Searle e l’odissea della coscienza

In merito all’enigma della coscienza, o, come si vuole, al problema del rapporto fra mente e cervello, due, in fondo, sono le principali tradizioni filosofiche cui ancora oggi si ispirano le diverse posizioni. La prima è quella del materialismo che Searle definisce come “la concezione per cui nell’Universo non c’è nulla tranne i fenomeni materiali come sono tradizionalmente definiti. Non ci sono stati di coscienza o consapevolezza intrinseci, soggettivi, irriducibili, né c’è qualcosa d’altro che sia intrinsecamente mentale. Ogni evento manifesto può essere eliminato o ridotto a qualcosa di fisico” (Searle 2005, 118).

La seconda è quella del dualismo definito come “la concezione per cui ci sono due regni ontologici metafisici distinti nell’Universo, uno mentale e uno fisico”, sulle orme della distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa e della loro reciproca irriducibilità. Da qualche decennio, in concomitanza con l’enorme sviluppo dell’informatica, la tesi materialistica è quella che sembra andare per la maggiore, culminando nella forma affascinante e terribile di una teoria computazionale che fa del cervello un computer digitale e della mente un programma o un insieme di programmi di tale computer. In questo modo gli stati di coscienza sarebbero ridotti a stati computazionali di un sistema fisico. Il modello computazionale è stato ribattezzato da Searle con l’espressione comunemente in uso di Intelligenza Artificiale (IA) Forte “per distinguerla dall’Intelligenza artificiale debole, che si propone di studiare la mente mediante simulazioni informatiche, non di crearne una. Per la concezione della IA forte, un computer digitale appropriatamente programmato non simula semplicemente di avere una mente; possiede letteralmente una mente” (Searle 2005, 60). Continue Reading

Le proprietà emergenti dei sistemi complessi (II)

Come abbiamo scritto nel precedente saggio, per una buona ed esauriente spiegazione scientifica del fenomeno entrambi i processi risultano essenziali: sia il processo guidato dal metodo analitico sia il processo volto a riunificare gli elementi ottenuti mediante l’analisi e che implica anche il processo che si caratterizza per le interazioni che sussistono tra tali elementi.

Ne consegue che la conoscenza scientifica, in forza del suo metodo analitico, è intrinsecamente riduzionista, perché l’intendimento non è soltanto quello di individuare i fattori che entrano in gioco nella produzione di un fenomeno, ma altresì quello di pervenire al fondamento ultimo del fenomeno stesso, cioè alle sue costituenti atomiche. Continue Reading

Il silenzio che sa farsi ascoltare

C’è una bella frase di Heidegger che dice: «Filosofare, alla fine, non significa nient’altro che essere principianti». Principianti, cioè coloro che cominciano qualcosa dall’inizio, che (proprio perché principianti) non presumono né assumono nulla in anticipo, che sono disposti a svolgere un’attività in cui, prima che sulle proprie conoscenze, devono fare affidamento sull’ascolto. Scegliamo questo pensiero (contenuto in una lettera del 1928) come augurio filosofico per il nuovo anno, il sedicesimo della nostra attività online.  Continue Reading

Filosofie & Scienze: pratiche, metodi e linguaggio

Questo articolo raccoglie le prime uscite della rubrica “Filosofie e scienze: pratiche e metodi” ed è stato pubblicato, nelle scorse settimane, “a puntate” sulla pagina Facebook dell’Associazione Culturale METOPE, che ringraziamo insieme all’autore per la gentile concessione.

Premessa
Perché iniziare una riflessione sulla scienza e sulla filosofia oggi, e cosa c’entra questo con tutti noi? È innegabile che i traguardi delle scienze hanno aperto orizzonti di possibilità straordinarie che seguono un sogno iniziato in Grecia 2500 anni fa, rinato nel Rinascimento, proseguito con l’Illuminismo e Positivismo ed arrivato fino ai giorni nostri; un sogno che auspicava il raggiungimento di una conoscenza certa, razionale, utile, condivisibile a cui affidarsi nei momenti di incertezza e che avrebbe sollevato gli uomini dalle miserie fisiche, mentali e sociali.

È un sogno che si è avverato? O è una specie di mitologia, una forma di pensiero magico che vorrebbe il realizzarsi di un “paradiso tecnico” nel futuro (per dirla alla Severino) e noi in eterno cammino verso di esso? In un momento come questo, dove aspettiamo quotidianamente dalla scienza una risposta unica e certa nei confronti di un fenomeno planetario che ha cambiato le nostre vite, un fenomeno che si iscrive e descrive nel linguaggio scientifico di un’epidemia da virus, siamo dunque soddisfatti? Ci ha dato le risposte che più intimamente volevamo? O forse meglio, gli abbiamo posto le giuste domande, quelle a cui sa e può rispondere?

Questo ci spinge evidentemente ad interrogarci più a fondo sul nucleo fondante del pensiero scientifico, su cos’è scienza o forse sarebbe meglio dire scienze; sul metodo, o forse sarebbe meglio dire sui metodi scientifici. Sì perché è sempre più evidente che i metodi e le pratiche della biologia c’entrano poco con quelli della geologia o della fisica o della medicina, e non perché si condivida un comune metodo sperimentale, un fisico ne capisce “tout court” di agraria o biochimica. Certo ci sono paradigmi comuni, a volte richiami, sovente intersezioni, ma poi nella pratica le scienze sono saperi molto differenti e specializzati, con linguaggi differenti che molto spesso faticano a capirsi, se non arrivare a posizioni anche contraddittorie.

