Logica e Linguaggio per la Storia

In una conferenza del 1924 sul concetto di tempo, Heidegger sosteneva che «la possibilità di accedere alla storia si fonda sulla possibilità secondo la quale un presente sa essere di volta in volta futuro. (…) La filosofia non arriverà mai a capire la storia fintanto che la analizzerà come oggetto da considerare secondo il metodo. L’enigma della storia risiede in ciò che significa essere storico» e questo enigma è determinato interamente dal modo in cui viviamo il nostro rapporto con il tempo. Continue Reading

Antropocene e antropocentrismo

Si è iniziato a parlare di Antropocene solo nel 1999. In quell’anno, a Città del Messico, ad un congresso sull’Olocene, il chimico dell’atmosfera Paul Crutzen, premio Nobel nel 1995, pronunciò per la prima volta il termine Antropocene. L’Olocene è ufficialmente l’epoca nella quale viviamo, un’era iniziata all’incirca 11.700 anni fa; l’Antropocene è invece la rapidissima evoluzione del nostro tempo geologico, rappresentata da un grado di variazione rispetto al recente passato così ampio da evidenziare una spaccatura radicale e profonda. Continue Reading

La Storia pensata dalla linea di lotta

Come per Heidegger, anche per Hannah Arendt l’indagine sulla storia è centrale per stabilire il destino dell’uomo. Per entrambi è necessario un “salto”. In che modo? Arendt, a differenza di Heidegger, ha il pregio di ripercorrere in modo puntuale i percorsi filosofici tramite i quali si è arrivati alla condizione odierna mostrando, riferendosi alla parabola di Egli tratta da un racconto di Kafka, come quel salto sia reso difficile dal fatto che l’uomo è stretto tra due forze antagoniste, quella del passato e quella del futuro, in cui rischia di soccombere. La prospettiva è quella già profetizzata da Tocqueville: «Siccome il passato ha smesso di gettare luce sul futuro, la mente dell’uomo vaga nell’oscurità».
Nonostante ciò, Arendt non cessa di fare affidamento sul pensiero, unica risorsa dell’uomo contro la catastrofe. In Tra passato e futuro pubblicato nel 1961, la scrittrice (come usava definirsi) si esercita in otto saggi il cui unico obiettivo è quello di acquisire esperienza su come pensare. Tra di essi spicca Sul concetto della storia il quale riunisce molteplici spunti, a volte di difficile lettura, a volte tortuosi e tali da apparire fuorvianti ma il cui filo non è difficile rintracciare. Continue Reading

La Storia non siamo noi ma l’Essere

La distinzione tra storia (Geschichte) e storiografia (Historie) è una delle chiavi essenziali per comprendere il pensiero di Heidegger. La distinzione risale ad Essere e Tempo ma viene radicalizzata negli anni trenta quando il filosofo tedesco indica nella storiografia uno degli aspetti più invasivi del pensiero calcolante, cioè del predominio dell’ente sull’essere.

Nell’opera principale infatti la storiografia rimane ancora radicata nella struttura ontologica dell’Esserci. Questo significa che i materiali della storia (resti, monumenti, fonti di vario tipo) sono documenti che ancora valgono per l’accesso alla vita autentica. L’aspetto interpretativo ermeneutico è ancora predominante e funzione della storiografia è quella di tematizzare l’esserci storico, svelando cioè nel singolare l’universale. Si tratta di un’impostazione presa a prestito da Nietzsche che, nel saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, aveva individuato nella storia antiquaria, monumentale e critica le eccezioni positive ad una generale incompatibilità della storia per la vita.

Negli anni trenta la distinzione tra storia e storiografia diventa invece vera e propria separazione di ambiti. La storiografia, nei Contributi alla filosofia, appartiene ora alla cosiddetta risonanza, ovvero la consapevolezza compiuta del nichilismo per il quale il pensiero dell’ente ha abbandonato quello dell’Essere. In questo contesto, vera e propria conseguenza della metafisica, Heidegger intende per storiografia «la spiegazione che fissa il passato dall’orizzonte delle attività calcolanti del presente». Essa, cioè il modo in cui l’uomo narra e vive solitamente la storia, è avvolta dalla più totale negatività. Negatività della quale (sia detto per inciso)  l’uomo non sa nulla tanto egli è immerso nell’esperienza vissuta della macchinazione. Continue Reading

L’evaporazione del tatto

Dove sta andando oggi il cinema? Da “cinema della crisi”, il cinema è entrato in crisi esso stesso. Con l’intento di descrivere il periodo di crisi che stiamo vivendo da decenni, il sistema stesso è entrato in crisi senza riuscire più a uscirne, ma innescando un processo di ricerca di soluzioni che stentano ad arrivare e giungendo così ad un semplicistico tentativo di cercare di perpetuare se stesso per non morire.

