Il corpo vibrante: la corporeità musicale come modo di abitare il mondo

Questo saggio si propone di analizzare la centralità e le diverse sfumature della corporeità nel pensiero di Maurice Merleau-Ponty in rapporto al ruolo del corpo nella musicoterapia di stampo umanistico. Nucleo dell’analisi sarà il superamento del dualismo mente/corpo che il filosofo opera affermando la centralità della corporeità come mezzo imprescindibile del commercio tra il soggetto e il mondo. Tale riflessione confluirà nella nozione di inter-corporeità che regge l’aspetto relazionale dell’espressione ontologica del corpo vivente e che, attraverso il concetto di carnalità, trova nel linguaggio artistico una modalità privilegiata di espressione. L’obiettivo è di mettere in luce il legame tra tali riflessioni e il sistema di pensiero sottostante alla musicoterapia che, con il lavoro sul corpo vibrante e attraverso il dialogo sonoro, definisce la centralità della corporeità nell’espressione dell’umano. Continue Reading

L’assoluta precisione dell’indeterminato

Per capire Spinoza, i testi e i movimenti del suo pensiero è utile fare ricorso al suo epistolario che contiene lettere ad amici o semplici conoscenti che gli chiedevano, in forma privata, chiarimenti sulla sua filosofia. Molto spesso la corrispondenza con un amico si incentra su un argomento specifico o prevalente. Significativa in tal senso è quella con Johannes Hudde intervenuta tra il gennaio e il giugno del 1666. Nato ad Amsterdam nel 1628, Hudde era stato uno studente di medicina con interessi in molti altri campi del sapere scientifico, anche se non mancò il suo impegno politico come Borgomastro della città olandese. Insieme a Spinoza e ad Huygens,  essi formavano un trio particolarmente versato nelle discussioni sulla scienza dell’ottica che in quegli anni prendeva forma definitiva.  Hudde, in particolare, divenne noto per gli studi sulla diottrica di Cartesio la quale, come scrive Meinsma nel suo classico Spinoza e son cercle, lo incoraggiarono ad occuparsi del taglio delle lenti d’ingrandimento e del problema della determinazione. Sarà per questo motivo che la corrispondenza con Hudde, anche se abbiamo soltanto le lettere inviate da Spinoza, verte sul problema dell’indeterminato. Si tratta di una questione centrale nella filosofia che costituirà oggetto di approfondimento non solo nei suoi testi ma anche in altre lettere successive. 

Omnis determinatio est negatio
Esemplare a questo proposito è una lettera del 1674 a Jelles, da cui non si può prescindere per mettere a fuoco la questione. Se essa è nota per il confronto con la filosofia di Hobbes sul diritto naturale, la lettera è altrettanto celebre per l’affermazione (poi ripresa da Hegel) secondo la quale omnis determinatio, negatio est: «la determinazione non appartiene alla cosa secondo il suo essere; al contrario essa è il suo non essere». Si tratta di una delle massime più controintuitive della filosofia rispetto al senso comune in quanto ci conduce a pensare che proprio la cosa reale che ho di fronte è la sua stessa negazione: costringere la materia sotto una certa forma, vuol dire infatti porre una determinazione e quindi una negazione, tale che il termine che identifica la determinazione nega di quella cosa tutto il resto e nega di tutto il resto che sia quella cosa.

Come stanno allora le cose rispetto alla questione della dicibilità dell’assoluto, cioè di Dio? In altre parole, come lo rappresentiamo se le parole sono radicalmente inadeguate per esprimere la totalità? Riferita a tale questione, che è poi quella dell’unità e dell’unicità dell’assoluto, essa appare come segue: noi possiamo dire che Dio è infinito e unico solo impropriamente in quanto, propriamente, siccome Dio, essendo uno, è inconfrontabile con altro, egli non si può esprimere. Il nostro riferirci alla molteplicità si dà rispetto a cose che possono essere poste in relazione con altro; ma siccome Dio non può essere confrontato con niente perché è absolutum, la sua natura è cioè priva di riferimenti, noi diciamo che è unico impropriamente perché propriamente parlando non potremmo utilizzare questa definizione. 