E come potremmo interrogarci su che tipo di sapere è un sapere scientifico, se non all’interno di una riflessione più ampia su cos’è sapere in generale? Su chi è e cosa sa l’umanità che sa? In questo la filosofia ci verrà in soccorso, sia per la sua propensione metodologica ad affilare ed affinare la domanda, sia per la sua storia di essere stata la prima sapienza razionale e critica e che, per certi aspetti, ha contribuito alla genesi del pensiero scientifico.

Quello che cercheremo di fare è usare il domandare filosofico, non tanto per seguire le posizioni dei vari pensatori, ma per “arroventare” e dunque evidenziare, le precondizioni necessarie, l’oramai assodato, le tacite premesse (non per complottismi vari, ma proprio per suo statuto), affinché funzioni un particolare metodo d’indagine.

Cercheremo di lavorare sui metodi e sulle pratiche del pensiero scientifico, servendoci dei contributi di filosofi, scienziati e divulgatori, consapevoli che: è dalle pratiche che si configurano i metodi e da questi le teorie e i paradigmi e che gli uni non stanno senza gli altri. 

Dividere le prime dalle ultime è sicuramente fonte di enorme confusione e di grossolani errori, è un peccato di “hybris” direbbero i greci, che corre il rischio di creare una descrizione del mondo (una narrazione scientifica) là dove invece ci sono metodi e pratiche di previsione. 

Quindi per concludere, tornando alla domanda iniziale, cosa c’entra questo con noi tutti? L’immagine che noi abbiamo del mondo, che ad oggi è planetariamente un’immagine scientifica, condiziona come pensarci o ri-pensarci nel mondo? Che valore dare alla nostra esperienza intima e vissuta, all’interno di una narrazione così vasta e pervasiva come quella scientifica?

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La solitudine della scienza

La fiducia nella scienza, tranne che per qualche residuale gruppetto di persone, è uno dei pilastri  fondamentali sui quali si appoggia la società contemporanea. È innegabile, infatti, che il pensiero scientifico, e la fede nella tecnica, rappresentino una “oggettività” a cui la politica, così come i singoli uomini, difficilmente rinunciano. A meno di non allinearsi a coloro i quali intravedono nella scienza e nella tecnica un mezzo per governare subdolamente i popoli (posizione che non merita nemmeno il tempo di una breve contro-argomentazione), appare difficile contestare il valore del sapere e della ricerca scientifica. 

Tuttavia, appare sempre più necessario affrontare criticamente le aspettative che riponiamo nel pensiero e nella pratica scientifiche. Ciò non per svalutare il suo ruolo della scienza, ma soprattutto per evitare di affidarle un compito a cui non può rispondere. In altre parole, occorre mettere in dubbio l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza; questo per farla uscire dalla “solitudine” a cui l’abbiamo relegata. Ma in cosa consiste l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza?

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Gli esploratori allo sbaraglio e la voce nel deserto

All’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger piace cimentarsi con tematiche di carattere filosofico. Un paio di anni fa un suo articolo dedicato ai problemi posti dall’intelligenza artificiale dal titolo How the Enlightments End (Come finisce l’Illuminismo) ha fatto parecchio discutere. La tesi era quella secondo cui il nostro tempo si troverebbe nella situazione opposta a quella dell’Illuminismo: mentre quest’ultimo sarebbe nato da idee filosofiche poi sostenute e diffuse dalle nuove tecnologie, il nostro tempo avrebbe generato una tecnologia ancora alla ricerca di una filosofia che le faccia da guida. Kissinger affrontava e dava risposta ad un tema classico del pensiero, quello del rapporto tra filosofia e scienza che, nella storia della filosofia, è stato più volte e a vario titolo oggetto d’indagine. Da questo punto di vista, Bacone e Popper, rispettivamente con la tesi del primato della scienza e di quello della filosofia, sono tra i pensatori che maggiormente hanno dedicato la loro attenzione su tale problema. Diversa la strada presa da Emanuele Severino il quale ha invece suggerito una terza quanto inaudita modalità di porre la questione. Essa, varie volte indicata nei suoi scritti, è stata formulata in uno dei suoi libri essoterici più noti, A Cesare e a Dio del 1983, con la metafora degli esploratori allo sbaraglio.  

«Dalla linea di frontiera della scienza partono verso l’ignoto avventurosi esploratori senza equipaggiamento adeguato, con  molti entusiasmi e poche speranze di ritorno. (Qualcuno è anche uomo di scienza che però la scienza non se la porta dietro).  A volte, di rado, qualcuno ritorna con qualche notizia utile per chi è rimasto.  Sempre trovata per caso.  Colpi di fortuna. Si organizza allora un corpo di spedizione che costruisce mappe e strade e riesce a strappare al deserto, come si suol dire, un altro lembo di terra. E la scienza “fa un passo avanti”. Ma la maggior parte dei suoi passi avanti la scienza è convinta di farli anche e soprattutto durante l’assenza di quegli esploratori allo sbaraglio.  Il resto è accessorio. Quegli esploratori possono essere considerati indispensabili da parte di qualche amico della scienza in vena di generosità, ma più spesso sono guardati con compatimento; li si può decorare sul campo, quando la scienza vuol mostrare di essere di ampie vedute, ma il più delle volte si constata che quando ritornano hanno soltanto abiti sbrindellati e notizie confuse.
In questa situazione capita anche che qualche avventuriero indossi abiti sbrindellati, si sporchi il viso di fango, faccia qualche passo oltre la linea di frontiera, dia sfogo alla sua fantasia inventando banali avventure e torni indietro presentandosi come un “filosofo”. C’è sempre qualcuno disposto a credergli. Si trova così il modo (ma non è certamente il solo) di scrivere libri, e in particolare libri “facili” che chiunque può leggere con piacere perché si accorge che le cose raccontategli dall’avventuriero le sapeva già anche lui. E questo gli dà la possibilità di sentirsi anche lui un esploratore e un “filosofo”».

