L’a priori e la sua espressione in Mikel Dufrenne

Mikel Dufrenne (1910-1995) è stato un importante fenomenologo francese. In questo articolo mi vorrei concentrare sul concetto di ‘espressione’ nella sua prosa. Per “espressione” intendo il processo comunicativo mediante cui il soggetto conosce, forma e comunica i suoi vissuti o stati d’animo ad altri soggetti in grado di comprenderli. Come cercherò di chiarire, per Dufrenne è necessario che il soggetto si esprima, ovvero che esso si comunichi esteriormente e renda le sue condotte leggibili ad altri, al fine di avere contezza dei suoi stessi sentimenti e del loro valore immediatamente condiviso. È negli altri che il soggetto trova le proprie conferme o smentite; è dal confronto con gli altri che è in grado di riconoscersi ed edificare il senso dell’identità personale. È nell’esteriorità delle sue manifestazioni che il soggetto dimostra di avere un’interiorità, una profondità che trapela in superficie.

Introduzione. Quale espressione?
Si tratta di un aspetto, questo, che accomuna la teoria dell’espressione di Dufrenne alla ‘fenomenologia della percezione’ del suo maestro. Infatti, in qualità di lettore e continuatore dell’opera di Merleau-Ponty, Dufrenne rivaluta positivamente gli apporti dell’esperienza sensibile. È attraverso il corpo e la sua sensibilità che esso è in grado di cogliere il mondo. Il corpo e il mondo sono da sempre in comunicazione. Essi costituiscono assieme i loro significati, nella reciproca evoluzione che ne sancisce il rapporto. La comunanza o connaturalità tra uomo e mondo, che in Merleau-Ponty prendeva il nome di carne, assume nel pensiero di Dufrenne la qualità di un vero e proprio a priori, ovvero di una possibilità d’esperienza preliminare e assolutamente fondativa della conoscenza.

L’a priori e il virtuale
La nozione di a priori è cruciale per stabilire una comunanza, «un accordo tra l’uomo e il mondo che si realizza nella conoscenza» (Dufrenne 1981, 53), e quindi dell’azione dell’uomo sulla natura, che attraverso di lui si esprime. Tra uomo e natura si stabilisce un rapporto di «familiarità», «consustanzialità» (Dufrenne 1981, 54), nel quale la conoscenza non sarebbe possibile se uomo e mondo non si trovassero già da sempre aperti l’uno all’altro. Nel riconoscimento di questa coerenza Dufrenne è portato ad ammettere il carattere materiale di un a priori, di una precedenza o anticipazione ugualmente presente nel soggetto e nell’oggetto. L’a priori è principio, una «potenza del mondo» (Dufrenne 1959, 231-232) che necessita dei viventi per essere impiegata o sprigionata. Precedenza, anticipazione: la categoria di a priori si rende necessaria perché, afferma Dufrenne, all’interno della coscienza, è presente come «qualcosa che è già conosciuto» (Dufrenne 1959, 62) e che non richiede attivamente di rintracciare la sua genesi da parte nostra.

Ecco che allora la conoscenza si fa «riconoscimento» (ivi, 63) dell’a priori, la quale richiama l’insistenza di un’apprezzabile ‘virtualità’. Il virtuale, come ‘forza’, è una nozione complementare a quella di a priori. Essa raccoglie l’interezza delle nostre possibili interazioni, percezioni, associazioni e corrispondenze dei dati sensibili dell’universo fenomenico. In L’occhio e l’orecchio, il virtuale designa il carattere di un ambiguo pre-possesso, di un «a priori dell’apriori» (2004, 92) che unisce senziente e sensibile. Il virtuale è un orientamento, un impercepito che guida l’esercizio della percezione, l’inaugurazione di una «cronologia» (Dufrenne 1959, 150), la sua premessa simbolica. In questo contesto, l’occhio, come visione, è detto ‘premeditarsi’ nell’oscurità dell’indistinzione, ‘prepararsi’ in una sorta di preambolo difficilmente collocabile, e a volte esemplificato da Dufrenne dall’immagine della «notte» (Dufrenne 2004, 93). È infatti nella notte, come rovescio del giorno, invisibilità del visibile, che si prepara la metamorfosi dell’essere in apparire.

