Il sovrano e l’eccezione

Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno recentemente pubblicato un libro (Croce e Salvatore 2022) che aiuta a inquadrare il concetto di stato di eccezione, forgiato da Carl Schmitt nei primi decenni del secolo scorso e che viene «da più parti presentato come ciò che prende a ostaggio la coscienza e la percezione di intere popolazioni per consegnarle a una nuova concezione del diritto e della politica, in cui i valori liberal-democratici passano in secondo piano»: a causa di un pericolo percepito come incombente e letale, «le persone sono indotte a barattare la sacralità dei valori della libertà e della democrazia per aver salva la vita». Lo stato di eccezione consentirebbe allora un rimodellamento della normalità senza spargimento di sangue ma con una «gestione accorta di un pericolo  collettivo presentato come incalzante e prossimo». 

Il libro smentisce convincentemente questa impostazione: «l’intera impalcatura concettuale che si fonda sull’idea di stato di eccezione non aiuta in alcun modo né a criticare i processi politici in corso né a rinvenire modalità più efficaci e trasparenti di gestione dei vari rischi in cui una popolazione può incorrere in uno o più frangenti della sua storia».

Il tema si colloca sulla faglia fra diritto e politica e di conseguenza la prospettiva storica è ineliminabile: in questo articolo esamineremo dunque alcuni passaggi, fra i molti d’interesse che il libro mette in luce.

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Una luce che brilla in luogo oscuro: Adriaan Koerbagh

Molti sono i nodi ancora da sciogliere intorno a Adriaan Koerbagh, soprattutto per il suo rapporto con la filosofia dell’amico Spinoza. Nonostante i numerosi punti di contatto infatti, la riflessione koerbaghiana assume una piega più estrema rispetto a quella spinoziana e, sebbene possa indurci a considerarlo come un deciso anticipatore di quell’illuminismo la cui paternità è forse troppo superficialmente attribuita in massima parte a Cartesio e Bacone, lascia ampio spazio alle critiche, soprattutto per le derive politiche implicate. Continue Reading

Breaking Hobbes

Tra le letture obbligatorie per chi voglia occuparsi oggi di filosofia politica  c’è Limes, la rivista italiana di geopolitica che analizza i grandi stravolgimenti culturali, politici ed economici che stanno avvenendo a livello planetario. Strumento indispensabile per dare uno sguardo approfondito alla realtà internazionale, il periodico diretto da Lucio Caracciolo costituisce un ottimo riferimento per comprendere le modalità con cui le grandi idee sono in corso di realizzazione nella storia. Nel numero 9/2015 dedicato alle guerre islamiche, Limes definisce la regione interessata dai conflitti musulmani  la terra di Hobbes. «Il caos alle porte? Ad auscultare il respiro profondo della nostra società come di altre in Europa, non solo mediterranea, parrebbe di cogliere la paura del ritorno allo stato di natura. Condizione umana che il filosofo inglese Thomas Hobbes descriveva quasi quattro secoli fa come anticamera dell’apocalisse. Uno stato senza Stato. Nel quale cade ogni obbligazione: niente più governi né governati. La guerra di tutti contro tutti. Homo homini lupus. Uno sguardo ai mari che bagnano le nostre coste, solcati da zattere stracolme d’umanità sradicata, i fondali segnati dalle fosse comuni dei naufraghi, suscita allarme e paura. Ove non bastasse, la drammatizzazione mediatica e l’impotenza della politica, accentuata dal ricorso a una retorica tranquillizzante che non calma nessuno, provvede a eccitare ansie collettive». Sicché, continua Limes, «le peggiori distopie del grande pensatore politico sembrano materializzarsi. Se fosse vissuto oggi, anziché evocare i costumi selvaggi degli indiani d’America, Hobbes avrebbe forse esemplificato le sue teorie scandagliando le vene profonde di Caoslandia». Un’esistenza durata oltre novanta anni (1588-1679), assertore del meccanicismo, del materialismo e dell’individualismo, con il quale rompe i ponti con la tradizione classica, vero e proprio filosofo della paura, Thomas Hobbes è il bad boy del pensiero moderno.

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Non c’è ragione senza passione, desiderio e discrezione

Alcune settimane fa, prendendo spunto dalla crisi del coronavirus, abbiamo riproposto l’inno alla ragione attraverso la lettura di alcuni brani del De rerum natura di Lucrezio. Già, si potrebbe obiettare, ma quale significato può avere oggi lodare la ragione? Quale modello di ragione dopo l’eclissi della ragione? E chi sono oggi i rappresentanti della ragione in un tempo in cui di nuovo, come scriveva Bacone, «la ragione umana, della quale facciamo uso nello studio della natura, appare mal congegnata e mal costruita ed è simile a una magnifica costruzione sprovvista di fondamenta?». Da sempre la facoltà più debole dell’uomo, la ragione è allo stesso tempo l’unica guida in grado di indicargli la strada nei momenti di crisi. Un pensatore che, in modo insospettato, può insegnarci qualcosa a riguardo è Thomas Hobbes, filosofo la cui lettura suscita immediata simpatia grazie al suo stile diretto, alieno da fronzoli e solennità, ben lontano da quella specie di diavolo incarnato descritto da molta pubblicistica. Ebbene, la tesi di Hobbes è che la ragione, per essere autentica guida, non può mai essere disgiunta dalla passione e dall’autonomia del proprio giudizio personale. Dal confronto di due dei suoi testi principali, Elementi della Legge (1640) e Leviatano (1651), abbiamo cercato di ripercorrere il sentiero di tale insegnamento.