Come si vede, Severino ironizza sulla filosofia intesa come terra di nessuno, luogo in cui avviene l’esplorazione di concetti nuovi, spesso residuali rispetto alle grandi edificazioni della religione e della scienza.  Quello della filosofia come esplorazione allo sbaraglio (o come terra di nessuno) è un grande mito che dimentica la grandezza della vera filosofia che dimora in un sottosuolo ancora più sconosciuto.

I grandi pensatori dell’Occidente non sono gli esploratori ma le voci nate nel deserto, le quali hanno consentito la nascita delle oasi in cui consiste la civiltà occidentale (tecnica, ideologie, ecc.). Continuando nella metafora, Severino sostiene che da quelle oasi continuano a partire corpi di spedizione i quali si imbattono in relitti, scheletri e altri resti i quali, opportunamente raccolti, vengono sistemati in cimiteri comuni: ecco spiegata la storia della filosofia che è la vera storia della follia, a causa dell’evocazione del suo concetto centrale, quello di divenire, ovvero l’andare degli enti dall’essere al nulla. 

In realtà, continua Severino, bisogna uscire da quel mito e abbracciare lo sguardo che comprende sia il deserto che l’oasi.  Quest’ultima infatti non si contrappone al deserto ma è il deserto stesso che cresce, «il frutto del seme che il grande grido della follia ha lasciato nella sabbia». Lo sguardo che vede tutto ciò, ovvero sia il deserto sia l’oasi che le appartiene, è «lo sguardo della Gioia la quale sta già da sempre al di là del deserto e dell’oasi». Questo significa che prima della filosofia, prima della scienza e prima della religione, prima del bene e del male, esiste uno sguardo non neutro, vero e proprio sguardo divino, nel quale risiede la beatitudine eterna. Questo sguardo sta al di là della filosofia così come l’ha pensata l’Occidente, ed esso rivela un’anima ancora più sconosciuta in cui già da sempre sappiamo di essere la Gioia del tutto. Se questo è vero, la risposta al dilemma iniziale di Kissinger è presto data: la scienza del nostro tempo non è alla ricerca di alcuna filosofia perché essa stessa è già nata dalla filosofia di cui costituisce l’espressione ultima e più avanzata. Il vero problema è che questa scienza e questa filosofia sono entrambe espressioni della follia estrema.

 

Koyré e la precisione nel mondo della natura

Alexandre Koyré è stato un filosofo della scienza che si è occupato più volte di storia della scienza. Durante il suo percorso filosofico (nato nel 1892 a Taganrog, nella Russia meridionale, ha poi lavorato a Parigi e Gottinga, rispettivamente con Bergson e Husserl) Koyré ha in particolare analizzato i rapporti fra la tecnologia e la scienza. 

In due brevi saggi riuniti per Einaudi nel volumetto Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Koyré si occupa di ricercare il perché nel mondo greco e antico in generale, malgrado alcune preziose illuminazioni, è emersa una certa stagnazione della tecnica. Scrive: «il grande problema che preoccupa tanto la storia della civiltà quanto quella delle tecniche non è spiegare perché vi furono macchine in Egitto, in Grecia e a Roma, ma, al contrario, spiegare perché ve ne furono così poche, spiegare non il progresso, ma la stagnazione» (p. 63). 

La spiegazione psicosociologica
Koyré riporta approfonditamente una possibile spiegazione di questa non-evoluzione tecnologica del mondo antico, che possiamo definire «psicosociologica». Questa si fonda sull’analisi della struttura socio-politica – e quindi necessariamente psicosociale – del mondo antico che, riassumendo: disprezzava il lavoro manuale, considerato in opposizione alla vita intellettuale e contemplativa; promuoveva l’esistenza della schiavitù; concepiva la theoría come ontologicamente superiore alla praxís; riteneva che la natura fosse superiore all’arte e che quest’ultima potesse solo imitarla, non certo superarla o concepirla diversamente. 

È per questo, spiega Koyré, che «il mondo antico non ha sviluppato un macchinismo e in generale non ha fatto progredire la tecnica» (p. 69), perché ha valutato ciò come di alcuna importanza. Il mondo moderno, al contrario, ha individuato come importanti le capacità del macchinismo e della tecnica, e perciò ha investito sul loro sviluppo. 

