I selvaggi dell’intelligenza artificiale

«Quando filosofiamo siamo come selvaggi, come uomini primitivi che ascoltano il modo di esprimersi di uomini civilizzati, lo fraintendono e traggono le più strane esperienze dalle loro erronee interpretazioni».

Questa curiosa quanto pungente metafora di Wittgenstein è riferita al funzionamento di una qualunque macchina o strumento automatico che non conosciamo. Sappiamo cosa accade in simili casi: scrutiamo il dispositivo dall’alto in basso, da destra a sinistra, ne indaghiamo i più piccoli dettagli, formuliamo ipotesi, ne immaginiamo i movimenti. «La macchina sembra già avere in sé il suo modo di funzionare. (…) Usiamo la macchina o l’immagine di una macchina, come simbolo di un determinato modo di funzionare».

Emerge il ruolo dell’immaginazione con la quale finiamo per considerare come presente ciò che è assente, non i movimenti ma la possibilità dei movimenti, ombre dei primi. Il rapporto tra il movimento e la possibilità del movimento sembra simile a quello tra l’immagine e il suo oggetto. Eppure, se in quest’ultimo caso siamo del tutto consapevoli che l’immagine è altra cosa dall’oggetto, nel caso della possibilità del movimento il sospetto che essa sia soltanto possibilità nemmeno ci sfiora la mente (sembra che qui sia all’opera una sorta di censura preventiva): siamo certi del movimento che si darà quando l’esperienza non si è ancora data. Ci sembra di aver compreso quando in realtà non abbiamo capito nulla, al massimo abbiamo frainteso. Ecco la metafora degli uomini primitivi che, scoprendo oggetti di cui non conoscono l’uso, indossano cravatte sul corpo nudo e cappelli al rovescio. 

Un atteggiamento simile si sta riproducendo per quanto riguarda il dibattito sull’intelligenza artificiale. Siamo meravigliati dagli oggetti che produce l’ingegno umano, assistiamo alle loro performance, siamo estasiati dalle possibilità che ci conferiscono, cominciamo ad immaginare i pericoli. Sono questi che vanno di moda oggi, dal momento che i grandi della terra ci hanno messo in guardia sulle conseguenze catastrofiche della tecnica. Come se non ci fosse stata l’invenzione del motore a scoppio, quella della polvere da sparo o della fissione nucleare.

Il problema filosofico dell’intelligenza artificiale non consiste ovviamente in queste derive sociologiche ma nel fatto che si è già stabilito in anticipo che cosa significhi una macchina che comprende. O meglio non lo si è stabilito affatto, dando per scontato che delle operazioni automatiche siano di per sé legate al pensiero e all’intelligenza. Macchine che pensano, macchine che capiscono, macchine che imparano: ormai queste espressioni sono entrate nel gergo (meglio se in inglese) e quindi ci sembrano note. Ma in realtà note, quelle espressioni, non lo sono affatto.

Le macchine come simboli di funzionamento
La macchina non può pensare – dice Wittgenstein – e questa non è una proposizione empirica in quanto “pensante” lo diciamo solo dell’uomo. Che una macchina possa pensare è un’affermazione priva di senso, come affermare che il cerchio è quadrato o che il numero “tre” ha un colore. Anche della sedia possiamo dire che pensa tra sé e sé, così come delle bambole e dei fantasmi. Ma perché lo diciamo? Perché vogliamo sapere in qual modo la sedia, le bambole o i fantasmi siano simili all’uomo. 

In realtà noi usiamo la macchina come “simbolo” del suo modo di funzionare, il che significa che siamo disposti a paragonare i futuri movimenti della macchina agli oggetti che si trovano nel nostro cassetto della memoria. Che succede se non troviamo gli strumenti nel cassetto? Cominciamo ad immaginarne di nuovi con le macchine che possono agire con movimenti già presenti. Anticipiamo.

O meglio, dice Wittgenstein: filosofiamo come selvaggi. Con l’avvertenza (che salva noi e la filosofia) che ciò avviene nel momento in cui iniziamo a pensare qualcosa di inaudito. In un secondo momento però, gli uomini possono distruggere quell’incantamento grazie al medesimo strumento che lo aveva prodotto, cioè il linguaggio. «La filosofia è una battaglia contro la fascinazione dell’intelletto prodotta dal linguaggio, condotta per mezzo dello stesso linguaggio», lotta contro gli idoli linguistici che noi stessi ci creiamo continuamente perché, «invece di limitarsi a dire quello che si sa, si ha sempre la tentazione di istituire una mitologia del simbolismo o della psicologia».

I due criteri per comprendere
Ma che cosa significa veramente capire qualcosa? Si tratta della domanda “rompicapo” che tiene impegnato Wittgenstein nelle lezioni e negli scritti. I criteri sembrano almeno due.

Il primo riguarda la corrispondenza del nome con un oggetto, in cui ogni parola ha un significato specifico. Si tratta della rappresentazione primitiva del linguaggio che ci è stata tramandata da Sant’Agostino, un sistema di comunicazione in cui alle parole corrispondono le cose, e dove le parole denominano gli oggetti. Se si rimane fermi a questo ci sembra di capire quando in realtà non capiamo affatto, perché non tutte le parole hanno una corrispondenza negli oggetti. Quello che conta infatti sono i contesti.

Il secondo criterio è l’uso che si fa di un linguaggio, uso in cui è richiesto avere in mente ogni aspetto dell’applicazione di quel simbolo che è la parola. Sicché «l’uso della parola capire si basa sul fatto che, dopo aver fatto certe prove, nella stragrande maggioranza dei casi siamo in grado di prevedere che una persona userà quella parola in un certo modo». Mettiamo che ci siano sei usi della parola “casa”: io non solo devo sapere tutti e sei gli usi ma devo anche dare per presupposto che la userò in modo corretto anche la prossima volta. Il linguaggio è un gioco in cui non riusciamo mai a vedere chiaramente l’uso delle parole. Si può definire il concetto di gioco? No, dice Wittgenstein, perché i limiti non sono tracciati e si può dunque affermare che si tratta di un concetto dai contorni sfumati. 