Il nome, l’arma a doppio taglio da cui scaturisce la follia
Piuttosto che ai greci e al logos, Hobbes riferisce il termine ratio all’uso che ne facevano i latini, i quali lo utilizzavano per indicare il calcolo delle singole voci inserite nell’elenco della spesa. I latini chiamavano ratiocinatio quell’attività che noi oggi indichiamo con il rendere ragione, il redde rationes, il calcolo. L’uso della ragione quindi non riguarda le cose ma l’uso corretto dei nomi, i nomina. Hobbes constata che i nomina sono i segni vocali con i quali gli uomini  distinguono le varie rappresentazioni mentali, cioè i pensieri. Il gioco sembra fatto, ma non è così. A fronte di questo indiscutibile vantaggio, emergono anche numerosi problemi. Ciò è dovuto  non solo all’esistenza di molte rappresentazioni che gli uomini riferiscono ad un solo nome, ma anche al fatto che essi sono soliti assegnare più nomi alla medesima rappresentazione (allo stesso modo in cui si può dare a qualcuno l’appellativo di giusto, di valente o altro). L’invenzione dei nomi, se da una parte è stata necessaria per trarre gli uomini fuori dall’ignoranza, dall’altra li ha precipitati nell’errore. Il problema risiede nella modalità con cui avviene la sequenza delle rappresentazioni (ovvero la serie dei pensieri) perché essa può portare l’uomo lontano dalla retta conoscenza. Due sono le serie delle rappresentazioni: una non regolata, la seconda regolata. La prima, che Hobbes definisce inizialmente con il neologismo discursione (discursion), è fondata sulla libera associazione. Non senza un tocco di humour britannico, Hobbes sottolinea che la mente può correre da qualsiasi cosa a qualsiasi altra cosa: «ad esempio, quando si pensa a sant’Andrea la mente corre a san Pietro; da san Pietro alla pietra; dalla pietra alla fondazione, perché le vediamo insieme; dalla fondazione alla chiesa, dalla chiesa alla gente, dalla gente ai tumulti». E la ratio diventa così oratio,  discorrere slegato, in quanto i sensi hanno un così grande potere sulla mente che essa può suggerire alla lingua soltanto la prima parola, il resto segue dall’abitudine del proprio regime di vita. Quest’ordine slegato di pensieri «è tipico di coloro che non mancano soltanto di compagnia, ma anche di qualsiasi preoccupazione»: ovvero di coloro che non hanno alcun desiderio e che non sono guidati da passione, cosa che invece contraddistingue l’ordine di pensieri regolato, che è prerogativa di chi ha il desiderio di ottenere qualcosa. Emerge così che l’uso della ragione non è mai puro e freddo calcolo bensì un uso che, per essere davvero utile all’uomo, deve tracciare la via al suo desiderio e che per realizzarsi deve utilizzare qualità morali come la prudenza, la sagacia, la stessa saggezza. Altrimenti, seguendo semplicemente l’ordine delle rappresentazioni, l’alternativa è quella della pura e semplice follia. 

La distinzione tra verità e falsità, fake news e abusi del discorso
Uno dei più grandi insegnamenti di Hobbes è l’idea per cui verità e falsità sono attributi del discorso e non delle cose. Dove non esiste discorso, non esiste né verità né falsità. Esse, al contrario, consistono nella corretta consequenzialità dei nomi. Cercare di ritrovare la verità o la falsità nelle cose, così come nei fatti o nelle fonti, è opera inutile e fuorviante. Troviamo in questo modo un altro insegnamento utilissimo: quello per cui il concetto di fake news, oggi continuamente evocato nel mondo dell’informazione, è quanto di più equivoco possa esserci. Tutto le notizie sono fake news se esse non mostrano (o perlomeno non tentano di mostrare) le definizioni dei nomi che vengono utilizzati. A questo proposito, Hobbes denuncia almeno quattro possibili abusi nei discorsi. Il primo si ha quando il significato delle parole cambia continuamente, con la conseguenza di diffondere opinioni che nemmeno chi le enuncia ha realmente concepito (l’esempio di chi parla per sentito dire). Il secondo consiste nell’uso metaforico delle parole, uso che, essendo per sua natura equivoco, moltiplica le possibilità d’errore (dire, ad esempio, che quella del coronavirus è una guerra, aggiunge solo confusione a confusione). Il terzo consiste nel dire cose difformi rispetto al proprio sentire interiore (la menzogna è uno dei costumi più praticati da quando è nato il linguaggio). Il quarto consiste nell’usare le parole per aggredire altri (genere di abuso tipico di chi predica l’assoluta violenza verbale e allo stesso tempo si spaccia per rappresentante della ragione).