Tuttavia il contesto non può interamente dar conto della nascita di un fenomeno: questo vale per un fatto storico, per un evento politico, ma anche – dice Koyré – per un aspetto storico-filosofico come il progresso della tecnica. In altre parole, la spiegazione psicosociologica richiede una qualche forma di completamento. Anzi, e di più: schiacciarsi sull’idea che il contesto psicosociale possa esaurire le spiegazioni del perché nel mondo antico lo sviluppo della tecnica si sia bloccato, vuol dire non riconoscere le forze che contribuiscono a creare tali contesti. 

Come scrive Koyré è necessario andare oltre una spiegazione psicosociale, perché questa non sarà mai in grado di dare una risposta compiuta al fatto che, ad esempio, «i marinai greci, così intelligenti, così intraprendenti, così arditi e fieri di sé (come d’altronde lo erano i marinai fenici o cartaginesi), non abbiano mai avuto l’idea di sostituire al remo-timone della loro nave un vero timone […]» (pp. 75-76). 

Tecnica e scienza
Del resto, la spiegazione psicosociologica «si fonda interamente sulla premessa implicita della dipendenza della tecnica riguardo alla scienza» (p. 84). Ovvero la scienza – e con essa tutto il portato storico-culturale di sfondo –, secondo la spiegazione psicosociologica, influenza direttamente la tecnica che segue i dettami di questa. Lo stesso Platone definisce la techné abitudinaria per essenza, un processo di ripetizione di formule stagnanti nel tempo e niente affatto innovative. Su questo ultimo punto, dice Koyré in nota, «lo spirito abitudinario del contadino, […] è una conferma clamorosa» (p. 84). 

Eppure, se si guarda con più attenzione al processo di influenza fra tecnica e scienza, vediamo che nella storia umana la techné precede sempre l’epistème. La tecnica più che ricevere indicazioni metodologiche e concettuali dalla scienza, ha conquistato alcuni suoi traguardi attraverso una dinamica prove-ed-errori. È dunque più corretto dire che, nella storia dell’uomo, esiste un pensiero tecnico, ovvero un «pensiero pratico essenzialmente differente dal pensiero teorico della scienza» (p. 85), quasi pre-scientifico in quanto empirico, che ha permesso di sviluppare mestieri, regole d’arte e procedure reiterate nel tempo. L’incapacità di questo pensiero di innalzarsi e quindi di generalizzarsi, è stato il suo limite. Ecco dunque dove risiede, in ultimo, la stagnazione della tecnica nel mondo greco-antico: nella mancata abilità del pensiero tecnico di farsi generale, di stabilire delle norme concettuali.

Questa analisi conduce Koyré a porsi due ulteriori domande: 1) perché appunto il pensiero tecnico non si è innalzato a un livello superiore?; e 2) perché i greci non hanno «sviluppato una tecnologia di cui aveva[no] pur formulato l’idea»? (pp. 85-86). 

A queste due domande la spiegazione psicosociologica non riesce a dare una risposta: è pertanto necessario andare oltre e capire quale ruolo abbiano giocato le idee.

L’esattezza
Il concetto che sta alle spalle delle due domande che si pone Koyré è parte integrante della sua proposta di lettura della storia della scienza. Per Koyré, infatti, il pensiero greco non ha davvero elaborato una vera fisica. Ma quando parla di fisica Koyré intende una cosa ben precisa: l’inserimento, tutto moderno, della matematica all’interno della natura. In altre parole aver reso il mondo naturale un ente misurabile, geometrico. Per il mondo greco la natura è il luogo del pressappoco (p. 91); i cieli e i movimenti delle sfere celesti sono al contrario il mondo della perfezione. 

La dualità radicale fra questi due ambiti e la loro inconciliabilità ha rappresentato, per il mondo greco, uno scalino invalicabile. La tecnica greca è rimasta al livello della techné poiché la precisione dei cieli non è “scesa” sulla terra. Il mondo moderno, al contrario, matematizzando la natura ha intrecciato una teoria fisica a una teoria tecnologica, ponendo così le basi di uno sviluppo del macchinismo. Il mondo, per la mentalità moderna, non solo si analizza e si osserva, ma si cambia, perché si è capaci di parlare la sua stessa grammatica interiore. Questo, osserva Koyré, non toglie che parte della spiegazione psicosociologica continui a trovare ragione anche nel mondo moderno; ma anche qua essa non esaurisce la domanda e, soprattutto, non coglie l’essenza profonda delle motivazioni.

La differenza fra scienza antica e moderna sta quindi nell’assenza di un’idea di tecnica nella prima: «non si guarda finché non si sa che c’è qualcosa da vedere, e soprattutto finché si sa che non c’è nulla da vedere» (p. 100). È dallo spostamento dell’episteme nella praxis che nasce una prospettiva di precisione anche nell’ambito naturale. In questo contesto è lo strumento, la macchina, il mezzo attraverso cui «la precisione si incarna nel mondo del pressappoco» (p. 111), perché essa può mutare l’ordine delle cose e renderle somiglianti all’idea che l’uomo ha costituito. La costruzione degli strumenti è il pensiero tecnologico. 

Aspetti critici della lettura di Koyré
Koyré affronta un motivo centrale della storia del pensiero con grande lucidità e nel tentativo, dichiarato, di inglobare tutte le variabili che hanno contribuito a renderlo così importante. Ciononostante la lettura fa emergere almeno un paio di questioni sulle quali interrogarsi ancora. In primo luogo, Koyré sembra parlare da una prospettiva deliberatamente moderna; quando parla di fisica egli intende infatti la fisica dei moderni, quella possibilità di descrivere il mondo more geometrico. Nella sua analisi, in altre parole, non si mette mai in dubbio la possibilità che la matematizzazione della natura sia una forzatura dell’uomo moderno, una sua volontà di impossessarsi della possibilità di cambiare il corso degli eventi. Il moderno appare una evoluzione dell’antico.  

