L’importanza di non essere un pipistrello

L’esperimento mentale del filosofo americano Thomas Nagel, pubblicato su The Philosophical Review nell’ottobre del 1974, mira a confutare le ipotesi fisicaliste e riduzioniste che intendono spiegare il rapporto tra mente e corpo in termini puramente biologici. Nagel, ponendo una serie di problemi che s’incentrano essenzialmente sul ruolo della coscienza e su quello della soggettività individuale, parte da questo presupposto: anche se conoscessimo tutta la meccanica del cervello, anche se fossimo in grado di mappare ogni cellula che costituisce la nostra materia grigia, noi non comprenderemmo mai che cosa significhi fare un’esperienza spirituale, percepire un oggetto o provare delle emozioni. La ragione è semplice: nel momento in cui appare qualcosa alla coscienza, significa che appare qualcosa che equivale al come essere una certa altra cosa. Per dimostrare ciò, egli ricorre alla finzione di pensare a cosa si prova ad essere un pipistrello.

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Kundera e l’insostenibile leggerezza della libertà di pensiero

Milan Kundera, lo scrittore cecoslovacco scomparso l’11 luglio scorso, appartiene a quella grande tradizione di scrittori europei (come Dante, Cervantes, Musil, Kafka, tanto per fare alcuni nomi) in cui la riflessione filosofica ha sempre avuto un ruolo di primordine. La sua principale caratteristica in tal senso era l’ironia la quale, come disse in una delle sue rare interviste, irrita non perché deride ed attacca ma perché ci priva delle nostre certezze, rivelando il mondo nella sua ambiguità. Nelle sue pagine si ritrova una vera e propria vena socratica che sconfina nello scetticismo, virtù che, a  differenza di quanto si pensa, costituisce condizione del vivere felice.
In Italia Kundera è diventato celebre grazie ad un romanzo (
L’insostenibile leggerezza dell’essere) spacciato dai salotti radical chic come un rifugio nella sessualità e cifra dell’edonismo degli anni ottanta con il risultato che il libro è stato venduto anche nei supermercati ma letto (e compreso) da pochi. Continue Reading

Ragione e rivelazione, due nemiche irriducibili

Ci sono molti modi per affrontare il problema del rapporto tra fede e ragione: la filosofia che accetta la rivelazione oppure la rivelazione che accetta la filosofia; la filosofia che viene posta come pari alla teologia oppure collocata in modo ancillare (e viceversa); infine fede e ragione pensate in collaborazione verso un fine superiore oppure in radicale conflitto.  

Quest’ultimo è stato il modo in cui quel rapporto è stato interpretato da Leo Strauss in una storica quanto drammatica lezione tenuta al seminario teologico di Hartford, Connecticut, l’8 gennaio del 1948.  In quella lectio magistralis, dal titolo Reason and Revelation, Strauss esaminava fede e ragione nell’arena del conflitto, come si espresse esplicitamente; non cercava cioè di riunire gli elementi comuni che potevano garantire un accordo tra le due ma ne evidenziava i loro principi ultimi che le separavano in maniera irrevocabile. Se la filosofia pretende di essere la vita nella conoscenza, la rivelazione la vita nell’obbedienza a Dio: ecco allora l’alternativa tra Atene e Gerusalemme, assunte rispettivamente come modello dell’antichità e modello della modernità. Vero che entrambe, filosofia e rivelazione, nascono come critica del mito e sono entrambe anti idolatre. La filosofia intende però questa sua natura come ricerca della verità, la conoscenza cioè come via alla felicità umana. Cosa che costituisce, osserva Strauss, il principio diametralmente opposto a quello biblico, quintessenza di ogni religione rivelata, in cui l’alternativa al mito è l’obbedienza al dio vivente.   Continue Reading

Il Dio di Spinoza, così lontano così vicino

Non si potrà mai insistere abbastanza sul fatto che il Dio di Spinoza, non solo rispetto alla tradizione religiosa, ma anche rispetto alla tradizione filosofica occidentale, sia un Dio di altra natura. Il modo principale per cercare di intenderlo è l’osservazione che Spinoza parte da Dio, come dice spesso nella corrispondenza con gli amici.
In che senso? Partire da Dio significa che l’intelletto umano è costituito dall’idea chiara e distinta di Dio: se l’intelletto umano non fosse costituito da questa idea chiara e distinta, non potrebbe partire da Dio. Ciò implica due rifiuti: da un parte quello di Cartesio che era partito dall’Io e dal Cogito; dall’altra il rifiuto della tradizione scolastica, la cui idea fondamentale è che l’intelletto umano non possiede un’idea chiara e distinta di Dio: secondo San Tommaso infatti l’idea di Dio, considerata in sé (quod ad se), è quanto di più chiaro e distinto ci possa essere; per l’intelletto umano (quod ad nos) non lo è.