La visione e l’ascolto si ‘preparano’, viene detto, nella carne del corpo. Il virtuale fa appello ad una certa comprensione del passato personale e collocato nella profondità abissale di ciascuno di noi. Il virtuale è «ciò che sono perché sono essenzialmente memoria, pieno del mio passato […] in modo tale da determinare il significato del mio essere nel presente» (Dufrenne 1959, 154). Anche la memoria però, in questo senso allargato, dispone dei suoi a priori. Forse paradossalmente, l’aspetto più caratterizzante della memoria, come «appartenenza a noi stessi» (Dufrenne 1981, 122), è il suo carattere proiettivo, ovvero la messa in luce di un «a priori organico» – che fa sì che il corpo sia in grado di precorrere l’esperienza, «di fare del dato un acquisito» (ibid.), un’«acquisizione originaria», avrebbe detto Merleau-Ponty (2003, 293), sul quale poggia la coscienza e a partire dal quale quest’ultima prende le mosse. Tale sfondo di passato corporeo, dal quale tutto sgorga, «non è solo quello che ci genera, ma quello che non smette mai di portarci con sé» (Dufrenne 1981, 130), è una «memoria impersonale dell’umanità [che] è la condizione di possibilità della memoria individuale» (Dufrenne 1981, 131). E le cose, nel loro darsi all’intuizione sensibile, rispecchiano questa profondità. Ciò che ci è nascosto, negli abbozzi percettivi, nelle appercezioni o apprensioni d’oggetto, è «l’inaspettato che ci aspettiamo» (Dufrenne 2011, 494) e la profondità, come «la sede del nascosto, fa appello alle profondità dell’uomo» (ivi, 495). Il profondo, la sua emergenza, rappresenta l’uso che facciamo di questo passato, della possibilità stessa di fondare un tempo nuovo nell’«incontro (…) attraverso la fedeltà alla memoria» (ivi, 496).

Essere profondi, scrive Dufrenne, è

essere su un certo piano dove si diventa sensibili con tutto il proprio essere, dove la persona si raccoglie e si impegna. (…) Essere profondi significa rifiutare di essere una cosa, sempre esterna a se stessa, dispersa e come sparsa nel consumo degli istanti. È rendersi capaci di una vita interiore, di raccogliersi in se stessi e di acquisire un’intimità (…). Essere profondi è essere disponibili; ed è nello stesso movimento che mi apro all’oggetto (ivi, 500, 502).

La pelle. L’estetica tra interiorità ed esteriorità
Si tratta di una relazione che noi intratteniamo con un irrelato, ovvero la presenza della Natura nell’uomo, la sua preesistenza della quale esso può solo riscontrare un «presentimento» (ivi, 129). Questo a priori organico testimonia la nostra appartenenza all’essere naturale, e con essa, la nostra fatticità o materialità. Si tratta di una proprietà implicita che trova espressione nelle condotte di ciascuno, come diviene più chiaro in Verso l’originario (1976). La «manifestazione delle Nature – è, appunto, – l’apparizione di una natura» (Dufrenne 1976, 89) strettamente singolare. La Natura si fa naturante attraverso noi, si istanzia in noi. Il principio, il fondo naturale che ‘fonda’ l’individuo, è responsabile della sua riuscita. L’individuo, che è portato dal profondo, è una «figura» (ivi, 91) di quest’ultimo, rimarcando qui i caratteri di una «vicinanza che non crea distanza» (ibid.).

E nell’individuo, prosegue Dufrenne, è la pelle, l’epidermide, ad essere richiamata quale artefice di questa ‘trasformazione’, di questo curioso passaggio al limite tra generale e particolare. Scrive infatti l’autore che la pelle «è l’articolazione tra la profondità del corpo e la profondità del mondo (ibid)». L’individualità, chiarisce Dufrenne, è costituita e prodotta dallo sfondo che la porta e da cui emerge (ibid.). «Una filosofia dello sfondo è una filosofia dell’apertura …Venire al mondo significa venire dal fondo e apparire» (ibid.). Come Dufrenne scrive a proposito della nostra pelle, ovvero sulla nostra relazione tra superficie e profondità, essa deve essere compresa come

un rivestimento per l’individuo e un luogo di scambio tra l’ambiente e lui; la pelle è profonda perché veste il profondo e lo mette in comunicazione con l’esterno. L’evento che si produce in superficie risuona nel fondo; ciò che è inscritto sulla superficie esprime il profondo: un tatuaggio non è solo una scritta, ma un messaggio: fiducia, professione di fede, sfida (ivi, 90).

