Il sovrano e l’eccezione

Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno recentemente pubblicato un libro (Croce e Salvatore 2022) che aiuta a inquadrare il concetto di stato di eccezione, forgiato da Carl Schmitt nei primi decenni del secolo scorso e che viene «da più parti presentato come ciò che prende a ostaggio la coscienza e la percezione di intere popolazioni per consegnarle a una nuova concezione del diritto e della politica, in cui i valori liberal-democratici passano in secondo piano»: a causa di un pericolo percepito come incombente e letale, «le persone sono indotte a barattare la sacralità dei valori della libertà e della democrazia per aver salva la vita». Lo stato di eccezione consentirebbe allora un rimodellamento della normalità senza spargimento di sangue ma con una «gestione accorta di un pericolo  collettivo presentato come incalzante e prossimo». 

Il libro smentisce convincentemente questa impostazione: «l’intera impalcatura concettuale che si fonda sull’idea di stato di eccezione non aiuta in alcun modo né a criticare i processi politici in corso né a rinvenire modalità più efficaci e trasparenti di gestione dei vari rischi in cui una popolazione può incorrere in uno o più frangenti della sua storia».

Il tema si colloca sulla faglia fra diritto e politica e di conseguenza la prospettiva storica è ineliminabile: in questo articolo esamineremo dunque alcuni passaggi, fra i molti d’interesse che il libro mette in luce.

Il primo motore mobile: la dittatura romana
L’istituto romano della dittatura è sovente il punto di partenza della riflessione sullo stato di eccezione. Lo stesso Schmitt se ne era occupato in una delle sue opere dei primi anni venti (Schmitt [1921] 1975). Data la sua “lunga durata”, la dittatura ha tuttavia subito mutamenti radicali nel corso del tempo. In epoca repubblicana la dittatura non aveva infatti connotati derogatori: era conferita con procedure ordinarie per gestire emergenze interne o esterne, e si connotava dunque come parziale reviviscenza del pieno potere regale in situazioni critiche. L’istituto cambia faccia nell’82 a.C. con Silla, che trasferì il potere di nomina del dittatore ai comizi e stabilì che, pur a tempo, essa sarebbe cessata solo con l’elaborazione di nuove leggi e dunque con l’introduzione di un nuovo ordinamento.

Una corrente di pensiero, a posteriori classificata come “eccezionalismo repubblicano”, ha raccolto le riflessioni di numerosi autori che, pur nella diversità di accenti, hanno trovato un leit motiv nel ritenere che «se è vero che il governo dell’emergenza è teso alla conservazione di un certo tipo di Stato, e quindi è parte integrante dello strumentario costituzionale, è altrettanto vero che la concreta attività di conservazione, allorché messa in opera, interrompe i tempi ordinari dell’amministrazione politica». 

In questo ambito, possono essere ricordati Machiavelli, che vede la dittatura come strumento a difesa della repubblica in tempi straordinari, caratterizzato da limiti prestabiliti, e dunque non eversivo dell’ordine precostituito; Montesquieu, per il quale la dittatura è uno strumento nella disponibilità senatoria efficace per proteggere la costituzione mista romana e necessario per evitare che le intemperanze popolari compromettano l’equilibrio dei poteri; Rousseau, per il quale la dittatura costituisce una forma monocratica provvisoria di esercizio del potere esecutivo, e una sospensione del potere legislativo (che per Rousseau era il nucleo della sovranità) ma priva del potere di legiferare. 

Locke si discosta invece in maniera significativa da tale indirizzo, quando introduce il concetto di prerogativa regia, intesa come potere del monarca di provvedere al bene pubblico nei caso in cui, a causa di circostanze impreviste, le leggi non possono fare da guida. Per Locke la prerogativa regia è una sorta di valvola di sicurezza empirica dell’ordinamento: il parlamento può limitarla ma il potere del sovrano non sparisce mai del tutto e il conflitto è positivo, perché produce uno scrutinio costante dei poteri concorrenti, che costituisce il motore della politica liberale.