Questo però non significa che il capire sia un processo psichico, ovvero una sequenza di idee. Wittgenstein è estremamente critico con la nozione di meccanismo mentale, vero e proprio equivoco linguistico. Esiste una fase del “processo” in cui accade la comprensione? C’è un momento in cui sappiamo giocare a scacchi e un altro in cui non lo sappiamo? No. D’altro canto, il capire non è nemmeno uno stato, se si intende con tale espressione la corrispondenza tra enunciati interiori ed enunciati esteriori. 

La conclusione è bene espressa da Wittgenstein: «Intendere (intelligere, ndr) è una di quelle parole che svolgono lavori saltuari nel nostro linguaggio. Sono le parole di questo tipo che causano molti problemi filosofici (…) sicché, riferito alle macchine che pensano, l’esperienza personale, lungi dall’essere il prodotto di processi fisici, chimici, fisiologici, sembra piuttosto la base di tutto ciò che diciamo sensatamente su questi processi».

Continuiamo a dimenticare la lezione di Kant: non siamo noi a regolarci sugli oggetti (non sono le macchine a pensare) ma gli oggetti che si regolano su di noi (diciamo che le macchine pensano perché noi pensiamo). Così almeno a volte ci sembra.


Riferimenti bibliografici
— Wittgenstein, Ludwig. 1990. Grammatica Filosofica. Firenze: La Nuova Italia
— Wittgenstein, Ludwig. 2002. Lezioni sui fondamenti della matematica. Torino: Bollati Boringhieri
— Wittgenstein, Ludwig. 2006. Causa ed effetto. Torino: Einaudi
— Wittgenstein, Ludwig. 2014. Ricerche Filosofiche. Torino: Einaudi
— Wittgenstein, Ludwig. 2022. Libro Blu. Milano: Mimesis Edizioni
— Kenny, Anthony. 2016. Wittgenstein. Torino: Bollati Boringhieri.

Immagine di copertina di Petr Kratochvil rilasciata sotto CC0 Public Domain

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

3 Comments

  1. “Intelligenza artificiale” o “elaboratore universale” ?
    Protenderei più per la seconda definizione, forse anche più consona al pensiero di un Wittgenstein che riteneva che: “si può parlare solo di ciò che costituisce un fatto. Non si può esprimere e quindi non si può pensare niente di tutto ciò che esula dai fatti”. E l’intelligenza artificiale, se così la vogliamo chiamare, esula da una forma di intelligenza. Un upload di una quantità infinita di dati sicuramente consente a un elaboratore di fornire risposte, elaborare testi, ipotizzare eventi, tradurre, produrre, …sorprendere!!
    Forse è eccessivo ipotizzare che i selvaggi possano filosofare! A essere sinceri sembra che l’attuale periodo stia portando l’essere umano a faticare semplicemente per “pensare”.
    Ecco che un’ “intelligenza artificiale” fa immediatamente breccia nell’immaginario collettivo dei molti, distanti anni luce da qualsiasi attività cerebrale che possa anche solo lontanamente essere avvicinata al “pensare”
    E’ sicuramente uno strumento meraviglioso, potente, utile, ma sempre uno strumento difficilmente riconducibile ad un atto pensante quanto piuttosto ad un ricercatore ben istruito.
    Notevole il primo pensiero di Wittgenstein sul significato di capire (atto quasi ormai estinto!): “(…) la corrispondenza del nome con un oggetto, in cui ogni parola ha un significato specifico”. Se si rimane fermi a questo ci sembra di capire quando in realtà non capiamo affatto, perché “non tutte le parole hanno una corrispondenza negli oggetti”.
    Forse il tutto è riconducibile alla locuzione latina “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” del poema “De contemptu mundi” di Bernardo di Cluny, ripresa poi da Umberto Eco, che ne ha fatto l’ultima frase del suo romanzo “Il nome della rosa” intendendo sottolineare che al termine dell’esistenza della rosa particolare non resta che il nome dell’universale.
    Ecco che appare a questo punto interessante che già William Shakespeare utilizzi la rosa come soggetto per un’acuta osservazione sull’essenza delle cose. In particolare il poeta inglese, Romeo e Giulietta, si interroga sul significato del nome:”What’s in a name? That which we call a rose, / By any other name would smell as sweet” (“Cosa vi è in un nome? Quella che chiamiamo rosa non cesserebbe d’avere il suo profumo dolce se la chiamassimo con altro nome”).
    Pensieri e dilemmi interessanti fonti di “intelligenze”, non sicuramente artificiali, che hanno reso, nei secoli, la potenzialità umana di pensare e creare ben oltre le capacita di un “elaboratore” di combinare dati pur nella sua incredibile potenza.
    Negli anni, ripensando alla frase finale del film di Eco, mi è sempre piaciuto pensarla, non rispettando assolutamente i casi e le declinazioni latine, come se significasse: “la rosa esiste prima del suo nome, perché il solo nome svanisce nell’effimero”.

  2. Credo che il modo migliore per nominare questi sistemi sia quello tecnico, ossia Large Language Models (LLM). Con questo nome si evitano riferimenti a forme di “intelligenza” e si mette l’accento su quello che questi strumenti sono effettivamente, ossia macchine linguistiche molto potenti.

  3. Di conseguenza non si potrebbe parlare neanche di “intelligenza” artificiale. Quale nome potrebbe essere più adatto quindi?

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