La pelle è strumento di emergenza e di ricapitolazione. La superficie particolare è dunque la pelle della profondità generale. Il fondo si metamorfizza nella figura, il fondo ‘fa’ la pelle, nel trabocco dell’espressione, della manifestazione sensibile che giunge sempre e solo a parziale compimento. Il «mondo comprende il soggetto […] individualizzandolo […] il soggetto comprende il mondo particolarizzandolo» (Dufrenne 1959, 254). Nell’esercizio del tatto, nella comunione tra toccante e toccato, non è solo la superficie epidermica, solo la misera porzione di pelle direttamente chiamata all’opera, ad essere responsabile di questa acquisizione sensibile: il tatto, infatti, non si realizza mai «a fior di pelle», ma è tutta la pelle, «tutta la superficie dell’organismo» (Dufrenne 2004, 115) nella sua unione, a giovare di questo arricchimento sensibile, ad emergere come tale nella sua concentrazione, a divenire centro, profondità in superficie. Ma la profondità non concerne, qui, unicamente una relazione di esteriorizzazione, del di dentro col di fuori, ma, ugualmente, il rapporto che riguarda l’esterno, il di fuori col di dentro. È questo il caso della ‘ferita’ grave, dice Dufrenne, la quale «attraversa la pelle per ferire un organo che ricopre – raggiungendo il fondo – perché il vitale ha la sua sede nel fondo» (Dufrenne 1968, 141).

L’esperienza del tatto, l’interiorità, si esteriorizza per mezzo del fondo, cui rimane sempre, virtualmente, legata. Si tratta di una caratteristica comune a più casi concreti. Un «valore» che si mostra, ad esempio, non fa sfoggio di un «predicato accessorio», ma di una «esteriorizzazione» (Dufrenne 1959, 106) che ne legittima il significato oggettivo. L’a priori, come tale, non può prescindere dall’espressione, poiché l’espressione, spontaneamente «manifesta l’essere stesso; al di là dei significati parziali (…) è il significato totale e, per così dire, totalizzante, unificante l’essere, che si esprime: esprimersi è essere pienamente presenti, realmente presenti in ciò che si esprime» (ivi, 133-134). Il singolare, come «forma» (Dufrenne 1969, 174) di un mondo che si dà all’espressione, un mondo che si ‘profila’ è, allo stesso tempo, universale, poiché esso «diventa universale rivelandosi» (Dufrenne 1959, 136).

Ma di quale immediatezza è messaggero il singolo, se «l’immediato è – immediatamente – complesso» (Dufrenne 1981, 30)? Come possiamo leggere, rispecchiare negli altri la chiarezza, la trasparenza delle loro intenzioni? Se l’esprimere è il carattere più definitorio di una soggettività, vi sono esperienze nelle quali questo aspetto è maggiormente evidente? Se è vero che l’uomo, prima di essere «storico, è ‘storico’ [historien, est historique]» (Dufrenne 1959, 248), nel suo destino di essere incarnato, egli non è espressione, superficialità particolare, che per l’essere (del) profondo, naturale, che riecheggia dalle voragini di un passato più o meno lontano o accessibile. Lo stesso dicasi per gli oggetti, per i suoi prodotti istituiti.

Il caso dell’arte
Quest’aspetto è particolarmente pregnante nella produzione degli oggetti d’arte. L’oggetto estetico, infatti, dice Dufrenne nella sua Phénoménologie, al contrario dell’oggetto d’uso, ha per caratteristica fondamentale quella di raccontare, di esprimere, la ‘natura’ del suo creatore: in quest’oggetto, è come se «fosse la natura a divenire spirito» (1969, 162). Si tratta di una particolare presenza «vivente» dell’artista, che permane nella sua opera, di una ‘profondità’ che l’analisi storica non saprebbe restituire. La «verità dell’autore» scrive Dufrenne, «è la verità dell’uomo presente all’opera, che conosco soltanto attraverso l’opera» (ivi, 181), ovvero attraverso la sua espressione. La presenza vivente ‘figura’ la «continuità di un destino singolare (…) l’unità di uno stile personale» (ivi, 164). Nell’esperienza estetica, «la totalità del soggetto (…) [e della sua] intenzione (…) definisce un’interiorità, ma che è tale solo esteriorizzandosi» (Dufrenne 1968, 141). La profondità è direttamente associata all’interiorità, nell’esperienza del sentimento. ‘Profondo’ è ciò che «impegna lo sfondo, e attraverso il quale lo sfondo trova manifestazione (…) dove si raccoglie un’intensità che viene esteriorizzata dispiegando una totalità» (ibid.).