Contro i libri e l’autorità
Ma c’è un altro inconveniente, vero e proprio virus che si propaga in modo inconsapevole, generato dall’errore o dalla confusione nelle definizioni da cui partono i pensieri. Gli errori infatti «si moltiplicano progressivamente col procedere del calcolo e conducono gli uomini ad assurdità di cui alla fine si accorgono, ma che non possono evitare senza riprendere il calcolo dall’inizio». Questo avviene soprattutto a causa dei libri e dell’autorità. I libri, a differenza di quanto si pensa comunemente, non sono un valore in sé: se infatti al loro uso non si accompagna la riflessione personale, essi sono addirittura dannosi tanto che gli uomini diventano come quegli uccelli che, entrati in una stanza, non sapendo più dove andare e come ritrovare l’uscita, finiscono per sbattere la testa contro pareti e finestre. Chi riceve istruzione solo dai libri, aggiunge Hobbes, si riduce ad una condizione peggiore di quella dell’ignorante. Chi poi si affida in modo acritico all’autorità, anche se i suoi rappresentanti si chiamano Aristotele, Cicerone e Tommaso,  finisce per essere uno stolto. La conseguenza è il rifiuto dell’equivalenza tra erudizione e saggezza in quanto «nella misura in cui aumenta la ricchezza del linguaggio, gli uomini diventano più saggi o più folli di quanto non lo siano comunemente». Non si diventa saggi leggendo i libri, ma leggendo gli uomini. In che modo si leggono gli uomini? Leggendo se stessi, nosce te ipsum spiega Hobbes. Se non c’è questo (per tentare un’altra riflessione attualizzante) ecco il mondo di Facebook in cui gli uomini «provano grande piacere nel mostrare ciò che credono di aver letto negli uomini, censurandosi a vicenda senza pietà».

I furbetti della ratio: quelli della maggioranza inutile e i presunti saggi
Se la ragione è infallibile come l’aritmetica, questa infallibilità non si coniuga con il suo uso: così come si fanno calcoli sbagliati, così accade che si possa sbagliare nel ragionare. Dove si trova dunque la retta ragione? Hobbes sembra qui utilizzare un noto esempio di Galilei il quale sosteneva che nelle cose del sapere le cose non stanno come il portare pesi ma come il correre. Per portare pesi e trainare carri, cento cavalli frisoni sono migliori di cento cavalli berberi purosangue. Ma se invece si tratta di correre, un solo cavallo berbero è più veloce di cento cavalli frisoni: l’unione in questo caso non fa certo la forza. Il discorrere (cioè il sapere) è come il correre e non come il portare pesi. Fuor di metafora, la ragione non dipende dalla maggioranza perché «la ragione di uno o di un qualsivoglia numero di uomini non fornisce la certezza più di quanto non debba ritenersi correttamente il calcolato un conto perché è un gran numero di persone lo ha approvato all’unanimità». Così come aveva diffidato dei libri e dell’autorità, Hobbes non esita a sospettare chi si attribuisce presunti monopoli di saggezza perché «quando coloro che si ritengono più saggi di tutti gli altri, reclamano e invocano come giudice la retta ragione, cercando unicamente di decidere le questioni con la loro sola ragione ad esclusione di quella degli altri, producono un fatto altrettanto intollerabile nella società umana quanto lo è nel gioco, dopo l’estrazione della briscola, usare come briscola ogni momento il colore di cui si ha il maggior numero di carte in mano. Costoro infatti vogliono soltanto che nelle loro controversie sia accolta come retta ragione qualsiasi passione da cui sono dominati liberando così la loro mancanza di retta ragione proprio perché la pretendono». 

