Poco più di un mese fa la notizia, è proprio il caso di dirlo, ha subito fatto il giro del mondo: la scoperta, ottenuta grazie ad un telescopio della Nasa, di un nuovo sistema planetario, denominato Trappist-1, molto simile a quello a cui appartiene la terra, con almeno sette pianeti orbitanti attorno ad una stella centrale delle dimensioni 12 volte minore di quella del nostro sole. Il telescopio è riuscito a dedurre l’informazione grazie all’ombra che i pianeti proiettano nel momento in cui transitano di fronte alla loro stella centrale. Si è trattato dunque di un’ulteriore conferma dell’esistenza di altri mondi e pianeti di cui la scienza sta dando notizia da almeno due decenni. Secondo una notizia apparsa recentemente, anche il grande primo ministro inglese della seconda guerra mondiale, Winston Churchill, aveva teorizzato, in base ad osservazioni critiche dei dati offerti dalla comunità scientifica del tempo, la presenza non solo di altri pianeti ma anche della possibilità della vita. La scienza sta dunque recuperando terreno nei confronti della filosofia che fin dai suoi albori aveva affermato l’esistenza di una pluralità di mondi. Già l’atomismo e l’epicureismo, poi corretti e rivisitati dal De Rerum Natura di Lucrezio, li avevano preconizzati. Ma fu Giordano Bruno a teorizzare in maniera sistematica la molteplicità dei mondi in diverse sue opere la principale delle quali è sicuramente il De l’infinito, universo e mondi. Bruno, pur non avendo a disposizione né un telescopio della potenza di Trappist, né le acquisizioni scientifiche del grande e acuto primo ministro inglese, si basava su quello che egli definiva il “regolato senso”, l’idea cioè che la vera conoscenza non può essere fondata sui soli dati empirici e che non può mai prescindere dalla centralità dell’intelletto.
L’opera fa parte di una tetralogia di testi, che comprende La cena delle ceneri, il De la causa e lo Spaccio della bestia trionfante, scritti e pubblicati a Londra tra il 1583 e il 1584. Come i primi due, anche il De l’infinito è dedicato all’ambasciatore di Francia in Inghilterra, Michel de Castelnau, italianizzato in Castelnovo, signore di Mauvissiero e re Cristianissimo. Nell’opera, strutturata in cinque dialoghi, compaiono altrettanti interlocutori: Filoteo, che dà voce alle teorie di Bruno, Fracastorio, un suo amico, e tre personaggi, Elpino, Albertino e Burchio che rappresentano in modo diverso le posizioni aristoteliche. Il dialogo che ne scaturisce è un saggio nel quale sono contenute fonti neoplatoniche, aristoteliche, epicuree e che presenta a volte non poche difficoltà di lettura. I primi tre dialoghi includono alcune premesse indispensabili della filosofia nolana già esposte nelle opere precedenti. Il quarto e quinto dialogo sono interamente dedicati alla dimostrazione della tesi della pluralità dei mondi e ciò viene fatto da Bruno in base a due diverse strategie retoriche.
Le dottrine del movimento e del luogo contro e a favore la pluralità dei mondi
Nella prima (quarto dialogo) Filoteo risponde direttamente alle domande di Elpino formulate secondo citazioni tratte direttamente dai testi di Aristotele. Le questioni più rilevanti sono due ed entrambe di natura fisica.
La prima riguarda il moto, questione a sua volta suddivisibile in alcuni sotto argomenti (che riduciamo a tre) i quali dimostrano (secondo la dottrina aristotelica) come sia impossibile la molteplicità dei mondi in quanto: a) il moto, che può essere naturale o violento, essendo verso l’alto o verso il basso, fa sì che i vari elementi non si scompongano in universo infinito ma tendano a riunirsi in un unico centro, un unico orizzonte, un unico mondo; b) se il corpo che dà impulso al moto fosse infinito allora dovrebbe imprimere un movimento infinito a tutti gli altri corpi ma anche questo è impossibile; c) siccome i corpi si muovono più velocemente quando si trovano vicino al loro luogo, se il moto fosse infinito sarebbero infiniti anche peso e leggerezza ma ciò è impossibile. La discussione sul movimento come si vede coinvolge presupposti irriducibili alle due prospettive. Prima di tutto per la fisica di Aristotele esso è causato dall’effetto di un agente esterno mentre per Bruno è l’espressione della vita che pulsa in ogni corpo. Inoltre Aristotele distingue in senso ontologico il moto perfetto circolare delle sfere celesti e il moto rettilineo dei corpi sublunari considerati come imperfetti e limitati: distinzione che non vale per Bruno in un quanto tutti i corpi sono animati dal medesimo principio vitale senza distinzione ontologica. Premesso ciò, le risposte di Bruno si strutturano nel modo seguente: rispetto ad a) viene negato il movimento esclusivamente verso l’alto e il basso mentre si insiste nella tesi che tutti i corpi si muovono rispettando le proprie esigenze di conservazione; rispetto a b) il nolano osserva che in ogni ente sono due i moti: uno di carattere finito, che tende a mantenere nell’esistenza gli enti finiti, ed uno infinito che, secondo l’anima del mondo, tende a produrre infiniti atti di vita: in questo modo vengono ad essere enunciati una serie di principi non legati all’approccio meccanicistico aristotelico, ma a quello del movimento secondo l’impulso naturale di ogni corpo; rispetto a c) la conclusione che si deve ricavare è che dall’infinità del moto segue l’infinità dello spazio e non quella voluta da Aristotele circa il peso e la leggerezza dei corpi.