L’artista si realizza come uomo tutto intero. Catturato da questo stile, preso da questo mimetismo, l’opera e il suo autore si rivelano a me in tutta la loro presenza, «fornendomi una conoscenza pre-concettuale su cui non posso non fondarmi non appena entro nel gioco dell’intersoggettività» (Dufrenne 1969, 167) della quale l’espressione» (ivi, 440) è fondamento, il gioco di una progressiva stilizzazione che mi unisce agli altri nel loro – e nel nostro – mutuo riconoscimento. Lo stile, riconosciuto, consente di discernere una certa relazione tra uomo e mondo, una sigla, un modo, singolare, di «dire un mondo» (ivi, 173), un potere che ha facoltà di «esteriorizzarsi in mille modi» (ivi, 182), di incarnarsi differentemente, come variazioni di una stessa vita. Lo stile, così espresso, è singolare e, ad un tempo, universale. L’artista che si esprime non sacrifica nulla della sua umanità, della sua appartenenza o delle sue affiliazioni, al fine di affermare la sua creazione. Anzi, è l’umanità intera, nella sua generalità, a vedersi glorificata da questo apporto significativo, così speciale, in questo fortunato episodio della storia del mondo. Secondo questa reciproca apertura, di soggetto e mondo, l’opera non prevede infatti un contradditorio, una sua negazione.

L’affermazione dell’artista, del genio, non si impone a discapito della mediocrità dei restanti esseri, i quali possono solo ammirare, in silenzio, la grandezza del suo lavoro. Il superiore non ha ragione dell’inferiore. Il genio non mi schiaccia, non prevale su di me: lungi che «l’altro», l’artista, in questo caso, potremmo dire, «mi rubi il mio mondo» – commenta Dufrenne – «mi apre il suo senza costringermi, e io mi apro a lui» (ivi, 204, trad. mia), senza contraddirmi, senza bisogno di sopraffarmi.

«[S]ensibilizzati» (ivi, 266) dalla stessa esperienza, dal medesimo riscontro estetico, e come risvegliati dal sentimento della nostra cieca adesione al mondo, noi sposiamo questo messaggio e ne diventiamo testimoni, prosecutori. In quanto ricettori ne riconosciamo l’esteriorità, capiamo immediatamente che altro non è che la «promessa» (ivi, 167) di un’interiorità. Non è però un caso che le produzioni artistiche, sostiene Dufrenne, si richiamino l’un l’altra, che gli artisti cerchino di rispecchiarsi nel loro pubblico, di rispondere alle sue attese, di prevederne i gusti e gli appetiti. Ciò rispecchia un a priori, per certi versi ulteriore, per altri costitutivo, fondamentale: quello della socialità.

Il sociale
Dufrenne evidenzia la virtualità di un soggetto primitivamente sociale, originariamente posto in mezzo al mondo. Il soggetto non è solo incarnato, ma anche «sociale» (ivi, 203), in virtù della comune partecipazione ad uno «stile di vita» (ibid.) che abbraccia ciascuno di noi, ed al rispetto di un peculiare «contratto» (Dufrenne 1981, 209) che mi lega agli altri. Come nel caso del corpo proprio, anche l’altro è ovviamente interprete, come direbbe Merleau-Ponty, di una certa opacità. Nondimeno, ciò che è ‘umano’ è riconoscibile dall’umano, anche ciò che è sconosciuto ma virtualmente conoscibile. Nihil alienum. È quindi nonostante – o forse proprio in virtù – di un’«ambiguità passionale» che rende l’altro parzialmente occulto alla nostra percezione, che noi abbiamo «conoscenza immediata e certa dell’altro come alter ego che ascriviamo al conto dell’a priori dell’intersoggettività», a priori che rendono concepibili le altrui «peripezie emotive, gli sviluppi storici» (Dufrenne 1959, 206), come evoluzioni contingenti, successive di un’unica comunità di individui. Ancora, è in relazione a questi a priori, come ad esempio lo sono la ‘vicinanza’, la ‘somiglianza’, che, dice Dufrenne, nell’homo cogitans

anche se non sappiamo quali siano i suoi pensieri (…) sappiamo che pensa; che c’è una parte segreta di lui. (…) Se riconosco il mio prossimo in questo modo, non è proiettando su di lui una certa idea che ho di lui: lo conosco prima di conoscere me stesso, ed è piuttosto su di lui che imparerò a conoscermi. Prima di poter dire che è un mio simile, devo rendermi conto che io sono un suo simile (…) sono a sua immagine e somiglianza (ivi, 207).