L’uso corretto della ragione richiede cautela e discrezione
Si è soliti associare Hobbes al contrattualismo che segue alla visione antropologica dell’homo homini lupus. Tuttavia, si può e si deve osservare (come è stato fatto) che il principio bellum omnium contra omnes nasce esattamente nel momento in cui la logica del discorso e del ragionamento viene meno. L’annichilimento, prima della violenza fisica, inizia con le parole.
Cosa impariamo dal discorso di Hobbes sulla ragione? Prima di tutto che i dati, le verifiche empiriche e le fonti non hanno nulla a che fare, di per sé, con il discorso razionale. Essi riguardano piuttosto la sensibilità e la memoria; la ragione può farne uso, a patto però che si ricordi che non costituiscono il fondamento della ratio (soprattutto se i numeri, come spesso avviene, sfuggono ad ogni controllo). Si tratta di un grande equivoco della cultura odierna: pensare che il ricorso ai fatti o alle fonti sia l’elemento che decide la verità o falsità di un discorso. Non è così, perché i fatti e le fonti dipendono sempre dall’uso che ne fa la ragione nella sequenza dei pensieri che nascono dalle definizioni. La seconda cosa è che la ragione deve aver cura a come i discorsi vengono costruiti e trasmessi: un discorso può essere vero o falso solo se discende da corrette definizioni e giunge a conclusioni evidenti all’intelletto. Per questo i veri filosofi sono coloro che insegnano a ragionare e che, prima che trasformare il mondo, correggono il modo di pensare. Si tratta di un compito antipatico che spesso finisce per creare diffidenza più che concordia: sicché, corollario necessario affinché si possa esercitare la filosofia, è che questo compito sia fatto con cautela e prudenza e, se possibile, in modo da suscitare benevolenza e simpatia.

Hobbes e il peso della coscienza

«Per quanto concerne la politica, la differenza tra Hobbes e me consiste in questo: io lascio il diritto naturale sempre nella sua integrità e sostengo che in una città il potere sovrano ha più diritto sul suddito solo nella misura in cui ha più potere di esso. E questo ha sempre luogo nello stato di natura». È così che Spinoza si pronuncia in una lettera sulle differenze che intercorrono tra la sua filosofia e quella di Hobbes: mentre quest’ultimo pone termine allo stato di natura con quello civile, per il primo lo stato di natura continua anche in quello civile. In realtà tale lettura, insieme a molte altre interpretazioni della dottrina del pensatore inglese, sarebbe molto meno sicura. Guido Frilli, ricercatore all’Università di Firenze che ha guidato le discussioni dello scorso ritiro filosofico svoltosi a Nocera Umbra dal 20 al 22 ottobre, ci ha presentato un Hobbes per molti aspetti diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere, attraverso una lettura attenta ed analitica dei testi da cui emerge un profilo molto più sfaccettato rispetto a quello conosciuto. Hobbes infatti è prima di tutto un pensatore che assegna un peso preponderante alla coscienza individuale e questo è un elemento che non può essere tralasciato se si vuole correttamente intendere la sua filosofia.

Le interpretazioni troppo univoche di Hobbes

Rispetto alla questione del diritto naturale infatti, non è vero e non è nemmeno possibile che Hobbes interrompa il ruolo della coscienza sulle soglie del diritto civile. Anzi, si tratta proprio del contrario: se lo Stato non riconosce alla coscienza individuale il ruolo che le è proprio, quello cioè di autonomo ed irriducibile soggetto di potere, esso finisce per andare incontro alla rovina. Il problema è che Hobbes è sempre stato stretto tra due interpretazioni che di fatto hanno limitato, secondo Frilli, la portata rivoluzionaria del suo sistema. Da una parte quella totalitaria che ne intravede il teorizzatore di uno stato forte e schiacciante l’individuo; dall’altra quella proto-liberale che si appoggia sulla sua forte concezione individualistica. Nell’interpretazione totalitaria la coscienza è una tabula rasa plasmabile dal potere ma è anche, al contempo, qualcosa di illusorio, una forza che è incapace di condurre alla verità. La coscienza, in questa interpretazione, è totalmente colonizzata da quella collettiva e dal potere che esprime. Al contrario, nell’interpretazione proto-liberale, la coscienza risulta essere una realtà autonoma e irriducibile al comando politico, ergendosi dunque a spazio di resistenza, intoccabile dal potere che riesce a limitare, essendone fuori per definizione. Emerge però una terza lettura grazie ad una diversa considerazione del rapporto fra coscienza e religione che conduce a quella che, in via provvisoria, Frilli ha definito come comunitaria. Essa, per farsi largo nel panorama delle altre interpretazioni, deve liberarsi anche delle letture fin troppo meccanicistiche e nominalistiche del pensiero di Hobbes così come del peso preponderante assegnato alla passione della paura della morte violenta come genesi dello Stato e che invece deve essere ricondotta nell’alveo delle altre passioni umane.