Il ragionamento di Spinoza è molto più forte di quanto possa sembrare. Ed egli lo dimostra ricorrendo all’esempio paradossale secondo cui se anche rimanendo nell’amore di Dio non dovessimo conseguire la vita eterna, sarebbe comunque preferibile per l’intelletto umano rimanere in Dio. Per l’uomo infatti trovare qualcosa di meglio di Dio è totalmente insensato: come se un pesce, non potendo raggiungere nell’acqua la vita eterna, volesse vivere sulla terra abbandonando così il suo elemento naturale.

Questa radicalità di Spinoza nell’intendere Dio e l’intelletto umano non si accompagna però con l’utilizzo di un lessico altrettanto nuovo. Anzi, da questo punto di vista Spinoza è apparentato alla tradizione filosofica in molti aspetti della sua dottrina tanto da ingenerare equivoci e malintesi. Ciò avviene soprattutto a riguardo del concetto di causa efficiente, che accomuna sia il Dio di Spinoza che quello della tradizione scolastica medievale. I punti su cui dobbiamo incentrare la nostra attenzione sono almeno tre. Continue Reading

Wittgenstein e la distruzione del cogito cartesiano

Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l’esperienza per cui si è desiderato avere delle parole speciali per descrivere un momento speciale. Le parole a disposizione erano insufficienti e si avrebbe voluto avere un proprio linguaggio creato appositamente per la sensazione che si stava vivendo. Il desiderio sarebbe stato sensato? Sarebbe pensabile cioè un linguaggio in cui si potesse esprimere le proprie esperienze per uso personale? In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze interiori? In che modo designo le mie sensazioni con le parole?

Tutte domande che Wittgenstein si pone continuamente, non solo nelle sue Ricerche Filosofiche. E la sua risposta è negativa: un linguaggio privato non solo non si costituisce ma non è nemmeno pensabile. Nel suo stile irrequieto, frenetico, mai sistematico, egli utilizza almeno tre blocchi di argomenti: la definizione ostensiva (“questo è S”), la sensazione del dolore e la natura dei colori. In tutti questi casi, il filosofo austriaco intende demolire alla radice l’idea che un soggetto, nominando qualcosa, voglia indicare qualcosa che a sua volta si possa distinguere in reale ed irreale. Non esiste cioè una prospettiva ontologica che parta dal soggetto: l’idealismo, come dice in una sua lezione, si lega soprattutto ai dati di senso visivi. In parole più chiare, per chi è abituato a ragionare in filosofia aiutandosi con la storia della filosofia, Wittgenstein ha come riferimento polemico Cartesio e il cogito cartesiano, il cuore stesso dell’idealismo.  Continue Reading

Leggere Wittgenstein

Quando si affronta un nuovo sistema filosofico, ci si trova sempre in una certa situazione di imbarazzo. Si vorrebbe avere una visione d’insieme, una sorta di sguardo dall’alto grazie al quale contemplare il paesaggio che attende chi dovrà attraversarlo. Il filosofo sa che deve fare la traversata da solo e per di più in una landa ignota: almeno avere un’idea della vastità del territorio sarebbe d’aiuto. Una buona regola sarebbe quella di studiare come se si dovesse affrontare un fortino inespugnato: attaccandolo cioè dal lato debole, o almeno quello che appare tale e che sembra essere compreso più facilmente. Per Ortega y Gasset lo studio dei grandi problemi filosofici richiede una tattica simile a quella che gli Ebrei adottarono per prendere Gerico: «non per attacco diretto ma girandovi intorno lentamente, affrontando la curva ogni volta più strettamente e mantenendo vivo nell’aria il suono delle drammatiche trombe»