Soprattutto negli ultimi anni è diventato evidente un modus operandi per cui si cerca da un lato di andare sul sicuro, riproponendo modelli vincenti e che abbiano un sicuro riscontro economico, come ad esempio la proliferazione dei film sui supereroi, dall’altro lato la crisi sembra essere diventata anche creativa e ci si spinge sulla sponda sicura delle storie già scritte e raccontate in altri modi, come ad esempio la pratica del remake di pellicole di successo del passato o prodotte in altri paesi. Un esempio su tutti che sembra essere indicativo. Il film del 2016 Perfetti sconosciuti del regista italiano Paolo Genovese non solo è stato venduto in tutto il mondo e visto nella sua versione originale da milioni di spettatori sparsi in tutto il pianeta, ma è stato rifatto e adattato in tantissimi altri contesti. Si è preso insomma un prodotto di successo e lo si è innestato in una diversa realtà sociale e politica. Fino ad oggi, a sette anni dalla sua uscita nelle sale italiane, Perfetti sconosciuti ha avuto ben 25 adattamenti che vanno dal primo prodotto in Grecia nel 2016 fino agli ultimi prodotti realizzati in Azerbaigian, Islanda e Danimarca nel 2023.

Se Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica parlava della perdita dell’aura artistica delle opere d’arte, oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di forse peggiore, almeno per quanto riguarda l’arte cinematografica: la perdita di ogni aspetto creativo. Siamo all’intrattenimento puro e semplice. C’è una stanca ripetizione di stilemi nella costruzione delle storie. La tecnica che viene insegnata nelle scuole di sceneggiatura diventa fine a se stessa, senza più l’anima che prima la caratterizzava: l’obiettivo è soggiogare lo spettatore. Che però si fa soggiogare sempre meno. 

Si potrebbe spiegare anche così il successo negli ultimi 10-15 anni delle serie televisive, rispetto al cinema vero e proprio.
Continue Reading

Why sexist and racist philosophers might still be admirable

Admiring the great thinkers of the past has become morally hazardous. Praise Immanuel Kant, and you might be reminded that he believed that ‘Humanity is at its greatest perfection in the race of the whites,’ and ‘the yellow Indians do have a meagre talent’. Laud Aristotle, and you’ll have to explain how a genuine sage could have thought that ‘the male is by nature superior and the female inferior, the male ruler and the female subject’. Write a eulogy to David Hume, as I recently did here, and you will be attacked for singing the praises of someone who wrote in 1753-54: ‘I am apt to suspect the Negroes, and in general all other species of men … to be naturally inferior to the whites.’

We seem to be caught in a dilemma. We can’t just dismiss the unacceptable prejudices of the past as unimportant. But if we think that holding morally objectionable views disqualifies anyone from being considered a great thinker or a political leader, then there’s hardly anyone from history left.

The problem does not go away if you exclude dead white establishment males. Racism was common in the women’s suffrage movement on both sides of the Atlantic. The American suffragette Carrie Chapman Catt said that: ‘White supremacy will be strengthened, not weakened, by women’s suffrage.’ Emmeline Pankhurst, her British sister in the struggle, became a vociferous supporter of colonialism, denying that it was ‘something to decry and something to be ashamed of’ and insisting instead that ‘it is a great thing to be the inheritors of an empire like ours’. Both sexism and xenophobia have been common in the trade union movement, all in the name of defending the rights of workers – male, non-immigrant workers that is.

However, the idea that racist, sexist or otherwise bigoted views automatically disqualify a historical figure from admiration is misguided. Anyone who cannot bring themselves to admire such a historical figure betrays a profound lack of understanding about just how socially conditioned all our minds are, even the greatest. Because the prejudice seems so self-evidently wrong, they just cannot imagine how anyone could fail to see this without being depraved.

Their outrage arrogantly supposes that they are so virtuous that they would never be so immoral, even when everyone around them was blind to the injustice. We should know better. The most troubling lesson of the Third Reich is that it was supported largely by ordinary people who would have led blameless lives had they not by chance lived through particular toxic times. Any confidence we might have that we would not have done the same is without foundation as we now know what people then did not know. Going along with Nazism is unimaginable today because we need no imagination to understand just what the consequences were.

Why do so many find it impossible to believe that any so-called genius could fail to see that their prejudices were irrational and immoral? One reason is that our culture has its own deep-seated and mistaken assumption: that the individual is an autonomous human intellect independent from the social environment. Even a passing acquaintance with psychology, sociology or anthropology should squash that comfortable illusion. The enlightenment ideal that we can and should all think for ourselves should not be confused with the hyper-enlightenment fantasy that we can think all by ourselves. Our thinking is shaped by our environment in profound ways that we often aren’t even aware of. Those who refuse to accept that they are as much limited by these forces as anyone else have delusions of intellectual grandeur.

When a person is so deeply embedded in an immoral system, it becomes problematic to attribute individual responsibility. This is troubling because we are wedded to the idea that the locus of moral responsibility is the perfectly autonomous individual. Were we to take the social conditioning of abhorrent beliefs and practices seriously, the fear is that everyone would be off the hook, and we’d be left with a hopeless moral relativism.

But the worry that we would be unable to condemn what most needs condemnation is baseless. Misogyny and racism are no less repulsive because they are the products of societies as much, if not more, than they are of individuals. To excuse Hume is not to excuse racism; to excuse Aristotle is not to excuse sexism. Racism and sexism were never okay, people simply wrongly believed that they were.