Unità e infinità di Dio
Questo problema viene spiegato nelle tre lettere a Hudde, in particolare nell’epistola 48 che contiene il testo più importante riguardo all’indeterminato. Spinoza ricorda dapprima le quattro proprietà di Dio enunciate nella lettera precedente ma poi finisce per concentrarsi sulla questione che più interessa a Hudde, quella appunto della determinazione. Nell’elenco delle proprietà di Dio, Spinoza aveva indicato quella dell’indeterminazione: esso (Dio) non può essere concepito come determinato, ma soltanto come infinito (e si noti a questo proposito la sostituzione del termine). Infatti se la natura di questo ente fosse determinata, e come tale fosse anche concepita, quella natura, al di fuori di questi termini, verrebbe concepita come non esistente, cosa che anche ripugna alla sua definizione.

Spinoza dice che l’ente la cui essenza implica l’esistenza non può essere concepito come determinato ma soltanto come indeterminato: nel pensiero se è pensiero, nell’estensione se è estensione. In base alla terza proprietà, egli afferma che l’ente che implica l’esistenza necessaria deve essere pensato come infinito: ciò in quanto che, se si dovessero porre dei termini a questo ente, esso finirebbe per esistere entro quei termini ma non fuori di essi, venendo in tal modo (secondo quanto stabilito nella lettera a Jelles) a negarsi. Questa determinazione, essendo una negazione, contraddice alla definizione dell’ente che esiste necessariamente: se la sua natura fosse determinata, potrebbe esistere necessariamente rispetto a qualcosa ma non assolutamente. 

Perché allora quando riprende questo riferimento Spinoza dice che l’ente non può essere concepito come indeterminato rispetto al pensiero e all’estensione? Perché Spinoza fa riferimento alle determinazioni? La definizione dell’ente la cui essenza implica l’esistenza è la definizione di un ente la cui natura in quanto tale implica l’esistenza. La contraddizione consiste nel voler determinare questa natura perché al di fuori di quella natura quell’ente non esisterebbe. Allora possiamo dire che se si considera un ente come implicante l’esistenza necessaria solo in quanto estensione, fuori dell’estensione non c’è esistenza necessaria. Il limite sta a designare il non ente di quell’ente. Il determinato non indica nulla di positivo ma soltanto privazione di esistenza: se si concepisce un ente la cui definizione implica esistenza, questo ente non si può concepire come determinato perché altrimenti si incorrerebbe nella contraddizione dicendo al tempo stesso che quella natura implica esistenza e non esistenza. 

Il passo avanti che compie Spinoza è quando illustra la sesta proprietà. Qui si concede ad Hudde la tesi che perfezione ed estensione siano due sostanze; ma se noi supponiamo che esiste per sua natura l’estensione (cioè un ente che non comprende tutte le perfezioni), dobbiamo supporre che a maggior ragione esista per sua natura l’ente che possiede per sé tutte le perfezioni. Esiste una indeterminazione assoluta e una in suo genere: la prima appartiene a Dio, la seconda agli attributi. Da notare le equivalenze: determinazione come imperfezione e privazione; indeterminatezza come perfezione e totalità. 

Si arriva così alla conclusione. Se Dio lo consideriamo come l’ente assolutamente indeterminato, cioè quello che è condizione di possibilità di tutti gli enti, segue che non vi può essere che un solo ente, e dunque pensiero, estensione ecc. non possono dirsi enti perché l’unicità si può dire solo nei confronti dell’ente. Pensiero ed estensione non possono essere pensati come sostanza, come qualcosa cioè che sussiste: se si dà un ente privo di determinazione, tutto deve essere attribuito a questo ente e gli altri non sono enti sussistenti, cioè sostanze. 

