente debole che lo stesso filosofo ebbe più tardi a ritrattarla per capitolare nelle braccia dei riduzionisti. Ben altro spessore chi, al contrario, anziché su argomenti di carattere empirico (o supposti tali) ha fatto leva su ragionamenti di carattere logico e metafisico, come il nostro Emanuele Severino.

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L’importanza di non essere un pipistrello

L’esperimento mentale del filosofo americano Thomas Nagel, pubblicato su The Philosophical Review nell’ottobre del 1974, mira a confutare le ipotesi fisicaliste e riduzioniste che intendono spiegare il rapporto tra mente e corpo in termini puramente biologici. Nagel, ponendo una serie di problemi che s’incentrano essenzialmente sul ruolo della coscienza e su quello della soggettività individuale, parte da questo presupposto: anche se conoscessimo tutta la meccanica del cervello, anche se fossimo in grado di mappare ogni cellula che costituisce la nostra materia grigia, noi non comprenderemmo mai che cosa significhi fare un’esperienza spirituale, percepire un oggetto o provare delle emozioni. La ragione è semplice: nel momento in cui appare qualcosa alla coscienza, significa che appare qualcosa che equivale al come essere una certa altra cosa. Per dimostrare ciò, egli ricorre alla finzione di pensare a cosa si prova ad essere un pipistrello.

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Gige e l’anello dell’ingiustizia

Il mito dell’anello di Gige, da equiparare ad un vero e proprio esperimento mentale, si trova all’inizio del secondo libro della Repubblica di Platone. Il tema, accesissimo fin dal libro precedente, è quello della giustizia. Socrate, di ritorno dal Pireo dove aveva partecipato ad una processione religiosa, viene fermato da alcuni amici i quali gli comunicano senza mezzi termini che, a meno che egli non sia più forte di tutti loro, dovrà rinunciare a tornare in città. Contro la sua volontà, Socrate è così costretto a fermarsi e a subire la discussione, chiaro indice di riluttanza ad affrontare un tema delicato, forse insolubile. Del resto egli è il primo a riconoscere, come farà nell’Apologia di Socrate, che non sarebbe riuscito ad arrivare alla sua età se avesse fatto vita politica schierandosi sempre dalla parte del giusto.

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Il coniglio gavagai e l’improbabile compito della traduzione

Se c’è una tradizione di pensiero a cui dev’essere attribuita la fortuna degli esperimenti mentali, questa è sicuramente la filosofia analitica. Fin dalla sua nascita, essa si caratterizza per l’uso abbondante di casi ed altri esempi controfattuali grazie ai quali dimostrare le sue teorie. Uno dei più famosi è l’esperimento della traduzione radicale, riguardante il problema della comprensibilità degli enunciati linguistici. Formulato dal filosofo americano Willard van Orman Quine (1908-2000) nel testo Parola e oggetto pubblicato nel 1960, l’esperimento mentale prende in esame la questione relativa alle modalità con le quali le espressioni linguistiche ricevono determinati significati. L’ipotesi dell’incontro tra due individui che non conoscono la lingua dell’altro, dimostra, secondo il suo autore, che i significati non possono e non devono essere presupposti: la conseguenza di ciò è che le frasi pronunciate in una lingua diversa da quella a cui apparteniamo, non sono né traducibili né tantomeno comprensibili. Anche perché, come diceva un altro esponente della filosofia analitica, Hilary Putman, i significati non sono nella testa: la conseguenza è la distruzione del procedimento logico che trasforma le rappresentazioni in concetti.

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Il peso più grande e la solitudine dalle sette pelli

La dottrina dell’eterno ritorno di Nietzsche conosce diverse formulazioni e numerosi ripensamenti. Basti pensare alla domanda contenuta in Al di là del bene e del male quando egli si chiede se quel pensiero non fosse per caso un circulus vitiosus deus: comunque la s’intenda, rimane che per Nietzsche la dottrina dell’eterno ritorno stabilisce in modo nuovo l’essenza della religione delle anime libere e serene ed in questo senso essa è concezione radicalmente anticristiana. Non entriamo nella discussione se l’eterno ritorno sia considerato da Nietzsche una fede (così come vuole Heidegger) oppure un aspetto teoretico necessario del suo pensiero (secondo l’interpretazione di Severino). Quello che ci importa mettere oggi in evidenza sono soltanto alcuni aspetti problematici di questa visione che continua a rimanere una sorta di rimosso, esperimento mentale che mette in crisi una delle più solide acquisizioni del pensiero occidentale, quella relativa al concetto di tempo, su cui è fondato ogni altro aspetto dell’esistenza dell’uomo.

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Genius malignus and Friends

Apparenza o realtà? Falsa illusione o vera conoscenza? Sogno o son desto? Interrogativi vecchi quanto il mondo che hanno alimentato la filosofia fin dal suo nascere. A rappresentarli per tutti è l’esperimento mentale principe in materia, quello di Cartesio e del suo genio maligno, che crea immagini e percezioni ingannevoli per indurlo alla credulità del mondo che gli sta attorno. L’esperimento di Cartesio non è stato il primo così come non è stato e non sarà l’ultimo. Fin dall’antichità, il problema della conoscenza vera attraverso gli esperimenti mentali ha conosciuto in letteratura degli esempi che somigliano molto a quello del filosofo francese. In epoca moderna poi, a seguito dello sviluppo delle tecnologie e delle simulazioni computerizzate, i casi e le ipotesi teoriche si sono moltiplicate tra gli studiosi di filosofia fino ad estendersi all’ambito della fiction contemporanea.  Per tutti ci sono premesse e obiezioni che vale la pena ricordare.

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La grotta di Posillipo, vedi Napoli e non muori

Le caverne sembrano essere un luogo particolarmente adatto per comunicare i significati più profondi della filosofia. Con la mente a Platone e al suo celebre mito, Schopenhauer deve aver pensato questo nel momento in cui riformulava per l’ennesima volta quel suo unico pensiero attorno al quale si espandono in modo organico i suoi scritti: la volontà è l’essenza del mondo. Del resto, metafore, esempi, similitudini sono strumenti per lui consueti: nel Mondo come volontà e rappresentazione se ne contano a decine soprattutto nel secondo volume. Dai porcospini, per spiegare i rapporti tra gli uomini, alla finanza, per illustrare il funzionamento della rappresentazione, le metafore sono utilizzate per gli argomenti più vari. A volte anche per comunicare l’importanza del suo contributo alla filosofia: come Lavoisier, scindendo l’acqua in idrogeno e ossigeno, aveva dato vita ad una nuova era della fisica e della chimica, così Schopenhauer, dividendo il corpo in volontà e rappresentazione, aveva inaugurato una nuova metafisica. Con la grotta di Posillipo, un tunnel di oltre settecento metri nel cuore di Napoli (nota anche come grotta di Virgilio), Schopenhauer aggiunge un’esperienza di grande suggestione per indicare la volontà, principio monistico della sua filosofia.

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