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Il ruolo della religione

Per comprendere adeguatamente questa impostazione è necessario però avere chiara la posizione di Hobbes sulla religione. Essa è tematizzabile su più livelli. Prima di tutto, in senso antropologico, la religione è ansia per il futuro. Spogliata poi delle sue vesti esteriori, la religione è legge di natura, cioè giustizia e carità. Rispetto alla politica, infine, essa è sempre parte del potere per via delle sue qualità intrinsecamente egemoniche. Il ruolo della religione appare in modo chiaro nel Leviatano.  La sua genesi, così come descritta nel cap. XII, risiede proprio nella coscienza individuale e segno evidente è il fatto che «la religione sia solamente nell’uomo» e «non si trova in altre creature viventi» ((T. Hobbes, Leviatano, trad. it. G. Micheli, BUR, Milano, p. 110.)) in quanto, osservando il susseguirsi degli eventi, egli desidera conoscere le cause di ciò che accade ed è tentato di dare una spiegazione dell’inizio delle cose. Dal punto di vista del rapporto con la politica, Hobbes spiega come ogni potere politico aspiri ad avere una sua religione che lo aiuti a rafforzare i patti tra i cittadini e il potere coercitivo. Il cristianesimo però costituisce un’eccezione: solo esso infatti, tra tutte le altre religioni, non ha avuto una genesi politica, ma anzi si è immediatamente posto contro il potere politico che l’ha osteggiato fino a che non è divenuta religione di stato con Costantino. Necessaria riforma del potere è l’imprescindibile riforma della religione che per Hobbes significa ritorno del cristianesimo delle origini, prima cioè che fosse contaminato dal potere politico. Solo così esso potrà riassumere la sua vera natura, che consiste nel fornire consigli e non comandi e nell’ indirizzare l’uomo verso la saggezza e una vita ben vissuta. 

 

Concetto e conseguenze del ruolo della coscienza

In questo quadro, il concetto di coscienza, contenuto nel capitolo VII del Leviatano, è definito come qualcosa di fallibile, in contrapposizione con quanto voleva Lutero il quale rintracciava proprio nella coscienza individuale di ciascuno lo spazio dove intercettare la verità, connotandola così con un forte senso morale. La coscienza per Hobbes è aperta alle esteriorità sociali e dunque alle influenze del mondo esterno. Ma allo stesso tempo essa rappresenta la possibilità di conoscere qualcosa insieme ad altri (secondo l’etimo della parola, ovvero co-scientia, calco latino che indica il sapere insieme ad altri). In altre parole, nella lettura che Frilli ha dato di Hobbes, la coscienza risulta essere attraversata da una duplicità di fondo: da una parte essa è il frutto dell’educazione e della nostra formazione, dall’altra si fonde in quella coscienza pubblica rappresentata dalle leggi. Lo Stato di conseguenza consiste nel giusto dosaggio di questa miscela perché se è vero che il potere produce il consenso è anche vero che il consenso è a fondamento del potere. Da questo punto di vista, nella conversazione finale, è stata rilevata l’assenza contemporanea di un racconto che serva come collante di una comunità: in termini gramsciani, che eserciti l’egemonia. Chiusa l’epoca del nazionalismo, di cui ritornano spesso le versioni più deleterie, svalutata la democrazia, di cui si avverte il malfunzionamento, finito il socialismo con tutte le sue storture. Riprendere la lettura di Hobbes declinandolo in senso comunitario significa così recuperare quelle determinanti, il ruolo dell’educazione e quello della religione in primis, che sole permettono ad una società di essere tale e allo Stato di esercitare la sua funzione.

 

Careful with that axe, Thomas!

«Nessun procedimento intellettuale, per quanto chiaro, può spuntarla contro la forza di immagini autenticamente mitiche»: in questo rimprovero si concentra uno dei punti chiave del commento di Carl Schmitt al Leviatano di Hobbes. Il filosofo inglese avrebbe cioè utilizzato nella sua opera principale e più famosa un’immagine enigmatica, quella del mostro biblico, che ha di fatto contribuito a depotenziare la sua stessa teoria. Per Schmitt, Hobbes si è comportato come l’apprendista stregone che evoca spiriti che poi non è in grado di controllare. Anche se la sua immagine fosse il frutto di uno humor inglese non percepito, Hobbes non sarebbe stato saggio nel maneggiare un’arma così pericolosa come quella del mito. A Schmitt si potrebbe obiettare il de te fabula narratur visto che nel 1938, anno di pubblicazione di Der Leviathan in der Staatslehre der Thomas Hobbes (come suona il titolo originale dell’opera), il filosofo e giurista tedesco era già stato pesantemente accusato e marginalizzato da quel nazismo a cui, pochi anni prima, aveva prestato il suo favore. Il saggio contiene comunque un groviglio di temi e di spunti di riflessione talmente densi che vale la pena dipanare, analizzare e, se possibile, chiarire.