Accepting this does not mean glossing over the prejudices of the past. Becoming aware that even the likes of Kant and Hume were products of their times is a humbling reminder that the greatest minds can still be blind to mistakes and evils, if they are widespread enough. It should also prompt us to question whether the prejudices that rudely erupt to the surface in their most infamous remarks might also be lurking in the background elsewhere in their thinking. A lot of the feminist critique of Dead White Male philosophy is of this kind, arguing that the evident misogyny is just the tip of a much more insidious iceberg. Sometimes that might be true but we should not assume that it is. Many blindspots are remarkably local, leaving the general field of vision perfectly clear.

The classicist Edith Hall’s defence of Aristotle’s misogyny is a paradigm of how to save a philosopher from his worst self. Rather than judge him by today’s standards, she argues that a better test is to ask whether the fundamentals of his way of thinking would lead him to be prejudiced today. Given Aristotle’s openness to evidence and experience, there is no question that today he would need no persuading that women are men’s equals. Hume likewise always deferred to experience, and so would not today be apt to suspect anything derogatory about dark-skinned peoples. In short, we don’t need to look beyond the fundamentals of their philosophy to see what was wrong in how they applied them.

One reason we might be reluctant to excuse thinkers of the past is because we fear that excusing the dead will entail excusing the living. If we can’t blame Hume, Kant or Aristotle for their prejudices, how can we blame the people being called out by the #MeToo movement for acts that they committed in social milieus where they were completely normal? After all, wasn’t Harvey Weinstein all too typical of Hollywood’s ‘casting couch’ culture?

But there is a very important difference between the living and the dead. The living can come to see how their actions were wrong, acknowledge that, and show remorse. When their acts were crimes, they can also face justice. We just cannot afford to be as understanding of present prejudices as we are of past ones. Changing society requires making people see that it is possible to overcome the prejudices they were brought up with. We are not responsible for creating the distorted values that shaped us and our society but we can learn to take responsibility for how we deal with them now.

The dead do not have such an opportunity, and so to waste anger chastising them is pointless. We are right to lament the iniquities of the past, but to blame individuals for things they did in less enlightened times using the standards of today is too harsh.Aeon counter – do not remove

Julian Baggini

This article was originally published at Aeon and has been republished under Creative Commons.

Togliere la sordina a Machiavelli

Il 2013, come ormai noto, sarà dedicato alla celebrazione dei cinquecento anni dalla pubblicazione del Principe di Machiavelli. Ormai dall’inizio dell’anno, ogni settimana, è un susseguirsi di  convegni, seminari, trasmissioni radiofoniche, saggi e articoli sul tema in questione. L’ultimo è quello apparso oggi sul Foglio di Giuliano Ferrara. Due pagine scritte da Stefano Di Michele il quale vuole tratteggiare una lettura sui caratteri biografici e intellettuali del segretario fiorentino. Nel sottotitolo si dice che Il Principe è «il libro più importante dei tempi moderni, un impasto di arte della politica, filosofia della storia, scienza e tattica del potere, psicologia dell’esistenza affacciata sul vuoto». L’articolo, costruito in gran parte sugli aspetti biografici, si sofferma essenzialmente sulla disgrazia di Machiavelli impegnato, suo malgrado, nelle bettole e nelle osterie nelle quali trascorse la seconda parte della sua vita a causa dell’esilio nel quale fu condannato a partire dal 1512. Di Michele ricorda così come il Principe sia nato da una grande ed umanissima disperazione, «quella di un genio stanco e umiliato che tentava di tornare al centro delle cose».
E tuttavia anche questo articolo, come molti contributi che fin qui abbiamo letto in questo inizio di centenario, dimentica (chissà se più o meno consapevolmente, vista l’impostazione dichiaratamente “devota” di quel giornale) il fatto che Machiavelli è stato essenzialmente e prima di tutto un autore anticristiano. E questa verità, da cui non si può prescindere se si vuole davvero affrontare il pensiero di questo autore, ce l’ha ricordata in una recente trasmissione su Radio 3 proprio Gennaro Sasso, il più grande ed acuto studioso di Machiavelli che abbiamo oggi in Italia. Machiavelli non è tanto e solo un pensatore anticlericale (anzi si può in realtà dubitare che esso lo sia effettivamente), quanto un pensatore che ha messo in crisi i fondamenti del pensiero cristiano. Trascriviamo, perché lo merita, la parte finale del dialogo dello studioso con l’intervistatore:
Sasso: Mi sono convinto di una cosa: che questo autore non è mai stato letto nelle cose essenziali (…). È possibile che non abbiamo capito che per Machiavelli l’Italia non esisteva, non riusciva ad esistere e che bisogna fondarla in modo profondo? E che per fondarla in modo profondo bisognava realizzare una serie di riforme etico-politiche in cui il problema fondamentale fosse il rapporto con la Chiesa? Perché questo è il nocciolo del pensiero di Machiavelli. Lei prima citava la Svizzera: ma Machiavelli dice che se noi trasportassimo la sede della Chiesa romana nella incorrotta Svizzera in capo a due generazioni la Svizzera sarebbe corrotta come noi. E questo anticipa il punto per cui la storia italiana è nata…(interrotto, ndr)
Intervistatore: Ma allora questa ferita è originaria, intatta!
Sasso: Sì…sì…In questo senso Machiavelli è veramente un autore rivoluzionario che è stato messo tra parentesi, che è stato allontanato…Perché io sono convinto che anche i più grandi estimatori di Machiavelli, nel dettaglio, non hanno mai veramente detto che Machiavelli non è uno scrittore cristiano. Potrà piacere, potrà dispiacere, uno può anche rimanere indifferente per rispetto a questa questione. Scientificamente però uno ne prende atto. Machiavelli non è uno scrittore cristiano e lo dice, lo dice…e lo scrive e sposa dottrine che sono definite anti cristiane nell’ambito della cultura teologica. In un capitolo dei Discorsi Machiavelli scrive sulla eternità del mondo. Ora, quando uno dice che il mondo è eterno, vuol dire che non è creato e se il mondo è eterno non c’è Dio che lo crea. Adesso, per dire le cose in maniera molto, molto…(interrotto, sigh, ndr)
Intervistatore: Ma allora Gennaro Sasso sta elevando la categoria del non cristianesimo o anticristianesimo di Machiavelli ai fondamenti…
Sasso: Guardi, avendo avuto la ventura di studiarlo per molti e molti anni e di esserci tornato spesso, mi sono reso conto tardi di questa cosa, me ne sono reso conto tardi. Perché? Ma perché c’era un condizionamento a tenere in sordina questo tema, a considerarlo una nota di anticlericalismo…(nuovamente interrotto, sigh, ndr)
Intervistatore: Soprattutto qualcosa legato ai tempi, alla particolare corruzione, i Borgia…
Sasso: Se uno considera l’atteggiamento di un altro grandissimo personaggio contemporaneo di Machiavelli, Francesco Guicciardini, nei confronti della Chiesa, beh le pagine di Guicciardini sono ancora più potenti di quelle di Machiavelli nella esecrazione della Chiesa. Chiesa che poi, d’altra parte, il Guicciardini era costretto a servire a differenza di Machiavelli…Ma non si può dire che Guicciardini sia anticristiano…per Machiavelli sì e su questo bisogna battere l’accento: può piacere, può dispiacere ma Machiavelli è questo. Ed è per questo che non è un autore della letteratura italiana e chi si è avvicinato a Machiavelli, anche laicamente, ha messo la sordina su questo punto.
Intervistatore: Allora questa sordina l’abbiamo strappata!