L’importanza di questa strategia (ma allo stesso tempo l’imbarazzo)  si accresce quando si deve affrontare lo studio di un filosofo come Wittgenstein. Da dove partire? Dove attaccare il discorso senza che questo si dimostri essere una strada interrotta? Lo stesso Wittgenstein diceva che «Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole: la straordinaria rete di strade ben tenute praticabili (tanto che) sarebbe buona norma mettere dei cartelli là dove si diramano le false strade, che aiutino a passare sui punti pericolosi».  Se anche non si riuscisse a fare ciò, almeno affrontare lo studio in modo che la lettura delle sue proposizioni porti a pensare i problemi da lui pensati. All’inizio del Tractatus egli scrive che il libro può essere compreso solo da chi abbia già pensato i pensieri in esso contenuti. Crudo ma essenziale. Wittgenstein amava dire che l’unica cosa buona che aveva era che a scuola leggeva favole ai bambini. Ho avuto la stessa esperienza: dopo averne raccontata una, alla domanda su quale fosse il significato della favola, i bambini hanno risposto: «il signor Maurizio!»: non poteva capitarmi cosa migliore per capire la tesi del linguaggio come gioco. Continue Reading

Plotino o il tempo come svolgimento dell’eterno

Il filosofo che nel modo più penetrante ha tentato di ricomporre la frattura tra essere e tempo è stato sicuramente Plotino. Questo perché egli è colui che meglio di tutti ha saputo contemperare le esigenze spirituali del mondo antico e di quello moderno. Bergson, nel suo corso al Collège de France sulla Storia dell’Idea di tempo, aveva colto nel segno nel momento in cui individuava nella dottrina di Plotino la prima teoria moderna sull’origine del tempo. Giudizio a sua volta derivato da Simplicio, il principale commentatore del filosofo greco vissuto nel III secolo d.C, il quale scrisse che Plotino era stato il primo filosofo a produrre la vera teoria del tempo. L’originalità, spiega Bergson, deriva dal carattere interamente psicologico della sua concezione secondo la quale, dove c’è tempo, c’è un’anima, una coscienza.  Continue Reading

La scissione tra Essere e Tempo, peccato originale della filosofia

L’Occidente filosofico nasce da una rottura primordiale, quella tra essere e tempo. Parmenide, frammento 8: «L’Essere è ingenerato e imperituro, un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo». Se queste sono le parole che l’Eleate mette in bocca alla dea, viene allora rigettata la sapienza originaria riassunta nella frase di Pindaro secondo cui il tempo è padre di tutte le cose. Prima del parmenicidio, c’è il pindaricidio. Continue Reading

Il silenzio che sa farsi ascoltare

C’è una bella frase di Heidegger che dice: «Filosofare, alla fine, non significa nient’altro che essere principianti». Principianti, cioè coloro che cominciano qualcosa dall’inizio, che (proprio perché principianti) non presumono né assumono nulla in anticipo, che sono disposti a svolgere un’attività in cui, prima che sulle proprie conoscenze, devono fare affidamento sull’ascolto. Scegliamo questo pensiero (contenuto in una lettera del 1928) come augurio filosofico per il nuovo anno, il sedicesimo della nostra attività online.  Continue Reading

Il pilota di Hiroshima contro la banalità del male

Il secondo episodio di Hic Rhodus, hic salta, il podcast che arricchisce la nostra filosofia. 
Oggi parliamo di Günther Anders, della banalità del male e del pilota di Hiroshima. 

Di seguito la trascrizione dell’episodio.

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Esistono dei nomi nella storia che sintetizzano delle vicende drammatiche e cariche di significato etico, politico, filosofico. Dreyfuss, il capitano francese che alla fine dell’ottocento fu accusato ingiustamente di spionaggio perché ebreo, è uno di questi. Un nome altrettanto celebre è quello di Alfred Eichmann, il burocrate nazista che aveva il compito di organizzare l’eliminazione sistematica degli ebrei nei campi di concentramento. Eichman, al processo a cui fu sottoposto nel 1960, dichiarò che egli non era responsabile di tutte quelle uccisioni in quanto aveva semplicemente obbedito agli ordini. Egli, altri non era che un esecutore in un meccanismo più grande di lui di cui non poteva portare la responsabilità.

A fronte di questo personaggio ce n’è uno di cui si è discusso molto meno ma che in realtà è altrettanto importante, e che risponde al nome di Claude Eatherly, un ufficiale dell’aviazione americana, noto come il pilota di Hiroshima.

La mattina del 6 agosto del 1945, Eatherly si alzò in volo con il suo aereo per controllare le condizioni meteo sopra Hiroshima, una città nella parte occidentale dell’isola del Giappone. In tal modo, una volta assicuratosi che il cielo fosse sgombro da nuvole, egli diede il via all’operazione che avrebbe portato l’aereo bombardiere dal nome Enola Gay, a sganciare la prima bomba atomica della storia su una città. L’ordigno esplose esattamente alle 8:15 causando 70 mila morti all’istante, cifra che arrivò a 200 mila negli anni successivi.