Il calcolo dell’incidenza dei raggi
Con una improvvisa torsione, la lettera si chiude con un problema di carattere lavorativo. Spinoza infatti ha in animo di farsi costruire delle nuove forme per la tornitura delle lenti e così chiede consiglio all’amico. Come detto, in questa corrispondenza abbiamo solo le lettere di Spinoza ma non quelle di Hudde e quindi non conosciamo le sue osservazioni. Il discorso  verte sulla rifrazione dove Spinoza utilizza le teorie di Huygens, nello specifico la formula dei punti coniugati derivata dalla geometria euclidea, per spiegare come le lenti piano convesse siano migliori di quelle concavo convesse. Questo sia per motivi fisici (così come spiegato con alcune equazioni matematiche) sia per motivi economici, in quanto (come Spinoza nota da buon commerciante) le lenti concavo convesse sono molto più dispendiose in termini di tempo e di denaro. Colpisce l’assoluta precisione dei concetti enunciati:  sembrerebbe che quanto più si considera Dio e l’Assoluto come ciò che, per sua natura, è l’indeterminato, tanto più le osservazioni sulla realtà si fanno rigorose ed esatte.

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Dal riduzionismo mente-corpo alle coreografie ontopoietiche

Abbracciando lo spostamento di prospettiva degli studi di ecologia politica di Latour possiamo interrogare la questione del corpo a partire da un punto di partenza inedito, quello degli oggetti non umani. Farsi portavoce degli oggetti non umani per interrogare l’umano significa decentrare in modo efficace la questione del rapporto soggetto-oggetto nei suoi progressivi e spesso fallimentari slittamenti teorici verso corpo e mondo. Né corpo e mente né corpo e mondo, l’umano è costitutivamente un ibrido in fieri di fatti mentali e corporei, oggetti e manufatti tecnologici. Questa interrogazione immanente permette di porre la questione del potere sui corpi (a questo punto umani e non umani) senza fratture dualistiche e rischi riduzionistici, ma anche di evitare una banalizzazione relativistica che tolga al soggetto agency e responsabilità nella catena di creazione di significati e corpi nel quale collabora. Continue Reading

L’unità originaria del sapere di sapere (IV)

Avendo precisato, nel precedente articolo, il senso in cui si parla di atto, è possibile ritornare al tema del suo rapporto con la procedura, cioè con l’esposizione dianoetica. Quest’ultima si fonda innegabilmente sull’atto noetico, il quale richiede inevitabilmente la procedura per trovare un’espressione determinata.
Nel determinare il noema, questo è l’aspetto inevitabile, l’atto di pensiero viene implicato come la condizione oggettivante cui l’oggettivazione innegabilmente rinvia, senza che questa condizione possa venire oggettivata. Essa è inoggettivabile proprio perché è condizione incondizionata di ogni oggettivazione.
La procedura dianoetica, quindi, esprime in forma discorsiva e determinata ciò che è stato oggettivato (il contenuto del pensiero). E, mediante essa, si fa innegabile riferimento all’atto oggettivante, che dell’oggettivazione è la condizione. Si potrebbe dire, pertanto, che l’oggettivato è segno dell’atto oggettivante, il quale emerge, appunto, come la condizione stessa dell’oggettivazione. Continue Reading

Nietzsche: tra filologia e filosofia

Non v’è mai stato un servizio divino pari a quello greco: per bellezza, sfarzo, varietà e unità esso è unico al mondo e rappresenta uno dei prodotti più alti dello spirito universale. Il «Greco celebratore di feste» ne fa parte, è il soggetto adeguato a quell’oggetto
(Nietzsche 2012, 11)