La seconda questione, più volte sollevata anche nei dialoghi iniziali, riguarda la dottrina del luogo. La cosmologia aristotelica presupponeva, secondo il principio della scala naturale, una struttura gerarchica dell’universo il quale era diviso tra sfera lunare e sfera sublunare all’interno di un firmamento che, come dice la parola stessa, è il contenitore fisso ed immutabile di tutto ciò che si trova sotto di esso e limite esterno fuori del quale c’è il nulla. L’aporia fondamentale di questo ragionamento, osserva Bruno, consiste nello stabilire se il limite superiore del cielo (ottava sfera) faccia parte del contenuto o se rientri nell’ambito del contenente. Questo perché delle due l’una: o il limite è parte del contenuto (e allora deve darsi un ulteriore limite che però si ripete all’infinito); oppure il limite è il contenente (e allora si dovrà stabilire di che natura è questa superficie). La dottrina del luogo è funzionale all’idea di centro verso il quale convergono per natura, per Aristotele, tutte le parti composte rendendo così impossibile la molteplicità. Ma nel mondo infinito di Bruno l’idea stessa di centro, anche alla luce della rivoluzione copernicana, è ormai venuta meno. Le aporie del sistema aristotelico conducono di necessità ad affermare l’universo infinito e non finito.
Una sfida a tutto campo con la visione aristotelica
La seconda strategia retorica, contenuta nell’ultimo dialogo, consiste nell’intervento di un nuovo interlocutore, pronto a dare battaglia non solo con gli strumenti dello stagirita ma anche con quelli forgiati dall’interpretazione tomistica. Albertino, profondamente permeato di aristotelismo ma «dotato di felice ingegno», come osserva il nolano a sottolineare la sua natura di avversario ma non di pedante, presenta in un lungo monologo tredici argomenti nei quali è condensata di fatto la dottrina aristotelica sull’universo. I più importanti sono i seguenti:
- la riproposizione ex auctoritate della cosmologia aristotelica per cui fuori dal cielo non ci sono né mondi né altri corpi;
- l’unità del motore, da cui discende l’unicità del moto: ma se ciò è vero allora esso non può discendere che da una sola causa la quale risponde all’unico governante e motore il quale, essendo immateriale, non è moltiplicabile di numero e di conseguenza non esistono più mondi;
- la distinzione tra potenza attiva e potenza passiva: affinché vi sia una pluralità di mondi è necessaria la potenza passiva delle cose che possa ricevere la potenza infinita della prima: ma questo è impossibile per effetto dell’ontologia aristotelica che distingue potenza assoluta e potenza ordinata. La distinzione, a cui soggiace quella fondamentale tra atto e potenza, consiste nell’idea secondo la quale pur avendo Dio il potere di fare infinite cose egli si astiene dal farle tutte limitando il suo potere creativo;
- lo spazio ed altri argomenti a carattere geometrico: se esistessero più mondi sferici contigui uno all’altro, lo spazio che separa la superficie dell’uno dall’altro sarebbe minore della distanza che separa i due centri: una conclusione illogica ed impossibile che esclude la molteplicità dei mondi;
- la natura non fa mai cose invano: essa cioè né abbonda né difetta di qualcosa e dunque non vi è ragione che vi sia qualcos’altro rispetto a ciò che esiste;
- la bontà civile: consistendo questa nella civile conversazione, non vi è pluralità di mondi in quanto gli dèi non avrebbero fatto cosa buona escludendola a causa della pratica impossibilità di scambio reciproco;
- la perfezione del mondo: secondo un argomento tratto dal De Cielo di Aristotele, Tommaso rifiuta la tesi della pluralità dei mondi in quanto altrimenti Dio avrebbe inutilmente moltiplicato un esemplare (la terra) già di per se stesso perfetto.