Carl Schmitt e Max Weber
Gli esordi di Carl Schmitt  sono legati alla normalità e alla tradizione (Pietropaoli 2012). La “svolta” eccezionalista che emerge in Teologia politica (Schmitt [1934] 1972, 27) dipende da due cause: la prima guerra mondiale e l’incontro con Max Weber. La guerra segna infatti l’apertura di un periodo di estrema instabilità, che sfocia in situazioni di guerra civile conclamata e dunque un punto di non ritorno nella storia d’Europa e della forma di Stato nel suo complesso. Sotto il profilo personale, la frequentazione di Weber a Monaco è determinante: Schmitt chiarisce come l’intento di Teologia politica sia innanzi tutto quello di metterne a frutto il lascito sociologico.

Schmitt e Weber condividono, da prospettive diverse, una presa d’atto fondamentale: la politica è fenomeno non razionalizzabile giuridicamente, dipendente da fenomeni collettivi di aggregazione e disaggregazione in larga parte imprevedibili con conseguente «impossibilità di dare compiuta forma giuridica al politico: (…) il diritto non è più in grado di tradurre i flussi politici in un compiuto ordine normativo». Se l’orizzonte di senso è comune, «diversi saranno invece i tentativi di soluzione: al monopolio della coercizione teorizzato da Weber, Schmitt opporrà un ben più problematico monopolio della decisione». Quella di Schmitt è dunque la radicalizzazione dell’idea del diritto come forma che conferisce razionalità a una realtà sociale altrimenti caotica e priva di ordine.

Weimar
La repubblica di Weimar  fu esperienza di carattere conflittuale e ultimativo (Eyck 1977) e Schmitt, che percepì tale carattere con acume insuperato, si preoccupò sempre di contenerne le derive estreme. Il punto nevralgico della complessa vicenda costituzionale weimariana si trova nell’art. 48, nel quale vengono fissati i poteri eccezionali del Reichpräsident. L’ampiezza di tali poteri è tale che essi potrebbero determinare «una dissoluzione interna, per via politica, del regime giuridico che pure si intenderebbe salvaguardare». Gli autori sottolineano correttamente che, al contrario di quanto propugnato dalla vulgata in materia, lo sforzo di Schmitt è rivolto a contenere i poteri conferiti dall’art. 48 al Reichpräsident nel perimetro costituzionale giacché (i) la costituzione, in quanto essenzialmente organizzazione e traduzione normativa di un ordine esistente, non può in alcun modo essere derogata; (ii) sussiste sempre un minimo di organizzazione costituzionale, anche sotto il profilo soggettivo, che lo stesso art. 48 presuppone e che il Reichpräsident nell’esercizio dei poteri emergenziali comunque non può derogare; (iii) il Reichpräsident può adottare solo atti amministrativi e non sentenze o atti normativi, tanto meno di rango costituzionale.

Per quanto ineccepibile, la sottile analisi costituzionale di Schmitt non riuscì ad evitare la catastrofe. Dal 1925 al 1929 si fece ricorso all’art. 48 solo per revocare precedenti decretazioni d’urgenza, poi la situazione precipitò a causa della gravissima crisi economica e all’ingresso in parlamento di un cospicuo numero di soggetti dichiaratamente ostili al regime parlamentare, sicché il ricorso all’art. 48 divenne il modo per superare la paralisi dell’attività legislativa, a cominciare dall’ambito economico-finanziario, con quella che lo stesso Schmitt, alcuni anni dopo e sulle macerie della catastrofe ormai avvenuta, definì come produzione normativa motorizzata (Schmitt [1950] 2020, 45).

Stato di eccezione e decisione
«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» è il celebre incipit con cui Schmitt esordisce in Teologia Politica (Schmitt [1934] 1972, 33). Gli autori evidenziano che «Il sovrano di Teologia politica è tale innanzitutto perché sospende un ordine, quello che vige nella normalità, per introdurre un ordine nuovo, quello dichiarato mediante la sua decisione sullo stato di eccezione». Il sovrano è dunque un «grammatico sociale» perché la sua decisione «deve creare le condizioni in cui si rivela efficace – condizioni che non preesistono alla decisione». Schmitt, comprendendo che lo stato di eccezione è una decisione sulla legge che non si fonda sulla legge, sulla scorta del principio secondo il quale necessitas legem non habet (così Agamben 2003, 35, a partire da uno spunto canonistico), evoca l’immagine del miracolo: lo stato di eccezione ha per il diritto significato analogo a quello che il miracolo ha per la teologia. Ma la metafora teologica ha dei chiari limiti perché se essa ha valore per attestare l’irruzione dell’assoluto nella storia, diventa meno efficace quando si tenta di calarla nella realtà empirica. Il nuovo ordine dovrebbe poter contare su un apparato amministrativo funzionante, che smette di obbedire al sistema giuridico preesistente e comincia a seguire il nuovo ordinamento imposto dalla decisione del sovrano.  Il problema irrisolto resta dunque quello di capire come può il sovrano imporre una nuova normalità e una nuova catena di comando, peraltro senza violenza.