Il Nietzsche filologo, poco conosciuto, o del tutto ignorato, costituisce un campo di studio scientificamente ricco che permette di comprendere in modo profondo il pensiero del filosofo di Röcken. L’opera Il servizio divino dei Greci raccoglie le lezioni sul culto greco che Nietzsche tenne durante i semestri invernali del 1875-76 e del 1877-78. Si tratta delle ultime lezioni della sua attività di professore presso l’università di Basilea (oltre che al ginnasio), ma non bisogna commettere l’errore di considerare tali lezioni come se si trattasse semplicemente dell’epilogo di quel rapporto difficile tra il filosofo e la filologia; rapporto problematico, certo, che non va mai letto, però, nei termini di un abbandono da parte di Nietzsche della dimensione filologica, come sostengono molti studiosi. La tesi che qui sviluppiamo, seguendo Montinari, Colli, Posani Löwenstein e Biuso, è che in Nietzsche si ha una filosofia filologica e una filologia filosofica, come vedremo, all’insegna del primato ermeneutico. Continue Reading

Falstaff, l’ironia come giustizia

Secondo Harold Bloom, uno dei maggiori critici dell’opera di Shakespeare, Falstaff, insieme ad Amleto, è il più grande personaggio creato dal filosofo e drammaturgo inglese. Noto per essere il protagonista delle Allegre comari di Windsor, simile per figura e carattere a Sancho Panza, nei drammi storici Falstaff è l’amico intimo del principe Hal (poi futuro Enrico V). Una delle chiavi di comprensione del personaggio è la scena in cui viene descritta la sua ultima apparizione. Il re, durante la sfilata dell’incoronazione, si ferma davanti al suo vecchio amico di tante avventure e pubblicamente lo rinnega. Falstaff, senza battere ciglio, confida al suo paggio che il re fa così per timore del giudizio della gente e che lo manderà certamente a chiamare in privato. Cosa che non avverrà mai e anzi Falstaff sarà prima incarcerato e poi, senza sapere più nulla di lui, sarà data notizia della sua morte. Un episodio che rivela un animo puro, ingenuo, alieno da quel cinismo di cui viene spesso accusato: nel momento in cui il suo amico lo rinnega, egli lo protegge e così facendo, compie un’opera di giustizia difendendo una storia comune che valeva la pena essere difesa.

In realtà il Falstaff dell’Enrico IV è un enigma. Solo a Iago, il cinico e invidioso consigliere di Otello, viene posta la questione della sua vera identità: così come Iago risponde di non essere quello è, il principe Hal esclama nei confronti di Falstaff che «Tu non sei quello che sembri» (1 Enrico IV, V.3). Falstaff gli risponde che proprio questo gli conferisce la sua maggiore qualità rendendolo un uomo coerente e non doppio: infatti egli è sempre diverso a seconda della situazione, divenire allo stato puro. Ma la sua natura è quella di rivelare il vero carattere di chi ha di fronte, così come fanno gli specchi: sarà così per il principe Hal, così per il Chief Justice, imbarazzante figura di giudice al servizio dei potenti, zelante quanto accondiscendente a seconda delle condizioni politiche.

Falstaff sembra piuttosto avere una mente libera dalla malizia, una sorta di Forrest Gump, diremmo oggi, coscientemente arguto, sebbene privo di quella dabbenaggine, derivante da una qualche sorta di deficit cognitivo, che caratterizza il personaggio americano. Anzi è proprio questo l’obiettivo di Falstaff, rendere gli altri più arguti: «Ogni sorta di uomini si vanta di prendermi in giro. Il cervello di questa idiozia impastata d’argilla, l’uomo, non è in grado di inventare nulla di più risibile di quel che invento io, o che si inventa su di me; non solo sono spiritoso, ma provoco lo spirito degli altri» (2 Enrico IV, I.2).