Sì l’abbiamo proprio strappata, aggiungiamo noi. Ora deve decidersi a farlo anche la cultura e il pensiero storico-filosofico italiano (e possibilmente anche quello della divulgazione quotidiana) se non si vuole condannare al permanente esilio post-mortem questo straordinario pensatore.

Prospettive panoramiche

Tramonto dell'anno.

In una recente puntata di una trasmissione televisiva dove si discute, per soli 25 minuti (perché non più?), in modo alto ma comprensibile ai più, di un libro, spesso di saggistica, e dove è sempre presente una classe di un Liceo d’Italia, ho ascoltato il presentatore (noto giornalista e scrittore) dire ai ragazzi presenti in sala, più o meno, queste parole: «in Italia abbiamo bisogno che voi giovani non guardiate la situazione politica italiana ed europea con uno sguardo limitato ai giorni nostri. C’è la necessità di prospettive panoramiche sui fatti e sulle vicende che ci circondano».
Intendo prendere questo accaduto come spunto per una riflessione, se possibile, più ampia. Ammetto fin da subito che mi sono trovato in accordo con la frase sopra espressa, ho visto in questa idea un che di utile e buono alla comprensione. Limitare lo spazio di veduta è pur sempre un limitare. È altresì vero che allargare il campo visivo può portare alla perdita di un focus preciso sul quale porre l’attenzione.

Bisogna, però, intendere l’idea di prospettive panoramiche come un atteggiamento mentale che sia volto all’indagine nient’affatto superficiale dei fatti storici. Alzare lo sguardo alla serie delle cause che hanno preceduto un determinato fatto storico ci permette di comprendere molti lati nascosti e reconditi del presente, che magari ha oramai disvelato e reso a-problematiche questioni che nel passato invece erano o ancora velate, o ancora problemi da risolvere.

Facciamo un esempio, forse banale, ma esemplificativo: non si può capire lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale senza sapere cosa comportarono i Trattati di Pace di Versailles, del 1919, alla fine della Prima Grande Guerra.
Oppure: è impossibile comprendere a pieno il pensiero di Marx se non si è compreso, in parte, il pensiero idealista di Hegel.
Non si può, infatti, non interrogare e investigare il passato, alla scoperta di ciò che è accaduto dopo. Capire, comprendere, analizzare, investigare, scoprire, formulare tesi, argomentare, sono tutte azioni del pensiero che debbono avere una stretta relazione con una prospettiva panoramica, non solo storica, ma anche culturale, intellettuale e filosofica.
Perciò è necessario rivalutare positivamente lo studio della storia (non uno studio asettico e fatto di mere date ed eventi), lo studio della storia della filosofia e della storia dei movimenti culturali e artistici. Tutti questi soggetti (e forse anche altri) sono collegati l’uno all’altro, ed in parte riverberano se stessi nel presente – perlomeno per il fatto che sono parte del passato e quindi hanno segnato la linea causale fino a noi.