L’altro, il suo comportamento, mi riflette, mi implica. In questo contesto, è addirittura la conoscenza altrui a essere primigenia rispetto a quella riflessiva, ovvero a quella che io posso avere delle mie azioni o dei miei pensieri, introiettivamente, interrogando le profondità del mio animo. L’altro eio siamo coesistenti, le nostre visioni non si ostacolano, non si escludono affatto. Anzi, questo stare insieme originario è una vera e propria «dimensione di me» (Dufrenne 1981, 210), una coesistenza che è impegno, una cooperazione che viene prima di qualunque concepibile discordia. Prima di poter confliggere, infatti, le nostre proposte devono potersi riconoscere, ‘familiarmente’, come ostili. Scrive Dufrenne che, addirittura, l’infelice «scontro è possibile solo sulla base di un precedente riconoscimento, e persino di un precedente sentimento di compatibilità; devo esistere con gli altri per voler esistere contro di loro. L’essere-con è quindi primario: a priori» (ibid.).

La compatibilità è perciò, allo stesso modo, garanzia della sua negazione, del suo decadimento e dell’eventuale dissidio tra gli esseri umani che si riconoscono in quanto tali, come nemici o rivali. Se gli individui, però, non si realizzano, non si confermano, espressivamente, che esternandosi, che dando prova della loro profondità, della virtualità del loro passato, è evidente che solo un ordinamento sociale, per quanto primitivo, possa fungere da teatro per questa messa in scena, per questo confronto sistematico ed ineludibile con l’alterità tutta.

La cultura. Una conclusione
È per questo che, in Dufrenne, le nozioni di ‘cultura’ e ‘società’ giocano un ruolo così importante. In ogni individuo, infatti, vive una «cultura» (ivi, 213) che è genuina espressione del suo tempo, e che rispecchia quella di cui altri individui, prossimi, sono messaggeri. La società è quindi strumento e fine dell’espressione individuale: è la società stessa, la comunità, a priori, a consentire all’individuo di «attualizzare alcuni dei suoi a priori» (ivi, 221), personali, quelli più dichiaratamente ‘mimetici’. Si tratta di una relazione strettissima, perfino coincidente: come scrive l’autore, «io sono la mia società come sono il mio corpo» (Dufrenne 1959, 212).

Nello stesso modo, allora, così diretto, per il quale accedo al mio corpo, così accedo all’essere sociale, al mio e a quello degli altri. Nello stesso modo, così ‘indiretto’, così opaco, per il quale è necessario che mi comunichi, che mi esprima, per conoscermi, io ho accesso alla mia dimensione sociale, altra faccia o rovescio della dimensione individuale. Nel percorso della sua affermazione, l’uomo – l’essere vivente – «non lascia mai il suolo che lo porta» (ivi, 216). Al contrario: è nell’espressione che il fondo, il ‘suolo’, trova il suo massimo risalto.

 

Bibliografia

  • Dufrenne, Mikel. 1959, La notion d’a priori, Paris: PUF,
  • Dufrenne, Mikel. 1966, Maurice Merleau-Ponty, in Jalons. La Haye: Martinus Nijhoff.
  • Dufrenne, Mikel. 1968, Esthétique et philosophie. Tome III. Paris: Éditions Klincksieck.
  • Dufrenne, Mikel. 1969, Fenomenologia dell’esperienza estetica. 1. L’oggetto estetico. Roma: Larici editore.
  • Dufrenne, Mikel. 1976, Esthétique et philosophie. Tome II. Paris: Editions Klincksieck.
  • Dufrenne, Mikel. 1981, L’inventaire des a priori. Recherches de l’originaire. Paris: Christian Bourgois Éditeur.
  • Dufrenne, Mikel. 2004, L’occhio e l’orecchio, a cura di C. Fontana. Milano: Il Castoro.
  • Dufrenne, Mikel. 2011. Phénoménologie de l’expérience esthétique. Volume II. La perception esthétique. Paris: Gallimard.
  • Merleau-Ponty, Maurice. 2003. Fenomenologia della percezione (traduzione A. Bonomi). Milano: Bompiani.

Foto di Tamanna Rumee su Unsplash

Dottorando in Filosofia presso le Università Ca' Foscari di Venezia e Paris I Panthéon-Sorbonne. Precedentemente laureato in Scienze Filosofiche presso l'Università degli studi di Firenze e in Filosofia presso l'università di Trento.

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