L’ironia tra Socrate ed Hegel
Falstaff è figura dell’ironia, il più enigmatico degli atteggiamenti dello spirito. L’ironico infatti è un dissimulatore che, al contrario del politico, rovescia il senso delle sue parole e delle sue azioni non per ingannare ma per insegnare. In questo senso, osserva Bloom, egli è un satiro che lotta contro ogni forma di potere e quindi di storicismo. Falstaff sa che la storia è un continuo rovesciamento e il principe Hal, dissimulatore allo scopo di ottenere vantaggi personali, non lo può accettare in quanto la sua stessa posizione verrebbe a trovarsi in pericolo.

Non è un caso che Hegel, il filosofo dello Stato per eccellenza, abbia giudicato l’ironia in termini negativi, vero e proprio frutto del nichilismo con il quale il soggetto considera la realtà, «concentrazione dell’Io in sé per cui sono rotti tutti i vincoli e che può vivere solo nella beatitudine dell’autogodimento». (Estetica, p.78). L’ironia ha come conseguenza la vanità di ogni cosa e l’evaporazione di ogni eticità sicché se «l’Io si arresta a questo stadio a lui tutto appare come nullo e vano: eccetto la propria soggettività, che perciò diviene vuota e vana essa stessa». Falstaff incarna per Hegel un giudizio negativo infinito che, in quanto tale, nasce nell’ambito dello spirito autoalienato. Egli serve (così come il buffone di Re Lear) a depotenziare la figura principale: «Anche Shakespeare o pone accanto ai suoi fermi caratteri individuali, ed alle situazioni e ai conflitti tragici, figure e scene comiche, oppure attenua quei caratteri per mezzo di un profondo umorismo su loro stessi ed i loro stridenti, limitati e falsi fini» (Ibid, p.663); sicché, conclude Hegel, tutti i suoi fini sono ricompresi nel perimetro di una «interiorità astratta disordinata».

Shaftesbury, l’ironia e la tirannia spirituale
Questa lettura non può essere riferita a Shakespeare per il quale il termine wit indica quella facoltà intellettuale che riunisce la comprensione, il giudizio e l’immaginazione: se wit può essere usato per designare la mente in generale, per Shakespeare denota la facoltà di associare idee in modo nuovo e ingegnoso, naturale e allo stesso tempo artistico. Falstaff in questo contesto è l’incarnazione del disordine e dell’anarchismo individualista, così come appare quando, dopo aver chiesto al principe Hal l’ora del giorno, viene rimproverato che, con la vita sregolata che conduce, egli ha dimenticato di chiedere ciò che dovrebbe sapere sul serio: «Che diavolo hai tu a che fare con l’ora del giorno?»: come a dire che è inutile porre domande su quella forma di razionalità scandita dagli orologi quando la propria vita non è assoggettata ad una qualche forma di pianificazione.

Piuttosto che quella di Hegel, l’ironia di Shakespeare incarna lo spirito di Shaftesbury per il quale essa (tanto difficile a definirsi così come lo è la buona educazione) viene considerata piuttosto come un’attitudine, uno spirito pratico e leggero che si rivela solo nell’azione. Essa nasce quindi solo dalla conversazione e per Shaftesbury il vero metodo filosofico è quello socratico, nel quale l’ironia aveva così tanta parte. Questo perché, aggiunge il filosofo inglese, la sapienza si comunica solo ai piccoli gruppi e non certo alle masse. Semmai l’ironia ha di particolare che essa rivela sempre la mancanza di libertà. Infatti, osserva Shaftesbury, «che le cose siano così lo si può vedere in quei Paesi dove più forte è la tirannia spirituale. Infatti gli italiani sono i più grandi buffoni: nei loro scritti, nelle libere conversazioni nei teatri e nelle strade comicità e parodia sono in gran voga. E questo è l’unico modo per i miseri oppressi con cui possono esprimere un libero pensiero». In questo genere di arguzia Shaftesbury riconosce una certa superiorità agli italiani. Ma la situazione non è poi molto dissimile in Inghilterra se, come dice Falstaff, nel disordine causato dalle continue guerre civili, la legge è diventata una pagliacciata. A questo proposito non deve sorprendere il fatto che Shakespeare non rappresenti mai il suo Paese come patria delle civil liberties (se non nei suoi aspetti più tritamente retorici).