La necessità (nel suo duplice senso di serie di causa-effetto e di bisogno) del passato è la stessa del presente, e del futuro. Solo la sintonia con la necessità permette allo sguardo umano di comprendere il suo presente, ed il suo futuro; senza dover prospettare qualcos’altro oltre a se stesso per vincere l’angoscia che il timore e la speranza gli affidano.
Anche di questa sfida deve farsi carico la filosofia, nel suo essere conoscenza del vero.
Per fortuna, nel passato, molti filosofi hanno già aperto la strada che conduce a questa sfida.

PS. La foto di apertura è di Saverio mariani e la trasmissione televisiva a cui si fa riferimento all’inizio dell’articolo, per i curiosi, è Le storie – Diario italiano, condotto tutti i giorni (dal lunedì al venerdì), alle ore 12.45 su Rai3, da Corrado Augias.

The Last Pagans of Rome

Il 10 novembre 2011, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia, è iniziata una due giorni di studi sul nuovo libro dello storico Alan Cameron sul tema degli ultimi pagani a Roma (il titolo completo della mastodontica opera è The Last Pagans of Rome).

Ogni specialista invitato ha affrontato uno o due capitoli del volume.

Ho assistito alla prima lezione, quella tenuta dalla professoressa Rita Lizzi dell’Università di Perugia sui primi due capitoli, che hanno ad oggetto la cristianizzazione dell’Urbe nell’epoca tardoantica, ed il problema connesso della scomparsa del paganesimo.

Non entro nei particolari, anche perché tecnici e diretti ad un pubblico erudito (non come il sottoscritto, che ha faticato a divincolarsi fra i temi storici) ma posso trarre qualche riflessione a riguardo, che forse potrà interessare lettori più filosofi che storici.

Secondo Cameron, nel IV sec. d.c. il termine pagano era utilizzato in una accezione religiosa, che descriveva il soggetto non cristiano, e quindi anche in termini dispregiativi. In precedenza il termine era usato (testimoniano alcuni trattati e codici) in modo civile, per descrivere il soggetto rurale, non cittadino.

Se prima il termine era inteso in senso laico, perché ora il termine trova accezioni religiose?

Perché oramai i cristiani avevano acquisito una forza politica, soprattuto con Teodosio, che i pagani non hanno mai avuto. Ciò è comprovato dal fatto che anche i barbari invasori erano definiti pagani.

Divenendo la religione dell’impero, il cristianesimo ha da subito etichettato come pagano tutto ciò che era credenza non cristiana, tradendo in un certo modo evidente il messaggio di uguaglianza e dialogo. Ciò è evidente soprattutto con Teodosio.

Ma ci si è chiesti (e qui c’è forse più interesse filosofico): c’è stato un confronto fra i pagani ed i cristiani, a livello culturale, fra i vari capi religiosi, le autorità religiose che rappresentavano un sentire comune?

La risposta è si. Troviamo nelle epistole di Agostino un continuo confronto con molti pagani che contestavano già ad Agostino la morale evangelica, definita come il grande male dell’Impero, soprattutto perché ormai introdotta nei vertici dell’Impero, e le contraddizioni del testo sacro.

Ora – più che mai – viene definito il tardoantico come il periodo di decadenza dell’Impero Romano.

Proprio in quel periodo l’egemonia cristiana incominciava a muovere le pedine dell’Impero (alla fine del IV sec. vengono anche tolti i finanziamenti ai culti pagani dell’Impero) che di lì a poco – a causa di incapacità governativa – fece la fine che tutti sanno.

Velatamente dette ma, le conclusioni della prima conferenza, sono state proprio queste.

Saverio Mariani

[Questo articolo è pubblicato anche nella sezione “Eventi]

Apologia della storia o mestiere di storico

Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1969, traduzione di Carlo Pischedda.

*** ******** ***

Indice

Introduzione, di Girolamo Arnaldi.
Profilo di Marc Bloch, di Lucien Febvre.
A Lucien Febvre (a guisa di dedica)
Introduzione.
I. La storia, gli uomini e il tempo.
I.1. La scelta dello storico.
I.2. La storia e gli uomini.
I.3. Il tempo storico.
I.4. L’idolo delle origini.
I.5. Limiti dell’attuale e del non attuale.
I.6. Comprendere il presente mediante il passato.
I.7. Comprendere il passato mediante il presente.
II. L’osservazione storica.
II.1. Caratteri generali dell’osservazione storica.
II.2. Le testimonianze.
II.3. La trasmissione delle testimonianze.
III. La critica.
III.1. Abbozzo di una storia del metodo critico.
III.2. Alla caccia della menzogna e dell’errore.
III.3. Saggio di una logica del metodo critico.
IV. L’analisi storica.
IV.1. Giudicare o comprendere?
IV.2. Dalla diversità dei fatti umani all’unità delle coscienze.
IV.3. La nomenclatura.
V. L’idea di causa.

*** ******** ***

I. LA STORIA, GLI UOMINI E IL TEMPO.

I.2. La storia e gli uomini.

MB è contrario all’idea che la storia sia la scienza del passato (38). «L’oggetto della storia è per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini» (41). A proposito della specificità del linguaggio di ogni scienza, MB afferma: «i fatti umani sono essenzialmente fenomeni delicatissimi, molti dei quali sfuggono alle determinazioni matematiche. Per esprimerli bene e, di conseguenza, per bene intenderli (si comprende mai perfettamente quel che non si sa esprimere?) occorrono grande finezza di lingua e giusto colorito nel tono espressivo» (42).