Bruno articola le sue risposte in modo puntuale non prima però di aver premesso che «trovato che sarà il capo, facilissimamente si sbroglierà tutto l’intrico». Vediamo le sue risposte rispettivamente alle obiezioni precedenti:
- non bisogna cercar “fuori” perché uno è il luogo e lo spazio immenso senza alcuna differenza di natura fra i vari corpi;
- se esiste un primo motore, questo non può esserlo in senso gerarchico per la semplice ragione che nell’infinito non c’è gerarchia: in questo modo vi sono infiniti motori e infinite anime;
- se il principio fosse vero (quello cioè che implica una differenza tra potenza di fare e potenza di ricevere), allora è come dire che Dio è un musicista abilissimo e tuttavia incapace di suonare a causa dello strumento da lui stesso creato: fuor di metafora infatti come si può affermare che colui che può fare non fa perché quella cosa (che pure può fare) non può essere fatta da lui? Come si vede la questione implica la negazione della distinzione tra potenza ed atto in quanto tutto ciò che è realizzabile si realizza (cioè è atto) senza distinzione con la potenza. A questo argomento Bruno ne aggiunge un altro di Lucrezio il quale, nel De Rerum Natura, aveva provato la pluralità dei mondi sul fondamento della tesi del numero illimitato di atomi i quali si aggregano in una molteplicità infinita di combinazioni;
- nello spazio infinito non vi è ragione di affollamento in quanto l’etere contiene ogni cosa (dove per “etere” non si intende, come nella teoria aristotelica, un quinto elemento diverso dagli altri quattro ma una composizione diversa di questi);
- si tratta in questo caso, osserva Bruno, di un’obiezione superata in quanto, osservando come il nostro senso è limitato e vinto dallo spazio infinito, i nostri ordinamenti non sono altro che finzioni: e questo senza nemmeno contare il fatto che nello spazio infinito non vi sono ragioni di sovraffollamento;
- in merito all’argomento della bontà civile, Bruno ricorre a Seneca per mostrare come non è affatto vero che la comunicazione tra gli uomini (la globalizzazione, potremmo dire oggi) accresca la civile conversazione: «Essendo (alle generazioni, ndr) per umano artificio accaduto il commercio, non gli è per tanto aggionta cosa di buono più tosto che tolta: atteso che per la comunicazione più tosto si radoppiano gli vizii, che prender possano aumento le virtudi»;
- infine, se è vero che per la perfezione di uno specifico mondo non si richiedono altri mondi, per la sussistenza e perfezione dell’universo se ne devono richiedere infiniti.
Il dialogo ha termine con l’aristotelico che riconosce la validità degli argomenti finendo per accettare le tesi della nolana filosofia la quale «apre gli sensi, contenta il spirto, magnifica l’intelletto e riduce l’uomo alla vera beatitudine (…) lo fa godere dell’essere presente, e non più temere che sperare del futuro. (…) Sicché solo in tal modo si magnifica l’eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo; non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili; non in una terra, un mondo, ma in diecento mila, dico in infiniti».
Conseguenze delle nuova cosmologia bruniana
I due aspetti più delicati che discendono dall’impostazione cosmologica di Bruno riguardano la teologia e la stessa filosofia. Da una parte infatti c’è la negazione dell’umanismo, ovvero della centralità dell’uomo nell’universo, che finirebbe per negare la dignità umana. Dall’altra l’attacco alla tesi centrale del cristianesimo, ovvero l’incarnazione di Dio. Cosa dire rispetto a queste due conseguenze? Il discorso è ovviamente lungo e andrà rivisto. Se Bruno è antiumanista (e tuttavia una delle sue fonti più importanti fu Erasmo da Rotterdam, il “principe” degli umanisti) non altrettanto si deve dire a riguardo della dignità umana la quale anzi è promossa nel suo aspetto centrale, ovvero quello della libertà come emancipazione da una condizione ferina e barbarica dell’uomo. Riguardo all’incarnazione, il suo rifiuto non esclude la considerazione di Dio come cosa eccellentissima. Motivi tuttavia che non gli valsero né l’ostracismo della comunità accademica né la condanna a morte eseguita a Roma in Campo dei Fiori il 17 febbraio del 1600.