Vivere fingendo di morire
Il nome originario di Jack Falstaff è John Oldcastle, il principale rappresentante dell’etica lollarda la quale, sulle orme di John Wyclif, è a fondamento dell’etica puritana inglese. Il cambio del nome è motivato dall’esigenza di evitare riferimenti ironici (e le violente ripercussioni che ne sarebbero derivate) a quello che era stato uno dei primi martiri protestanti. Di fatto però, il linguaggio di Falstaff è una parodia di quello puritano, uno stratagemma shakesperiano che sembra nascondere l’accusa di corruzione, rivolta agli stessi protestanti, di aver sovvertito il linguaggio biblico.

Ma Falstaff rappresenta anche l’antitesi della ragion di stato. Ad un certo punto l’anziano grassone esclama: «Bandite il pomposo Jack e bandirai il mondo intero» (1 Enrico IV, II.4). Ma l’osservazione più interessante è quella relativa alla morte che Falstaff pronuncia nel momento in cui, rimasto solo sul campo di battaglia (dove, durante tutto il combattimento, era rimasto disteso a terra fingendo di essere morto), accoltella il corpo ormai senza vita di Hotspur, poco prima ucciso a duello dal principe Hal. «Far finta? Mento, perché io non sono una finta, morire è una finzione, perché non è che una finta di uomo colui che di un uomo non ha la vita. Ma fingere di morire, quando con ciò un uomo vive, non è essere una finta, ma la vera, perfetta immagine della vita, sì!». (1 Enrico IV, v.3). Si potrebbero interpretare queste parole come puramente opportunistiche; oppure pensare che esse esprimano un’etica epicurea secondo la quale la morte non è nulla per l’uomo perché quando viviamo la morte non c’è, quando invece moriamo non ci siamo più noi. In realtà bisogna anche ricordare che le parole, più per quello che significano in sé, contano a seconda di chi le pronuncia: anche la verità più cristallina, messa in bocca ad uno stupido, perde completamente il suo valore. Falstaff è colui che incarna la libertà contro la tirannia dello Stato: egli non è una finta, uno spaventapasseri, bensì un individuo disposto a sfidare il Leviatano sul suo stesso terreno. Che non è quello di mettere in discussione il terreno, ma lo spirito con il quale lo si deve affrontare: se la morte appare l’ultima sovrana, allora l’uomo ha già smarrito la sua vera natura.

Una storia di fantasmi

“Teleplastia. Saggio sulla psiche interrotta”, è l’ultimo lavoro di Silvia Vizzardelli, docente di Estetica e Filosofia della musica presso l’Università della Calabria. Si tratta di un testo dall’argomentazione originale e coraggiosa, un contributo atteso a lungo, che prende le mosse a partire da un interessante intervento dell’autrice risalente all’estate del 2019, tenuto a Forlì per la scuola di filosofia “Praxis” (L’atto teleplastico: le sagome del pensiero). Vizzardelli esamina il lemma “tele-”, deputato a definire l’essenza dell’“intervallo”: si tratta infatti della considerazione di quella che l’autrice definisce in questo libro come “actio in distans, ovvero la facoltà che un atto detiene di avere un’influenza ad un’apprezzabile “distanza” rispetto al soggetto che lo esegue. Ma l’aspetto cruciale di questa visione è che il soggetto mantiene una relazione drammaticamente “senza rapporto” con l’effetto stesso dell’atto causativo, come se questo soggetto stesso giungesse infine a negarne la paternità.