In secondo luogo, e in modo complementare a questa rilevazione, è necessario chiedersi – cosa a cui Koyré non accenna – se il mondo della natura sia davvero (e ancora) incontrovertibilmente matematico. Le leggi della natura elaborate dalla filosofia scientifica moderna hanno subito un duro colpo nel corso del Novecento, da parte dei principi di indeterminazione di Heisenberg e dalla relatività einsteinana, per fare due esempi. Come ha scritto magistralmente Hans Reichenbach: «quella che prima era considerata una legge di natura assoluta ha finito per rivelarsi una mera legge statistica, non più affatto certa, bensì solo altamente probabile» (p. 160). Ciò non significa bollare la scienza di irrazionalità, ma nemmeno di renderla all’altezza di porsi come Teoria del Tutto (le due polarità estreme di ogni discorso che ragioni sulla validità degli approcci scientifici). 

In conclusione, non si intende accusare Koyré di alcunché ma semmai di utilizzare la sua lettura per provare a muoversi nell’attuale confusione sul ruolo della scienza e della tecnica. Nella civiltà della tecnica gli uomini richiedono alla scienza (perfino alla medicina) risposte certe, sicure, incontrovertibili. La scienza e tutto l’apparato tecnologico sembrano sempre di più assumere un ruolo salvifico per le vite delle persone. Ed in parte lo sono, per fortuna. A loro però è richiesto di inserirsi all’interno dei meccanismi della natura e di modificarli senza margine d’errore. Una richiesta non solo sbagliata ma anche rigonfia di fede e irragionevole devozione. 

In verità, l’universo della precisione, sceso nel mondo del pressappoco, si è trasformato in una terra dove tutto può essere misurato e calcolato: fino ad un certo punto. 

 

Bibliografia:
A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, 2000[3]

H. Reichenbach, La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino, 1961

 

 

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Giordano Bruno, un pilota nell’universo infinito

Contro i sogni della scienza e della tecnica che oggi guidano le vite degli uomini, la filosofia non manca di ricordare che la conoscenza della natura e di ogni singolo fenomeno è legata in maniera imprescindibile alla conoscenza del tutto. Giordano Bruno è uno di quei pensatori che lo ha affermato nel modo più perentorio in quel luogo teoretico che, come abbiamo ricordato qualche settimana fa, concerne il rapporto tra l’uno e i molti, tra il particolare e l’universale. Tentare di ricostruire in poche righe la sua dottrina dell’individuo, e di quel particolarissimo individuo che è l’individuo umano, non è compito agevole: troppe le rielaborazioni simboliche, ontologiche, fisiche e metafisiche che si ritrovano nella sua filosofia, così come i rimandi polemici nei confronti di Aristotele, le cui dottrine Bruno padroneggia per denunciarne puntualmente limiti e aporie. Senza contare infine un metodo che, se spariglia e fa uso in maniera a volte spregiudicata di varie correnti filosofiche, ermetiche e religiose, è sempre finalizzato alla ricerca della verità. Nonostante questa congerie di elementi critici ci siamo tuttavia cimentati nel compito non solo per indicare alcuni tratti di un pensiero che rimane fecondo e denso di spunti ma anche per rendere il nostro dovuto omaggio (così come facemmo cinque anni fa) al filosofo di cui proprio ieri abbiamo ricordato l’anniversario della morte avvenuta il 17 febbraio del 1600 a Campo de’ Fiori in Roma.

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Giordano Bruno prima di Churchill e Trappist-1: l’intelletto più avanti del telescopio

Poco più di un mese fa la notizia, è proprio il caso di dirlo, ha subito fatto il giro del mondo: la scoperta, ottenuta grazie ad un telescopio della Nasa, di un nuovo sistema planetario, denominato Trappist-1, molto simile a quello a cui appartiene la terra, con almeno sette pianeti orbitanti attorno ad una stella centrale delle dimensioni 12 volte minore di quella del nostro sole. Il telescopio è riuscito a dedurre l’informazione grazie all’ombra che i pianeti proiettano nel momento in cui transitano di fronte alla loro stella centrale. Si è trattato dunque di un’ulteriore conferma dell’esistenza di altri mondi e pianeti di cui la scienza sta dando notizia da almeno due decenni. Secondo una notizia apparsa recentemente, anche il grande primo ministro inglese della seconda guerra mondiale, Winston Churchill, aveva teorizzato, in base ad osservazioni critiche dei dati offerti dalla comunità scientifica del tempo, la presenza non solo di altri pianeti ma anche della possibilità della vita. La scienza sta dunque recuperando terreno nei confronti della filosofia che fin dai suoi albori aveva affermato l’esistenza di una pluralità di mondi. Già l’atomismo e l’epicureismo, poi corretti e rivisitati dal De Rerum Natura di Lucrezio, li avevano preconizzati. Ma fu Giordano Bruno a teorizzare in maniera sistematica la molteplicità dei mondi in diverse sue opere la principale delle quali è sicuramente il De l’infinito, universo e mondi. Bruno, pur non avendo a disposizione né un telescopio della potenza di Trappist, né le acquisizioni scientifiche del grande e acuto primo ministro inglese, si basava su quello che egli definiva il “regolato senso”, l’idea cioè che la vera conoscenza non può essere fondata sui soli dati empirici e che non può mai prescindere dalla centralità dell’intelletto.