1.4. L’idolo delle origini.

MB sottolinea la pericolosa contaminazione semantica che avviene, spesso inconsapevolmente, tra il concetto di origine e il concetto di spiegazione (44): «così che, forse, in parecchi casi il demone delle origini fu solamente un’incarnazione di quest’altro diabolico nemico della storia genuina: la mania del giudizio» (45).

1.6. Comprendere il presente mediante il passato.

Secondo MB, il privilegio di autointelligibilità riconosciuto al presente riposta su strani postulati (50). In primo luogo, presuppone che le condizioni umane subiscano un mutamento radicale ed assoluto nel volgere di una o due generazioni: postulato che dimentica l’inerzia di molte creazioni sociali (51). Sia la tradizione orale (ad esempio l’educazione dei giovani, lasciata ai più anziani) sia la tradizione scritta, che stratifica continuamente prospettive e abiti mentali (52). E’ dunque «necessario che nella natura umana e nelle umane società ci sia un sostrato immutabile; altrimenti, i nomi stessi di uomo e di società non significherebbero nulla. Pensiamo forse di poterli conoscere, gli uomini, studiandone soltanto le reazioni di fronte alle circostanze peculiari a una dato momento? L’esperienza si dimostrerà insufficiente a cogliere quel che essi sono anche in quel dato momento (…). Un’esperienza unica è sempre impotente a discriminare i propri fattori e, quindi, a fornire la sua propria interpretazione» (53).

1.7. Comprendere il passato mediante il presente.

La relazione di intellegibilità tra epoche deve essere bidirezionale: «L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente (…). Questa facoltà di apprendere ciò che vive: ecco la massima virtù dello storico» (54).

Noi usiamo sempre, sia pure inconsapevolmente, categorie del presente per “strutturare” la comprensione del passato. A tale impregnazione istintiva è bene allora sostituire una osservazione razionale e controllata: «L’erudito che non ami osservare intorno a sé gli uomini, né le cose, né gli eventi, meriterà forse il nome di utile antiquario. Farà bene a rinunciare a quello di storico» (55).

La scienza degli uomini nel tempo può dunque ragionevolmente (e per motivi di inveterata tradizione) essere chiamata “storia”: «e la sola storia vera, che non può farsi se non per aiuto reciproco, è la storia universale» (57).

Se tuttavia una scienza non è definibile soltanto attraverso il suo oggetto ma anche attraverso il suo metodo, ci si dovrà porre il problema se, via via che ci si allontani dal presente, la variazione delle tecniche d’indagine non implichi -alla fine- una radicale differenziazione dell’indagine stessa. Il che significa porre il problema dell’osservazione storica (57).

II. L’OSSERVAZIONE STORICA.

II.1. Caratteri generali dell’osservazione storica.

E’ in primo luogo necessario sgomberare il campo dal luogo comune a mente del quale la conoscenza del passato, all’opposto di quella del presente, sarebbe necessariamente sempre “indiretta”. (58).

In primo luogo, va chiarito che anche gli eventi presenti vengono conosciuti attraverso l’intermediazione di un altro soggetto (si veda l’esempio del generale in relazione alla conoscenza della battaglia che ha condotto): «la famosa osservazione diretta, preteso priviliegio dello studio del presente (…) è quasi sempre un’illusione, non appena l’orizzonte dell’osservatore si allarghi un po’. Qualsiasi raccolta di cose viste comprende un buona metà di cose viste da altri» (59). Su questo punto, l’investigatore del presente non è affatto più favorito dello storico del passato (61).

D’altro canto, siamo certi che l’osservazione del passato, anche remotissimo, sia sempre così indiretta? Spesso lo storico osserva direttamente oggetti (materiali e immateriali) che lo pongono in correlazione diretta -cioè senza intermediazione di un altro soggetto- con il fenomeno storico che intende studiare (62). Ne consegue che «la conoscenza di tutti i fatti umani nel passato, e della maggior parte di essi nel presente, ha come sua prima caratteristica quella di essere una conoscenza per via di tracce» (63). Esistono poi infinite variazioni tra i mezzi di indagine, dipendenti dalla diversa emersione delle tracce. Qui l’importanza delle date riprende forza. In ogni caso, la quantità e la qualità delle tracce sono legate a fattori fortemente casuali: «la differenza tra l’indagine del passato remoto e quella del passato prossimo è, ancora una volta, una differenza di grado. Non tocca la sostanza dei metodi. Non perciò è meno importante (…). Il passato è, per definizione, un dato non modificabile. Ma la conoscenza del passato è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente» (65). Certo, esiste un limite: il passato vieta allo storico di conoscere ciò che non sia stato tramandato e tutta una parte della storia assume l’aspetto un po’ esangue di un modo senza individui.

II.2. Le testimonianze.