Il mito biblico
Nei primi due capitoli Schmitt sottolinea la forza mitica di quest’immagine che non ha pari rispetto ad altre della filosofia politica. Tratta dalla Bibbia, essa ha fatto nascere una lunga serie di interpretazioni di cui due sono state quelle principali. Da una parte quella cristiana, dominata dal Leviatano come diavolo; dall’altra quella ebraica che nel mostro marino ha visto le potenze mondiali pagane a sé ostili. Scopo del Leviatano di Hobbes è invece completamente diverso e consiste proprio nel combattere una battaglia contro la teologia politica in ogni sua forma, nel tentativo di restaurare l’originaria unita vitale di religione e politica dopo la frattura, sediziosa e sovvertitrice per lo Stato, operata dagli ebrei. L’analisi di Schmitt parte dal significato del titolo e dal modo in cui esso si presenta nel libro. In primo luogo colpisce l’immagine del frontespizio che rappresenta un gigante, formato da piccoli uomini, che impugna nella mano destra una spada e in quella sinistra una tiara: nasce così subito una discrepanza tra quest’uomo artificiale e il mostro marino del titolo. Nel corso dell’opera, la parola Leviatano ricorre per di più solo in tre occasioni: una prima volta nell’introduzione, quando Hobbes equipara la civitas o respubblica ad una grande macchina; una seconda nel libro XVII, nel quale viene dedotta l’origine dello Stato dal terrore che costringe tutti alla pace; infine nel libro XXVIII dove domina il potere esecutivo che sottomette gli uomini attraverso premi e punizioni. Questa rarità nel ricorrere all’immagine del mostro biblico potrebbe essere dovuta, dice Schmitt, alla reticenza dell’autore di svelare integralmente il suo pensiero, «come di chi avesse timore ad aprire la finestra per paura della tempesta». In tutti i casi si tratta di un enigma non ancora sufficientemente chiarito dagli studi hobbesiani.

La macchina dello Stato
Nel terzo capitolo Schmitt ricorda come Hobbes definisca lo Stato un dio mortale, non tanto defensor pacis quanto piuttosto creator pacis. Il patto da cui trae origine non è di tipo comunitario ma ha carattere essenzialmente individualistico in una logica che non conduce alla persona ma alla macchina. Lo Stato è la machina machinorum, gigantesco meccanismo al servizio della sicurezza dell’esistenza fisica e terrena degli uomini. Con il trasferimento del concetto di macchina dall’uomo allo Stato, Hobbes compie il passo decisivo che rende possibile il processo di neutralizzazione culminante nella tecnicizzazione generale. Hobbes è il pensatore con il quale s’inaugura l’età della tecnica. La verità e la giustizia di questo Stato consistono nella perfezione dei suoi automatismi, sicché si deve dire (prescindendo da ogni giudizio di valore) che questa macchina o funziona o non funziona. In questo modo la distanza che separa lo Stato tecnico neutrale dalla comunità medievale è irriducibile. Se per quest’ultima esiste un diritto di resistenza contro un governante illegittimo, nello Stato assoluto il diritto di resistenza non solo è praticamente impossibile ma non esiste nemmeno come problema: o questo Stato esiste in quanto tale (e allora funziona in modo inarrestabile) oppure non esiste (e allora torna lo stato di natura). La contrapposizione tra Stato e comunità medievale si rivela anche nel diritto internazionale dove non ha più senso apporre l’aggettivo di “giusta” alla guerra la quale, diventata ormai un affare di Stato, è sempre totale dal momento che nel diritto internazionale si fronteggiano quei particolari individui chiamati Stati che vivono loro stessi in un reciproco stato di natura.

Cover Schmitt

Distinzione tra interno/esterno e crollo dello Stato
Il nodo cruciale però consiste in quella distinzione tra coscienza individuale e coscienza pubblica che costituisce, secondo Schmitt, il punto di rottura della teoria hobbesiana (da qui il sottotitolo del saggio, significato e fallimento di un simbolo politico). L’aspetto viene trattato nell’ambito della questione dei miracoli. Secondo Hobbes è miracolo ciò che lo Stato vuole che si creda sia tale, sicché il dio mortale ha potere su di esso e sulla confessione di fede. Tuttavia il diritto di esigere la confessione si limita alla lingua, cioè alla dimensione esteriore dell’individuo, lasciando la fede interiore fuori da ogni coercizione. Questa riserva è ciò che condurrà, secondo Schmitt, alla distruzione del potente dio mortale, in quanto la distinzione tra fede pubblica e fede privata condurrà, da una parte, alla libertà di pensiero e di coscienza e, dall’altra, all’origine dello Stato neutrale e agnostico. Nel momento in cui la distinzione è posta, la superiorità della coscienza sullo Stato è in sostanza cosa già decisa. Questo germe sarà portato a pieno sviluppo da Spinoza, il primo ebreo liberale della storia. Se infatti nella dottrina di Hobbes la pace pubblica e il diritto del potere sovrano hanno sempre la priorità, in quella di Spinoza viene al primo posto la libertà di pensiero con la pace pubblica e il diritto del potere sovrano che si trasformano in semplici riserve. Lo Stato assoluto può esigere tutto ma solo esteriormente e la religio si trasferisce nella sfera privata dell’individuo. Sarà con un altro ebreo, Moses Mendelssohn alla fine del XVIII secolo, che il principio della separazione interno/esterno si radicalizza grazie a quello che viene definito da Schmitt (non senza una punta di antisemitismo) «l’infallibile istinto ebraico di minare e scalzare la potenza dello Stato, il mezzo migliore per paralizzare il popolo dei gentili e per emancipare il proprio».