L’opera fa parte di una tetralogia di testi, che comprende La cena delle ceneri, il De la causa e lo Spaccio della bestia trionfante, scritti e pubblicati a Londra tra il 1583 e il 1584. Come i primi due, anche il De l’infinito è dedicato all’ambasciatore di Francia in Inghilterra, Michel de Castelnau, italianizzato in Castelnovo, signore di Mauvissiero e re Cristianissimo. Nell’opera, strutturata in cinque dialoghi, compaiono altrettanti interlocutori: Filoteo, che dà voce alle teorie di Bruno, Fracastorio, un suo amico, e tre personaggi, Elpino, Albertino e Burchio che rappresentano in modo diverso le posizioni aristoteliche. Il dialogo che ne scaturisce è un saggio nel quale sono contenute fonti neoplatoniche, aristoteliche, epicuree e che presenta a volte non poche difficoltà di lettura. I primi tre dialoghi includono alcune premesse indispensabili della filosofia nolana già esposte nelle opere precedenti. Il quarto e quinto dialogo sono interamente dedicati alla dimostrazione della tesi della pluralità dei mondi e ciò viene fatto da Bruno in base a due diverse strategie retoriche. Continue Reading

Democrito e l’alba della scienza

Quando si parla della saggezza degli antichi, è impossibile non far riferimento alla straordinaria costellazione dei presocratici. Con le loro brillanti intuizioni hanno impresso un marchio indelebile su tutta la storia del pensiero occidentale che proprio in virtù di un legame tanto forte, mai ha smesso di volgere lo sguardo verso di essi. Tuttavia, dietro la profondità delle loro riflessioni sull’etica e della loro indagine sulla physis (e con essa sulla Verità) si cela un contributo straordinario, per quanto spesso misconosciuto, relativo all’ambito scientifico. Della messa in luce di tale ruolo fondativo si è occupato incessantemente sin dai primissimi anni del Novecento il matematico italiano Federigo Enriques, tornato all’attenzione degli studiosi di recente grazie alla ripubblicazione della sua opera Le dottrine di Democrito d’Abdera da parte di Edizioni Immanenza. Scritto a quattro mani con Manlio Mazziotti, questo testo raggruppa tutti i frammenti disponibili su Democrito in capitoli (ciascuno anticipato da un breve saggio introduttivo) che evidenziano le conquiste principali del suo pensiero, e senza mai abbandonare il dialogo “coi dati della critica filologia”, s’impegna a celebrare: «L’intuizione che ha indotto i primi fisici dei tempi moderni (in ispecie Galileo) a riconoscere nelle teorie naturalistiche degli ionici, e particolarmente di Democrito, i principi fondamentali della ricerca scientifica» ((F. Enriques, Le dottrine di Democrito d’Abdera, Edizioni Immanenza, Napoli, 2016, p. 27.)).

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L’atomismo

Ciò che Enriques mette subito in chiaro, è che la teoria democritea della materia è il frutto dei due secoli d’indagine intorno all’archè (cioè sul principio dell’essere) che seguirono il primo tentativo di Talete di individuare quale fosse il principio alla base del mondo. Di questo percorso, ai fini del presente lavoro, i due passaggi principali sono costituiti dalla riflessione di Pitagora e dall’eleatismo. Se il primo infatti, affermando che “le cose sono numeri”, intende che: «La materia è costituita di unità puntuali o monadi, che possiamo concepire come centri di condensazione della sostanza infinita di Anassimandro» ((Ivi, p. 53)) anticipando l’idea degli atomi, il secondo, attraverso l’intuizione di Parmenide per cui l’essere è uno, eterno ed immobile (poi sviluppata da Zenone anche sul piano matematico) negando il divenire, che pure appare, impone la ricerca di una nuova formulazione del reale capace di ricomprendere anche tale prospettiva. Pur nella sua forza argomentativa infatti, l’eleatismo conduce inevitabilmente ad un paradosso sul piano fisico: rende concettualmente impossibile quel mutamento che è proprio la massima evidenza sul piano empirico. Per questo Enriques non esita a sottolineare la grandezza del pensiero di Democrito e Leucippo ((L’autore ripete diverse volte che è pressoché impossibile riuscire ad individuare dove finisca il contributo specifico dell’uno e dove inizi quello dell’altro tanto erano vicine le loro idee. Solo relativamente a singoli passaggi come la forma della terra e poco altro appare individuabile una diversità.)), la prima reale forma di superamento del monismo eleatico che però in esso trova il proprio fondamento. Il perché si può comprendere attraverso il frammento 12 del capitolo II, tratto dal commento alla Fisica di Aristotele fatto da Simplicio: «Mentre quelli infatti concepivano il tutto come uno e immobile, increato e circoscritto, e ritenevano concordemente che il niente non potesse essere neppure oggetto di ricerca; Leucippo suppose, come elementi infiniti e in eterno moto, gli atomi e attribuì loro forme infinite, perché non v’è ragione che un atomo abbia una data forma piuttosto che un’altra, e perché osservava come le cose si generino e si trasformino incessantemente [l’una nell’altra]. Inoltre – egli dice – l’ente non esiste più che non esista il niente; ed entrambi sono egualmente causa della generazione delle cose. E supponendo che la sostanza degli atomi sia solida e piena, disse che essa è l’ente e affermò che si muove nel vuoto, al quale diede il nome di niente, dicendo che esiste non meno dell’ente. Similmente il suo seguace Democrito stabilì come principi il pieno e il vuoto» ((Ivi, p. 75.)).