Silvia Vizzardelli, Teleplastia. Saggio sulla psiche interrotta, Orthotes, 2021

Facendo perno su quella che Einstein battezzò a suo tempo come “spooky action”, vale a dire “atto spettrale”, misterioso (elaborando così un pensiero che consentisse per la sua struttura di concepire la sussistenza di azioni che avessero effetti istantanei ma a ragguardevole distanza, nella dinamica dell’entanglement quantistico), Vizzardelli tenta di sovvertire il paradigma di causalità lineare e transitiva della meccanica e della filosofia classica (ma anche della psicologia e psicanalisi). La meccanica classica, infatti, riconosce lo svolgimento di un esercizio causale unicamente all’azione ed alla passione di due “corpi” contigui, prossimi e adiacenti. A questa logica causale congiuntiva, correlativa e lineare – in breve “humeana”, saremmo portati a concludere – l’autrice contrappone allora l’esistenza di pratiche “magiche”, che sono proprio quelle che si collocano specificamente oltre la “soglia” delle nostre capacità fisiche di soggetti agenti, riconoscendo così la traccia di un effetto del quale siamo, in un qualche modo, responsabili, ma che non è (o non è più) “innervato”, dice propriamente l’autrice, ovvero posto all’interno del novero delle nostre pur ampie possibilità di azione e corrispondente modifica del mondo circostante.

Alla pratica “magica” si riconosce perciò un fondamentale potere di interruzione, di interpolazione causale, di spaccatura o spacchettamento di unioni di organismi comunicanti, e, coerentemente con questo, l’emergenza che consente il rinnovato apprezzamento di un universo di rapporti di correlazione più complessi, un reticolo composto di linee “parallele” di “causalità”, ovvero di “effettività” non meglio definite a causa della stringente povertà del nostro vocabolario, ancora profondamente ancorato ad un lessico di retaggio empirista (in senso classico).

La magia è infatti la dottrina della rinuncia programmatica del possesso gnoseologico, ossia del “sorvolo” del quale aveva parlato Merleau-Ponty nei suoi corsi al Collège de France, rifiuto che si dirige verso una teoria che promulga viceversa il distacco e l’apprezzamento della fluttuazione onirica del senso via via costituentesi: il soggetto che opera magicamente, come uno esperto stregone, è infatti un maestro versato nell’arte occulta, un mediatore che comunica tra i due mondi, unendoli e dividendoli ad un tempo, vale a dire quello visibile del tratto e quello invisibile che lo disegna, come un aruspice che sa scrutare e manipolare le leggi e le catene inferenziali che lo circondano e comandano il suo cosmo, un soggetto che è perciò in grado di “incorporare” nozioni, azioni, stilemi causali, di avere cioè un’influenza mutuale su di loro, ma che non può pertanto “assimilare”, fare proprie queste risorse epistemiche una volta per tutte, vale a dire infine sottrarle al gioco continuo e “forsennato” della distanza, al moto ondoso e rifrangente della “doppia scrittura”, per riprendere un lessico caro a Lévinas o a Derrida e che Vizzardelli ha il merito di fare suo in questo testo.

Ecco che allora causa ed effetto arrivano a somigliarsi, secondo queste raffigurazioni: essi si rispecchiano, si rispondono pur senza intraprendere una diretta interazione, secondo una concordanza che, a ben vedere, non è (più) riconducibile all’azione diretta ed esclusiva di “una” causa, secondo una dinamica proiettiva di significato transeunte. Ciò si esemplifica nel mito di Orfeo ed Euridice riproposto da Rilke e messo in scena dal regista Romeo Castellucci, che Vizzardelli riprende nella sua Introduzione (p. 19). Questa rispondenza si compie quindi nel riconoscimento di due polarità ineliminabili, ovvero nel racconto di una storia che può essere unicamente scritta “a più mani” e da più autori o protagonisti che agiscono (e non patiscono) insieme, secondo una narrazione intricata che svincola finalmente Euridice dall’immaginazione erotica, univoca, di Orfeo cantore: ella infatti, nel poema e nella trasposizione scenica del 2014, “dimentica e dal mondo dimenticata”, non riconosce sorprendentemente la voce dell’amato che la (ri)chiama, ma si riassorbe eclissandosi dolcemente nel torpore monocorde e materico del regno al quale ora e per sempre appartiene, che solo, nell’oscurità, incorpora la sua “scrittura”, dandole traccia.