Nascita del liberalismo e seconda morte dello Stato ad opera dei poteri indiretti
Ma, oltre a quelle già citate, un’altra tesi emerge dal saggio del filosofo e giurista tedesco: quella secondo cui Hobbes è un antenato delle costituzioni borghesi. Tale tesi si giustifica in primo luogo perché il filosofo inglese ha anticipato la concezione costituzionale dello Stato di diritto fondato su un patto; in secondo luogo perché ha trasformato il concetto di legge, intesa ora come una motivazione coattiva psicologicamente calcolabile, nella possibilità di costrizione all’obbedienza secondo termini che saranno poi definiti da Weber. Questi elementi presenti nella dottrina hobbesiana sono sempre stati misconosciuti tanto che il suo autore è stato comunemente dipinto come colui che ha anticipato lo Stato totalitario con i suoi terrori e le sue atrocità. In realtà ad Hobbes interessa superare l’anarchia di diritto e di resistenza feudale istituendo un potere centralizzato che ha il solo obbligo di protezione del bene assegnatogli, la vita degli individui. Se cessa la protezione, cessa anche lo Stato e l’individuo riguadagna la sua libertà naturale. La relazione di protezione e obbedienza, fatta poi valere nello stato di leggi positivistico dell’800, è così la pietra angolare della dottrina di Hobbes, vero e proprio pioniere dello Stato liberale.
Tuttavia proprio questo principio (a sua volta derivante dall’originaria distinzione della coscienza interna da quella esterna) è la malattia che conduce il dio mortale ad una seconda morte inflittagli da tutte quelle potenze anti-individualistiche (chiese, partiti, sindacati) che, in nome della libertà individuale, si sono spartite le sue carni. La requisitoria di Schmitt è qui durissima. Il dualismo di Stato e società libera ha generato un pluralismo sociale nel quale hanno prevalso i cosiddetti poteri indiretti, cioè quei poteri che non agiscono a proprio rischio ma per il tramite di altri. Scrive Schmitt che «la sfera privata, presunta libera, garantita da questo sistema costituzionale, fu così sottratta allo Stato e consegnata ai poteri liberi (cioè incontrollati e invisibili) della società». Hobbes aveva compreso che «i pericoli che minacciano l’individuo, provenienti dalle Chiese e dai profeti, sono peggiori di tutto ciò che si può temere da un’autorità statale e temporale», ma il suo simbolo politico ed insieme il suo insegnamento è fallito. Ciò non toglie che il magistero del filosofo inglese non sia stato vano, come gli grida dietro il suo recensore nelle parole conclusive («non jam frustra doces, Thomas Hobbes»), secondo lo stile di chi è solito discutere coi grandi spiriti del passato.

 

 

 

Il “mostro di Malmesbury” e i classici greci

Hobbes e Omero: una traduzione “politica”? Basta anche solo il titolo dello studio edito presso il Centro Editoriale Toscano da Andrea Catanzaro nel 2015 per destare curiosità e interesse. Innanzitutto perché nel novero delle opere date alla luce da Thomas Hobbes, che tra i tanti epiteti negativi ebbe anche quello di “mostro di Malmesbury”, sicuramente solo i più esperti non sarebbero sorpresi dalla vista di una traduzione dell’Iliade e dell’Odissea; ma anche perché fra i tanti grandi dell’antichità, Omero è senz’altro l’ultimo che ci si aspetterebbe di vedere accostato a Hobbes. Pertanto, ecco che diverse domande cominceranno a farsi largo nella mente di chi venisse a conoscenza di tutto questo per la prima volta: quando sono state fatte queste traduzioni? Cosa ha avvicinato uno dei capisaldi della filosofia politica occidentale all’epica classica? Ma soprattutto, perché cimentarsi in un simile lavoro? Queste sono solo alcune delle domande cui Catanzaro cerca di far fronte nel suo attento lavoro d’analisi dei testi hobbesiani e, sebbene non sia possibile giungere ad una risposta definitiva, l’idea che ne sta alla base finirà per lasciar intravedere qualcosa di più di una mera suggestione.

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La coscienza in Hobbes tra politica e religione – RF15

Da venerdì 20 a domenica 22 ottobre 2017, si svolgerà a Nocera Umbra il quindicesimo ritiro filosofico organizzato da RF. Relatore di quest’anno sarà il ricercatore universitario Guido Frilli il quale ci condurrà con le sue riflessioni a sondare il pensiero di un classico della tradizione filosofica: Thomas Hobbes.