Il gioco degli specchi: auctoritas hobbesiana e positivismo kelseniano
Con una serrata analisi testuale, gli autori dimostrano come Schmitt tratti in realtà il tema dello stato di eccezione in maniera del tutto confusa, vaga e incerta. Al fine di spiegare «come la decisione sovrana possa procurarsi l’efficacia di cui abbisogna per essere davvero sovrana» Schmitt presenta come soluzione la dottrina di Hobbes, il quale in un celebre passo del Leviatano afferma che “auctoritas, non veritas, facit legem(Hobbes [1668] 2001, 448). In realtà, adeguatamente contestualizzando il passo di Hobbes, il significato dell’espressione assume un significato radicalmente differente. Hobbes, infatti, intendeva polemizzare con i giuristi di common law, che detenevano il monopolio della invenzione del diritto (da intendere nel senso meglio chiarito da Grossi 2017) in quanto esploratori della veritas. Hobbes intendeva invece affermare che il diritto promana esclusivamente dall’organo dello Stato che detiene il potere legislativo. A ben vedere, dunque, la lettura schmittiana di Hobbes sottende lo scontro con Kelsen e la sua «influentissima versione del positivismo giuridico» (Kelsen [1934] 2021; Kelsen 1945). Ma se è vero che Schmitt disprezza la riduzione dello studio del diritto allo studio dei meccanismi del sistema giuridico con modalità che dimenticano la forza politica impersonata dalla decisione sovrana, in fin dei conti egli non è lontano da Kelsen nell’individuazione dei connotati identificativi di un ordinamento, discordando i due soltanto sulla natura intra o extra giuridica del momento originario (Croce e Salvatore 2020, 34; ma si veda anche D’Aniello 2021). 

Il sovrano di Teologia politica è dunque il tentativo di rintracciare un’alternativa alla irriducibilità della politica alla razionalità giuridica, in grado di garantire un minimo di ordine: lo stato di eccezione altro non è per Schmitt uno scenario estremo che l’abile e saggio governante è chiamato a prevenire e scongiurare a ogni costo. È questa urgenza ordinamentale «a spiegare tanto l’adesione schmittiana all’eccezionalismo quanto la sua rapida dismissione». 

Le dieci pagine di Teologia politica dedicate allo stato di eccezione costituiscono allora più un dérapage concettuale di Schmitt, che una robusta costruzione giuridica, giacché resta senza risposta la domanda «su come il sovrano riesca a determinare le condizioni in cui la sua decisione esercita effetti tali da indurre intere popolazioni ad abbracciare una nuova forma di vita».

Securitas vs eccezione
Le cose non migliorano se, per riempire di contenuto il concetto di stato di eccezione, ci si aggancia, come fanno molti commentatori, al concetto di inimicizia proposto da Schmitt ne Il concetto di “politico” (Schmitt [1932] 1972, 89). Qui Schmitt definisce il politico come il massimo grado di un’opposizione tra due gruppi (si tratta della celebre dicotomia amico / nemico). Ma quella di Schmitt è una definizione di un determinato tipo di relazioni utili a individuare la caratteristica distintiva della statualità, che è stata invece distorta secondo il seguente, errato sillogismo: (i) sovrano è chi decide sullo stato di eccezione; (ii) lo stato di eccezione riguarda, per ciò che concerne la decisione fondativa dell’unità politica, l’individuazione del nemico; (iii) sovrano è chi decide chi sia il nemico.