Le fonti narrative (cioè i racconti volutamente dedicanti ad informare i lettori) sono un prezioso aiuto per lo storico (67). Tuttavia, la ricerca storica confida sempre di più nelle fonti non narrative, cioè nei materiali originariamente diretti a svolgere funzioni diverse dalla narrazione dei fatti. Non che anche in questo genere di materiali siano immuni da menzogne o errori. Ma almeno la deformazione non è stata concepita per fuorviare i posteri. Inoltre, questi materiali permettono:

  • di supplire alle fonti narrative, quando queste manchino;
  • di controllarne la veridicità;
  • di evitare l’adesione incondizionata ai pregiudizi, false prudenze e miopie delle fonti narrative e dunque, in ultima analisi, delle generazioni oggetto di studio (68).

Ed anche dalle fonti narrative, la parte più utile per il lavoro dello storico è quella che riguarda ciò che la fonte non aveva intenzione di dire: le vite dei santi medievali non sono per nulla utili suoi fatti che raccontano, ma diventano preziose per intendere i modi di vivere e di pensare dell’epoca di compilazione (69). Proprio perché ogni fonte può essere preziosa, se interrogata nel modo giusto, il metodo di interrogazione diviene determinante. MB sottolinea l’ingenuità di chi pensa che lo storico si limiti alla consultazione e alla verifica della veridicità di documenti (69).

I testi parlano soltanto a chi li sappia interrogare: «mai, in nessuna scienza, l’osservazione passiva -sempre nell’ipotesi che essa sia possibile- ha prodotto alcunché di fecondo» (70).

II.3. la trasmissione delle testimonianze.

L’importanza della strumentazione e della raccolta dei materiali, fondamentali a sorreggere poi la capacità e l’intuizione dello studioso. La corporazione accademica non è affidabile in questo compito di gestione scientifica dei materiali perché, al pari degli stati maggiori, ha conservato, nell’epoca dell’automobile, la mentalità del carro di buoi (!) (74). Ogni libro di storia dovrebbe contenere un capitolo che metta a nudo il meccanismo delle fonti: «sono persuaso che, a leggere queste confessioni, anche i lettori non specialisti troverebbero un vero piacere intellettuale. Lo spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie, raramente stanca. Il bell’e fatto, invece, provoca gelo e noia» (75).

Il miglior fornitore di fonti per lo storico è la catastrofe. Soltanto l’eruzione del Vesuvio ha conservato Pompei (76) e le confische rivoluzionarie francesi hanno consentito l’acquisizione agli archivi pubblici di documenti che altrimenti sarebbero andati dispersi per i mille rivoli delle storie personali degli antichi proprietari (77). Le società riusciranno ad organizzare, con la loro memoria, la loro conoscenza di sé «a patto di impegnare una lotta a fondo contro i due principali responsabili dell’oblio o dell’ignoranza: la negligenza, che smarrisce i documenti, e l’ancor peggiore mania del segreto -diplomatico, d’affari, di famiglia- che li nasconde e li distrugge (…). La nostra civiltà avrà fatto un gran passo avanti il giorno in cui la dissimulazione eretta a norma di comportamento e quasi a virtù borghese lascerà il posto al gusto per l’informazione: cioè a dire, necessariamente, per gl scambi di informazioni» (78-79) [!].

III. LA CRITICA.

III.1. Abbozzo di una storia del metodo critico.

Conferisce al Tractatus theologicus-politicus di Spinoza il rango di capolavoro di critica filologica e storica (84), ma sottolinea come le tecniche della critica furono a lungo praticate quasi esclusivamente «da un pugno di eruditi, di esegeti e di curiosi» (85). Se è vero che lo sfoggio di erudizione comporta testi appesantiti da inutili apparati d note, è pur vero che queste sono fondamentali per un serio lavoro: “quando non si tratti di liberi voli della fantasia, non si ha il diritto di presentare una affermazione se non a condizione che possa essere verificata; e per uno storico, quando usa un documento, l’indicarne il più concisamente possibile la provenienza, ossia il mezzo per ritrovarlo, equivale senz’altro a obbedire a una regola universale di probità» (87).

III.2. Alla caccia della menzogna e dell’errore.

Una volta constatato l’inganno, attraverso lo scrupoloso confronto fra le fonti, se ne devono scoprire i motivi. Spesso, l’eccesso di intellettualizzazione in tale ambito porta a sottovalutare che molte di queste ragioni non sono … ragionevoli: presso certi esseri la menzogna è un abito mentale (91). Altri elementi che fomentano la menzogna sono, anche in epoca moderna, «l’obbedienza a un codice, alquanto antiquato, di galateo letterario, il rispetto di una psicologia stereotipa, la smania del pittoresco» (95).

Importanza della psicologia della testimonianza (96). «In senso assoluto, il buon testimone non esiste: ci sono soltanto buone o cattive testimonianze. (…). Salvo poche eccezioni, si vede, si comprende bene soltanto ciò che ci proponiamo di percepire» (97).

La precisione nell’osservazione varia notevolmente non solo da individuo a individuo ma anche da epoca a epoca (99). In moltissime deformazioni della testimonianza «quasi sempre l’errore è orientato in anticipo. Soprattutto esso si diffonde, prende radici solo se si accorda con le convinzioni preconcette dell’opinione comune; diventa allora come lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti» (100).

III.3. Saggio di una logica del metodo critico.