Il ritiro intende tematizzare l’idea hobbesiana di coscienza, nel suo complesso spessore antropologico, politico e teologico. L’analisi si appoggerà tanto a testi hobbesiani classici come gli Elements of Law e il Leviathan, quanto a scritti meno frequentati come il De Motu, loco et tempore, The Questions concerning Liberty, Necessity, and Chance, e A Historical Narration Concerning Heresy. Benché spesso trascurata dalla letteratura secondaria, la nozione di coscienza costituisce un punto architravico dell’edificio sistematico di Hobbes; in particolare, si vuole mostrare come un esame adeguato del concetto di coscienza non possa prescindere dall’investigazione approfondita della dottrina teologica hobbesiana. Hobbes sottopone a radicale revisione critica il concetto luterano-calvinista di coscienza individuale come centro inviolabile e sacro della fede nel regno di Cristo, riconducendola al contrario a mera opinione fallibile; al tempo stesso, Hobbes assegna alla coscienza un cruciale spazio di autonomia valutativa, non intaccabile dall’autorità politica. Lungo il sottile filo teso tra queste due tesi si gioca la tenuta del progetto hobbesiano: la costruzione di un potere politico che, se da un lato non può più essere uno strumento dispotico di conversione religiosa, dall’altro deve sforzarsi di ridurre e relativizzare, attraverso l’educazione, la distanza tra coscienza individuale e legge pubblica.

Titolo del ritiro:
La coscienza in Hobbes tra politica e religione

Relazioni:
1- L’idea di coscienza
2- Lo spazio della coscienza tra potere politico e autorità religiosa
3- Educazione, tolleranza e conversione: Hobbes e l’illuminismo


Guido Frilli è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Ha studiato all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore di Pisa, e ha svolto il dottorato a Firenze e Parigi 1 Panthéon-Sorbonne. Oltre ad articoli e contributi in volume, ha pubblicato nel 2015 una monografia sul concetto di tempo nella
Fenomenologia dello Spirito di Hegel, versione rielaborata della tesi di laurea specialistica discussa a Pisa nel 2011; e la tesi di dottorato, dedicata a Hegel e Hobbes (“Ragione, desiderio, artificio. Hegel e Hobbes a confronto”) sta per uscire in volume per i tipi di Firenze University Press. Si occupa principalmente di filosofia classica tedesca (oltre a Hegel, Kant, Fichte e Jacobi) e più recentemente della filosofia politica e religiosa di Thomas Hobbes.

Breaking Hobbes

Tra le letture obbligatorie per chi voglia occuparsi oggi di filosofia politica  c’è Limes, la rivista italiana di geopolitica che analizza i grandi stravolgimenti culturali, politici ed economici che stanno avvenendo a livello planetario. Strumento indispensabile per dare uno sguardo approfondito alla realtà internazionale, il periodico diretto da Lucio Caracciolo costituisce un ottimo riferimento per comprendere le modalità con cui le grandi idee sono in corso di realizzazione nella storia. Nel numero 9/2015 dedicato alle guerre islamiche, Limes definisce la regione interessata dai conflitti musulmani  la terra di Hobbes. «Il caos alle porte? Ad auscultare il respiro profondo della nostra società come di altre in Europa, non solo mediterranea, parrebbe di cogliere la paura del ritorno allo stato di natura. Condizione umana che il filosofo inglese Thomas Hobbes descriveva quasi quattro secoli fa come anticamera dell’apocalisse. Uno stato senza Stato. Nel quale cade ogni obbligazione: niente più governi né governati. La guerra di tutti contro tutti. Homo homini lupus. Uno sguardo ai mari che bagnano le nostre coste, solcati da zattere stracolme d’umanità sradicata, i fondali segnati dalle fosse comuni dei naufraghi, suscita allarme e paura. Ove non bastasse, la drammatizzazione mediatica e l’impotenza della politica, accentuata dal ricorso a una retorica tranquillizzante che non calma nessuno, provvede a eccitare ansie collettive». Sicché, continua Limes, «le peggiori distopie del grande pensatore politico sembrano materializzarsi. Se fosse vissuto oggi, anziché evocare i costumi selvaggi degli indiani d’America, Hobbes avrebbe forse esemplificato le sue teorie scandagliando le vene profonde di Caoslandia». Un’esistenza durata oltre novanta anni (1588-1679), assertore del meccanicismo, del materialismo e dell’individualismo, con il quale rompe i ponti con la tradizione classica, vero e proprio filosofo della paura, Thomas Hobbes è il bad boy del pensiero moderno.

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Un nuovo studio su Reimarus

Nella sezione RF Edizioni è possibile scaricare un nuovo contributo su Hermann Samuel Reimarus. Presa in esame è la questione del miracolo. Se il mondo religioso ha per lungo tempo considerato il miracolo come elemento probante della rivelazione, pensatori come Spinoza, Lessing e Reimarus hanno invece  sottolineato l’inconciliabilità tra le ragioni del fedele e quelle del filosofo.