Nell’arco di quattro capitoli davvero stimolanti (“Uno. Teleplastia”; “Due. Un apparato a due mani”; “Tre. Interruzione e separatezza”; “Quattro. “Non sviluppare, non pontificare”), che seducono e sfidano i limiti del nostro pensare “pontificante”, al quale siamo tradizionalmente e forse colpevolmente più avvezzi, la prospettiva teorica di Silvia Vizzardelli – con quella di altri autori, come Blanchot e su tutti Lacan, quest’ultimo trattato più estesamente nel terzo capitolo – riesce efficacemente a far parlare quella voce del silenzio che cancella eppur unisce il fluire incessante delle nostre parole, che si scoprono, così facendo, scollegate e “magicamente” riunite. Secondo i dettami della “doppia grafia” o scrittura “a distanza” che si imprime su curiose e difformi superfici grafiche tra loro lontanissime, l’autrice riesce infatti a catturare con precisione, appunto “inscrivendoli”, fenomeni “magici” e teleplastici, come l’inconscio psichico che, come brusca ed inspiegabile interruzione dell’attività cosciente, rimodella le restrizioni del modo di intendere il flusso delle nostre azioni e percezioni sensibili. Questo testo merita senz’altro di essere studiato con attenzione, al fine di fare proprio, tra le altre cose, il punto di vista che l’autrice promuove per mettere in pratica una rilettura e ricomprensione di temi classici della storia del pensiero occidentale.

 

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Le tre eresie di Cusano

«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica. Continue Reading

Vero pensiero è l’unità di pensante e pensato (III)

L’atto di coscienza come fondamento
Come dicevamo nella seconda parte del presente lavoro, nella misura in cui il pensiero poggia sulla differenza, e dunque vale come relazione tra pensiero pensante e pensiero pensato, esso si fonda sull’atto noetico del suo sapersi (che costituisce l’essenza autentica del pensiero pensante) e si esprime come procedura dianoetica che lo dispone come discorso, cioè come linguaggio.
Da un certo punto di vista, il linguaggio rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che anzi lo esprime in forme determinate. Quelle forme determinate che poggiano sulla relazione, la quale costituisce l’essenza stessa delle forme o la loro struttura.
Da un altro punto di vista, l’atto di pensiero vale come visione del noema (del contenuto di pensiero) e solo in quanto tale esso fonda la possibilità che il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente. Continue Reading

Enricopedia, un bastardo per la gloria

La seconda tetralogia di Shakespeare si presenta come un tutto coerente in cui le due parti intitolate a Enrico IV sono in realtà centrate sul figlio, il principe Hal, futuro Enrico V. Non esistono partizioni precise, rigide, definitive entro le quali classificare i personaggi, gli eventi e le loro cause. Le stesse informazioni che ci dà il filosofo e drammaturgo inglese sono come avvolte da una nebbia, spesso sospese nel mare della disinformazione. Non è un caso che il soggetto che apre la seconda parte dell’Enrico IV è Rumour, il pettegolezzo «Aprite le orecchie, perché chi di voi tapperà le vie dell’udito, quando il pettegolezzo parla forte? (…) Sulle mie lingue continuamente viaggiano calunnie, che vado ripetendo in ogni idioma rimpinzando le orecchie umane di false notizie». Il pettegolezzo racconta le vicende della storia e non esistono messaggeri che non siano da lui informati. In questo contesto di fake news, che è poi quello ordinario della politica, vengono messi in scena i problemi della legittimità, dell’etica, della competenza a governare.  Continue Reading

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