La critica delle testimonianze, lavorando su elementi psicologici, sarà sesmpre un’arte fondata sulla discrezione. Ma è un’arte razionale, fondata sulla pratica metodica di alcune operazioni intellettuali (103).

IV. L’ANALISI STORICA.

IV.1. Giudicare o comprendere?

Due problemi da affrontare: quello dell’imparzialità storica e quello della storia come tentativo di riproduzione o come tentativo di analisi (121). La parola imparzialità è equivoca. Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Il primo, però, una volta osservato e spiegato i fatti, ha concluso il suo compito. Il secondo deve poi esprimere un giudizio, e questo implica comunque l’adesione a una tavola di valori (124). Ebbene, il giudizio di valore ha ragione d’essere soltanto come preparazione di un’azione ed in rapporto ad un sistema volontariamente accettato di punti di riferimento morale: «Nella vita quotidiana, le esigenze di comportamento ci impongono questa etichettatura, di solito molto sommaria. Là dove non possiamo più nulla, là dove gli ideali comunemente accettati differiscono profondamente dai nostri, essa non è che un impaccio» (124). Per lo storico, dunque, la presa di posizione “politica” è totalmente inutile. Il compito dello storico è la comprensione mentre, persino nell’azione, noi giudichiamo troppo e non comprendiamo mai abbastanza (127).

IV.2. Dalla diversità dei fatti umani all’unità delle coscienze.

La comprensione non sottintende un atteggiamento di passività. Come ogni cervello che percepisce, lo storico sceglie e separa: analizza (128). L’enorme varietà umana impone infiniti mutamenti prospettici nell’analisi anche della vicenda più minuta (131). La singola vita umana è costituita da infiniti piani, spesso in apparente contraddizione: ma «ci sono contraddizioni che assomigliano molto ad evasioni» (132). Stesso approccio si ripropone quando si passa dagli individui alle società. Non si può fare storia se non ci occupa del movimento che dai fatti attraversa le coscienze. La studio della rete delle relazioni tra i fatti è la ragion d’essere dell’analisi dei fatti stessi: «la conoscenza dei frammenti, studiati successivamente, ciascuno per conto suo, non produrrà mai quella dell’insieme; non produrrà neppure quella dei frammenti stessi» (135).

IV.3. La nomenclatura.

Del problema della classificazione (136). Il tallone d’achille della ricerca storica sta in questo: «Ogni analisi esige anzitutto, come strumento, un linguaggio appropriato; un linguaggio capace di tracciare con precisione i contorni dei fatti, pur conservando la duttilità necessaria per adattarsi progressivamente alle scoperte, un linguaggio soprattutto senza ondeggiamenti né equivoci» (137).

Il linguaggio va usato con grande attenzione. Già l’uso di nomenclature relative a oggetti materiali deve essere contestualizzata, per non stravolgere i significati. Ciò è particolarmente vero nell’ordine meno materiale, dove le trasformazioni avvengono troppo lentamente per essere percepibili dagli uomini stessi sui quali il mutamento esercita i suoi effetti: costoro non provano il bisogno di cambiare la parola, poiché non avvertono il mutamento di contenuto. Così come può avvenire che il nome muti o scompaia, senza alcuna variazione nello stato delle cose (139). Le stesse problematiche risultano indotte nella traduzione in differenti lingue di opere storiche (140), accortezza che deve essere tenuta presente anche per le stesse fonti: «Il grande catasto inglese fatto compilare da Guglielmo il Conquistatore, il famoso Domesday Book, fu opera di chierici normanni o del Maine. Non soltanto essi descrissero in latino istituzioni prettamente inglesi; ma le avevano prima ripensate in francese» (142). Spesso, poi, è lo stesso storico che, nel definire i termini del proprio lavoro, gli assegna significati arbitrari (150). Ancora, la suddivisione in aree temporali della ricerca storica deve essere utilizzata con grande consapevolezza, se non si vuole incorrere in inutili errori (156).

V. L’IDEA DI CAUSA.

Lo stabilire rapporti di causa/effetto costituisce esigenza istintiva dell’intelletto, ma la ricerca di tali nessi non deve essere lasciata all’istinto (161). In generale, «gli antecedenti più costanti e più generali, per quanto necessari essi siano, rimangono semplicemente sottintesi (…). Gli antecedenti già più particolari, ma ancora dotati di una certa stabilità, costituiscono ciò che si è convenuto di chiamare “le condizioni”. Il più speciale, quello che, nel fascio delle forze generatrici, rappresenta in qualche modo l’elemento differenziale, riceve di preferenza il nome di “causa”» (162). Tale principio può tornare utile come base di ricerca, ma v’è molto di arbitrario nel tentativo di discernere la causa dalle condizioni, e molto dipende dalla prospettiva dell’indagine. D’altro canto, «la “superstizione” della causa unica, in storiografia, è molto spesso a forma insidiosa della ricerca d un responsabile; quindi, di un giudizio di valore» (163). Inoltre, i fatti storici sono essenzialmente fatti psichici: il che -data l’estrema complessità e inafferrabilità di tali elementi- rende la successiva ricerca di “cause” inequivocabili una fatica insostenibile.

Nella sezione “letture” è stato appena pubblicato l’articolo su:

Marc BlochApologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1969, traduzione di Carlo Pischedda.