Da Elea ad Abdera

Di fatto quindi l’atomismo, postulando l’esistenza di pieno e vuoto come le due facce della stessa medaglia che è la realtà, sviluppano il monismo parmenideo in una diade che, secondo il loro desiderio, non verrebbe ad intaccare l’unitarietà dell’esistente perché ciò che essi chiamano nulla, il vuoto, è parimenti esistente. Lo stesso Democrito infatti, afferma più volte come dal niente non si generi niente, pertanto sarebbe autocontraddittorio da parte sua attribuire al vuoto una natura diversa da quella di esistente a tutti gli effetti. Certo è che tale posizione non riesce a risultare del tutto convincente per chi, a differenza di Enriques e degli atomisti, non sia poi tanto persuaso del fatto che dividere l’essere in due principi non equivalga implicitamente a reintrodurre quel problema del non essere che tanto ci si premurava di escludere. La stessa definizione del vuoto come nulla solleva qualche interrogativo. A prescindere da tali questioni che comunque restano estranee al testo in sé, il legame fra l’atomismo e la Scuola di Elea appare ben visibile e l’intera partita si gioca sulla quella che potremmo definire la differenza tra il piano fisico e quello matematico. Mentre sul piano matematico, al quale corrisponde l’approccio eleatico, un ente geometrico è divisibile in un numero infinito di punti geometrici, che per definizione sono inestesi (si vedano i celebri paradossi di Zenone come quello di Achille e la tartaruga), su quello fisico ammettere tale ipotesi equivarrebbe a nientificare quell’ente che viene suddiviso all’infinito (in tal mondo infatti la sua massa svanirebbe ed esso verrebbe a cadere fuori dall’esistente), quindi ad affermare l’assurdo. Per questo Enriques parla dell’atomismo democriteo come di un atomismo fisico cui non può far seguito un atomismo matematico, perché sul piano logico-matematico sono legittimi ragionamenti che sul piano empirico sono assurdi, come la negazione del divenire. È qui, secondo il matematico e filoso livornese che l’abderita si fa fonte d’ispirazione per tutto il movimento scientifico nato nel Seicento, individuando l’importanza d’indagare la realtà con un registro differente da quello meramente logico. Seppur implicitamente ed in maniera ingenua infatti, l’atomismo, con il suo carattere mediatore, dimostra di presupporre passaggi chiave della ricerca scientifica moderna quali la definizione della massa come “quantità di materia” (un ente è determinato dal numero di atomi che lo costituiscono) individuata da Newton, o la derivazione delle proprietà chimiche di un corpo da quelle dei suoi componenti (è la specifica combinazione di quegli atomi che il caso ha fatto collidere e confluire in quel corpo a identificarlo come tale) studiata da Boyle.

Il Democrito scienziato

Come nota con grande lucidità Enriques: «A questa veduta sulla costituzione della materia si lega l’idea della spiegazione meccanica dei fenomeni fisici, cioè di un sistema cinetico soggiacente che deve dar ragione della realtà sensibile» ((Ivi, p. 63)). Il moto “senza principio e senza causa” attribuito agli atomi da Democrito e Leucippo infatti, anticipa concettualmente ogni definizione del principio d’inerzia, in quanto è postulato che solo un urto con un altro atomo può mutare la condizione di moto rettilineo che costituisce la loro stessa essenza. Intuizione che evidenzia la raffinatezza della formulazione primigenia a fronte della svalutazione che conoscerà con la sua riformulazione ad opera di Epicuro, il quale farà regredire il moto ad una mera questione di peso. Nel pensiero di Democrito invece, quest’ultimo non inerisce in alcun modo agli atomi in sé; infatti: «Il fenomeno del peso, che vuolsi spiegare cineticamente, nasce per Democrito in rapporto alla formazione del nostro (o di un altro) mondo e del moto vorticoso che gli dà origine» perciò se «gli atomi che si trovano nel mondo hanno peso, fuori del mondo e presi di per sé stessi, non l’hanno.» ((Ivi, p. 90.)). Il richiamo alla rotazione terrestre che innescando l’attrazione gravitazionale genera la forza peso è immediato, tuttavia è lo stesso Enriques a invitare alla prudenza rispetto ad una tale conclusione, poiché l’allusione al “moto vorticoso” fatta dall’abderita potrebbe essere riferita semplicemente al moto caotico degli atomi. Un altro passaggio relativo al peso che però risulta molto interessante è quello relativo ad una parte del De generatione et corruptione di Aristotele in cui viene attribuita a Democrito, o ad un suo allievo, l’intuizione per cui non esisterebbero corpi assolutamente leggeri tendenti all’alto per natura, ma che questi sarebbero spinti dal basso (cioè dalla pressione esercitata sul fluido circostante, in questo caso l’aria). Non ci sono prove che a tale formulazione possa corrispondere un’effettiva anticipazione del principio di Archimede, tuttavia non si può escludere che abbia giocato un qualche ruolo per favorirne lo sviluppo.