Eatherly fu scelto per quella missione in quanto noto per le sue capacità, che gli erano valse il riconoscimento di pilota esperto e distinto. Tornato in patria egli fu salutato come vero e proprio eroe di guerra. 

Ma fu a questo punto che qualcosa andò storto per i gestori della narrazione ufficiale del personaggio.  Eatherly, preda di veri e propri incubi notturni, denunciò la sua azione e si rese protagonista di un vero e proprio pentimento pubblico. A differenza dei suoi compagni, il pilota manifestò la sua profonda colpa per quella azione. L’ufficiale americano giunse perfino a chiedere scusa al popolo giapponese. Insomma quella di Eatherly divenne una questione di vero e proprio imbarazzo per le autorità americane.

La vicenda del pilota di Hiroshima fu resa nota da un filosofo tedesco, Günter Anders per il quale «il 6 agosto rappresenta il giorno zero di un nuovo computo del tempo».

Anders instaurò un fitto e appassionante scambio epistolare con il pilota americano verso la fine degli anni cinquanta. Eatherly, scrive Anders, è l’antitesi di Eichmann in quanto egli «non è l’uomo che fa del meccanismo un pretesto e una giustificazione della mancanza di coscienza, ma l’uomo che scruta il meccanismo come paurosa minaccia di coscienza». Se affermiamo (come disse il gerarca nazista) che ci siamo limitati a collaborare, liquidiamo la libertà di coscienza; anzi, della stessa parola libero ne facciamo l’asserzione più vuota ed ipocrita.

Eatherly fu internato dalle autorità americane in un carcere psichiatrico con l’accusa di essere pazzo. Accusa infondata se si leggono le sue lettere. Basta citare questa sua frase che dimostra anche una certa intelligenza: «La verità è che la società non può accettare il fatto della mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua colpa ben più profonda». Una frase terribile quanto paradossale: molto spesso infatti gli eroi esistono per coprire le malefatte e i crimini della società. Non è un caso che egli tentò di togliersi di dosso l’etichetta di eroe pubblico con dei veniali gesti di criminalità fatti allo scopo. Eatherly viene definito un precursore, vero e proprio simbolo del futuro perché dimostrazione del fatto che con la tecnica si può diventare incolpevolmente colpevoli.

Anders sviluppò le sue riflessioni in altri suoi libri (il più importante dei quali si chiama L’uomo è antiquato) nei quali i concetti espressi nel dialogo epistolare vengono ampliati e appronditi. Ne prendiamo soltanto tre: 

  • In primo luogo l’idea per cui nell’età della tecnica, l’uomo è in grado di produrre più di quanto riesca ad immaginare: è quello che egli chiama lo “scarto prometeico”. Le conseguenze delle sue azioni sfuggono alle sue previsioni. In altre parole, l’uomo diventa un apprendista stregone. Senza saperlo, scrive Anders, «come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti» e quindi, come detto, diventare incolpevolmente colpevoli;
  • Poi l’avvertimento secondo cui viviamo in un’epoca incapace di provare angoscia. Uno dei motivi è la mania delle competenze, e cioè della persuasione che ogni problema rientri in un ambito specialistico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Per cui ogni problema sarebbe solo ed esclusivamente tecnico e non, come invece è, sempre politico e morale. 
  • In terzo luogo la critica all’idea che la bomba atomica serva esclusivamente alla dissuasione: una pretesa dice Anders, totalmente infondata. Intanto perché la bomba atomica è già stata utilizzata. E poi perché il realismo politico (che parla appunto di necessità della bomba per la disssuasione) non ci fa capire i pericoli a cui stiamo di fronte. Tutto ciò non è altro che un segno di accecamento. La cosiddetta “cecità all’apocalisse”.

Ma è nel dialogo che queste idee traggono tutta la loro forza. E allora finiamo con le parole che il filosofo rivolge al pilota: «Che Lei sia stato condannato a simbolo non è colpa sua ed è spaventoso. Ma quello che è successo poteva e può capitare a tutti noi. Per questo Claude Eatherly è in qualche modo il nostro maestro».

Musica
Nomadi, Il pilota di Hiroshima (1985)
Orchestral Manoeuvres in the Dark, Enola gay (1980)

Photo by James Adams on Unsplash

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