In realtà, nel testo in questione Schmitt afferma esplicitamente che l’ipotesi di contrapposizione politica fra due gruppi sub statuali (ossia tale da ammettere lo scontro armato fra essi) è eventualità da rifuggire a ogni costo, perché minerebbe alla radice la permanenza di qualsiasi forma di stato. Per Schmitt, allora, se in tempi di crisi la legittimità si riduce alla sola effettività, il grave compito del giurista è, da un lato, quello di interpretare i flussi sociali al fine di dare forma agli assetti costituzionali e, d’altro lato, quello di puntellare il sistema esistente finché non sia possibile la transizione pacifica al nuovo ordine. Lo stato di eccezione presuppone un processo istituente/costituente certamente non puntiforme: «una data emergenza, per quanto grave o incombente possa apparire dall’esterno, non può mai di per sé determinare uno stato di eccezione». Il vero stato di eccezione si certifica allora solo ex post e solo nel caso in cui l’eccezione sia permanente, condizione che ha come ultima fase di inveramento la completa perdita di percezione dell’eccezione stessa. Se resta la percezione che l’eccezione deve rientrare allora, neanche tanto paradossalmente, non si dà stato di eccezione.

Uno strumento inefficace
In conclusione, l’eccezionalismo è, nel lungo percorso intellettuale di Schmitt, poco più che un sentiero interrotto. Il nucleo incandescente della riflessione di Schmitt riguarda in realtà la tematizzazione della violenza come punto di condensazione dell’esperienza politica e dunque, sotto tale riguardo, lo stato di eccezione non può fondare nulla. È vero invece che, secondo Schmitt, la funzione del politico è quella di individuare e selezionare le prassi che innervano e definiscono l’ordinamento giuridico tanto che, successivamente, sarà nell’istituzionalismo  che egli troverà il reticolo concettuale adatto alla sua visione rigidamente conservatrice: un sistema adatto a «garantire la condivisione di un nucleo di pratiche distintive e fondative di una comunità», utilizzato da Schmitt come antidoto al pluralismo potenzialmente disgregatore.

Non è certo possibile dar conto in questa sede della ricchezza di spunti offerta dal testo, ma esso si accredita come un punto fermo nel ripristino di una lettura corretta (almeno, a parere di chi scrive) del pensiero di Carl Schmitt che, seppur funestato da irredimibili compromissioni, ha in ogni caso fornito un penetrante strumento di analisi della contemporaneità giuridica, purtroppo strumentalizzato con leggerezza a fini di dialettica politica di minor momento.

 

Riferimenti bibliografici

  • Agamben, Giorgio. 2003. Stato di eccezione. Homo sacer, II, I. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Croce, Mariano – Salvatore, Andrea. 2020. L’indecisionista: Carl Schmitt oltre l’eccezione. Macerata: Quodlibet.
  • Croce, Mariano – Salvatore, Andrea. 2022. Cos’è lo stato di eccezione. Milano: Nottetempo.
  • D’Aniello, Fernando. 2021. «Quando uno stato muore. Note sulla teoria giuridica di Hans Kelsen nel confronto con la Staatslehere dominante tra Weimar e Bonn» in Materiali per una storia della cultura giuridica 2021 (02): 489.
  • Eyck, Eric. 1977. Storia della Repubblica di Weimar (1918-1933). Torino: Einaudi.
  • Grossi, Paolo. 2017. L’invenzione del diritto. I. Bari-Roma: Laterza.
  • Hobbes, Thomas. (1668) 2001. Leviatano. Milano: Bompiani.
  • Kelsen, Hans. 1945. General Theory of Law and State. Cambridge (Mass): Harvard University Press.
  • Kelsen, Hans. (1934) 2021. La dottrina pura del diritto. Torino: Einaudi.
  • Pietropaoli, Stefano. 2012. Schmitt. Roma: Carocci.
  • Schmitt, Carl. (1921) 1975. La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria. Roma – Bari: Laterza;
  • Schmitt, Carl. (1932) 1972. «Il concetto di “politico”: testo del 1932 con una premessa e tre corollari». In Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica, 89. Bologna: Il Mulino.
  • Schmitt, Carl. (1934) 1972. «Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità». In Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica, 29. Bologna: Il Mulino.
  • Schmitt, Carl. (1950) 2020. La situazione della scienza giuridica europea. Macerata: Quodlibet.

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