Oltre a quanto già detto, l’ambito degli interessi scientifici di Democrito è vastissimo, spazia dalla definizione della Terra come un disco concavo isolato nello spazio che non cade perché non c’è alcun motivo per cui dovrebbe muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra (nato da Anassimandro e poi con Liebniz definito principio di ragion sufficiente), fino alla biologia, ambito nel quale sembra riprendere l’idea di Anassimandro per cui gli uomini si sarebbero evoluti dagli animali marini attraverso una serie di trasformazioni. Ed è proprio nella ramificazione degli ambiti di studio dell’abderita (tra i quali vanno inseriti anche la geometria, l’astronomia e la meteorologia) che Enriques riuscirà ad isolare quei tratti che poi diventeranno quelli identificativi dello scienziato moderno.

Il Democrito filosofo

Nonostante una straordinaria dedizione verso quel sapere che oggi noi chiamiamo “scienza”, Democrito non mancò di mostrare un profondo interesse anche per l’ambito filosofico. La prima inevitabile conseguenza della sua spiegazione cinetica dell’universo è pensare che: «Il divenire del mondo dipende esclusivamente dal giuoco delle cause meccaniche che, indifferenti al bene ed al male, nel loro insieme costituiscono una necessità immanente della natura. Perciò il sistema degli atomisti suppone un rigido determinismo, che nega l’intervento di ragioni finalistiche, come pure di ogni fortuito» ((Ivi, p. 153.)). Il dominio del caso nel determinare il moto degli atomi infatti, è un punto chiave del suo impianto argomentativo, dove il termine “caso” oscilla intenzionalmente tra un’accidentalità inconsapevole (senza interventi provvidenziali) ed una stingente necessità, che poi, in ultima istanza, si scoprono giocoforza coincidenti. Forse è anche per questo ch’egli non mostra alcun interesse per la questione del libero arbitrio, favorendo in tal modo una scissione dei seguaci del suo pensiero in stoici (dominio della necessità) ed epicurei (una piccola forma di libertà c’è). A far da contro ad una tale esclusione di ogni possibile finalismo, tiene banco il rilievo dato da Democrito all’anima. Questo ente: «Che conferisce il moto agli esseri viventi» ((Ivi, p. 187.)) attraverso un insieme di corpuscoli sferici capaci d’inserirsi fra gli atomi, differisce però dalla mente che in quanto centro coordinatore dell’attività razionale le sta sopra (ha sede nel cervello). Viene ad emergere così una questione piuttosto spinosa per tutti i critici, in quanto, oltre a non essere specificato se essa sia un solo atomo o un loro insieme (secondo Aristotele l’interpretazione più corretta sarebbe la prima), risulta altrettanto complesso capire se essa sia un che d’immortale oppure no. I frammenti sembrano indirizzarci verso la sua immortalità, ma donde possa aver tratto l’adberita l’esigenza d’inserirla nel suo universo necessariamente determinato resta poco chiaro; così come a quale scopo.

Democrito non manca nemmeno di elaborare una teoria della conoscenza che, prendendo le mosse dall’assunto: solo gli atomi e il vuoto sono reali e non hanno qualità, distingue fra due categoria di conoscibili: gli “oggetti intelligibili”, ossia indagabili per mezzo della sola ragione (la matematica), e gli “oggetti sensibili”. Poiché tanto il pensare quanto il sentire sono frutto di un contatto fra atomi, a fare la differenza c’è che mentre i sensi ricevono gli idoli (particelle che si staccano dall’oggetto rendendo possibile il contatto con il conoscitore) senza filtri, il pensiero è in grado di ridurre gli errori di valutazione prodotti dall’apparato sensoriale. Quanto ne emerge sono due diversi gradi di conoscenza. Ai quali fa eco l’individuazione di un’etica per cui: «Il bene, postulato come fine della vita umana, è d’altronde quella serenità dell’animo che si addice al saggio, l’ideale di chi vede nella contemplazione scientifica del mondo il valore morale della vita» ((Ivi, p. 291.)).

Conclusione

Ciò che rende massimamente interessante questo testo, è esplicato sin dal saggio introduttivo di Melania Anna Duca: porre al centro l’approccio scientifico di Democrito al sapere; il suo andare alla ricerca di una conciliazione tra piano teorico e piano empirico dopo lo scollamento portato dall’eleatismo parmenideo. Nessun altro pensatore sarebbe stato più adatto a simboleggiare la persuasione di Enriques nella necessità di un dialogo tra la filosofia e il progresso scientifico, e che gli valse un duro scontro con Benedetto Croce al quarto congresso internazionale di filosofia svoltosi a Bologna nel 1911. Così, in questa pregevole riedizione ad opera di Immanenza, si respira tutto quello che la contemporaneità filosofica italiana non è stata se non in minima parte: filosofia della scienza. e allora ben venga la riscoperta di testi come questo, ben venga la riedizione di un’opera di grandissima utilità per tutti gli studiosi del settore che troveranno nella struttura un elemento di agevolissima consultazione, ma soprattutto ben venga il contributo di uno studioso capace di ricordarci che la filosofia è stata anche più dell’imparare a morire.