L’esperimento mentale del filosofo americano Thomas Nagel, pubblicato su The Philosophical Review nell’ottobre del 1974, mira a confutare le ipotesi fisicaliste e riduzioniste che intendono spiegare il rapporto tra mente e corpo in termini puramente biologici. Nagel, ponendo una serie di problemi che s’incentrano essenzialmente sul ruolo della coscienza e su quello della soggettività individuale, parte da questo presupposto: anche se conoscessimo tutta la meccanica del cervello, anche se fossimo in grado di mappare ogni cellula che costituisce la nostra materia grigia, noi non comprenderemmo mai che cosa significhi fare un’esperienza spirituale, percepire un oggetto o provare delle emozioni. La ragione è semplice: nel momento in cui appare qualcosa alla coscienza, significa che appare qualcosa che equivale al come essere una certa altra cosa. Per dimostrare ciò, egli ricorre alla finzione di pensare a cosa si prova ad essere un pipistrello.
L’unità come condizione fondativa (VI)
Nel saggio precedente si era pervenuti alla conclusione che l’unità può venire riscontrata nell’atto, inteso non tanto come atto del distinguersi, quanto come atto del togliersi dei distinti.
L’unità dell’atto, questo è il punto, è sempre e comunque vincolata ad una determinazione, sia che si tratti dell’atto del “distinguersi” sia si tratti dell’atto del “togliersi”: se l’atto del distinguersi si pone a condizione del porsi della determinatezza dei distinti, così che anche l’atto risulta da essi determinato, altrettanto l’atto del togliersi si pone a condizione del porsi della determinatezza di ciò che si toglie dopo essersi determinatamente posto, così che anche tale atto risulta, esso stesso, determinato.
L’effettiva unità, invece, si realizza allorché viene meno ogni determinatezza, così che l’“unità del fondamento” non potrà non venire distinta dall’“unità dell’atto”, ancorché l’atto, almeno intenzionalmente, cioè idealmente, non può non intendere di essere tutt’uno con ciò verso cui si volge e che intende come sua meta e suo compimento: il fondamento, appunto. Continue Reading
Vero atto ed effettiva unità in Hegel (V)
Hegel assume il falso come momento della verità: questo è emerso nei precedenti saggi. Ne consegue che tale status domanda di venire adeguatamente pensato. Del resto, pensare questo status consente di produrre un significativo avanzamento rispetto a quanto è stato già detto in ordine al “vero” così come esso inizialmente si presenta.
Ciò che ora prenderemo in esame è quanto segue: vi sono due modi per pensare il vero. Il primo modo lo pone come un termine in relazione al falso. Il secondo modo lo pone come la relazione stessa. Il vero, insomma, deve venire pensato sia come la relazione sia come uno dei suoi momenti (termini). Continue Reading
L’unità originaria del sapere di sapere (IV)
Avendo precisato, nel precedente articolo, il senso in cui si parla di atto, è possibile ritornare al tema del suo rapporto con la procedura, cioè con l’esposizione dianoetica. Quest’ultima si fonda innegabilmente sull’atto noetico, il quale richiede inevitabilmente la procedura per trovare un’espressione determinata.
Nel determinare il noema, questo è l’aspetto inevitabile, l’atto di pensiero viene implicato come la condizione oggettivante cui l’oggettivazione innegabilmente rinvia, senza che questa condizione possa venire oggettivata. Essa è inoggettivabile proprio perché è condizione incondizionata di ogni oggettivazione.
La procedura dianoetica, quindi, esprime in forma discorsiva e determinata ciò che è stato oggettivato (il contenuto del pensiero). E, mediante essa, si fa innegabile riferimento all’atto oggettivante, che dell’oggettivazione è la condizione. Si potrebbe dire, pertanto, che l’oggettivato è segno dell’atto oggettivante, il quale emerge, appunto, come la condizione stessa dell’oggettivazione. Continue Reading
Vero pensiero è l’unità di pensante e pensato (III)
L’atto di coscienza come fondamento
Come dicevamo nella seconda parte del presente lavoro, nella misura in cui il pensiero poggia sulla differenza, e dunque vale come relazione tra pensiero pensante e pensiero pensato, esso si fonda sull’atto noetico del suo sapersi (che costituisce l’essenza autentica del pensiero pensante) e si esprime come procedura dianoetica che lo dispone come discorso, cioè come linguaggio.
Da un certo punto di vista, il linguaggio rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che anzi lo esprime in forme determinate. Quelle forme determinate che poggiano sulla relazione, la quale costituisce l’essenza stessa delle forme o la loro struttura.
Da un altro punto di vista, l’atto di pensiero vale come visione del noema (del contenuto di pensiero) e solo in quanto tale esso fonda la possibilità che il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente. Continue Reading
Sull’impossibilità di ridurre l’oggetto in sé all’oggetto percepito (IV)
Per riprendere il discorso sulle posizioni ambigue, in ordine al tema dell’oggettività, assunte da numerosi scienziati che si occupano del tema della mente, partiamo da questo punto. Ci sembra quanto mai significativo che un altro insigne neurobiologo, Edelman, in una sua opera molto importante, dopo avere fornito un avvertimento al lettore: “Il lettore ricordi, quando sarà il caso, che comunque la triade essenziale [corpo, econicchia e cervello] è sempre nella mia mente” (Edelman, 2007, 22), scriva: “Un altro errore è contenuto nell’affermazione che le categorie sensoriali come il colore e varie altre percezioni esistono nel mondo indipendentemente dalla mente e dal linguaggio” (Ivi, 37). Per poi aggiungere, citando Quine e il suo progetto di “naturalizzare l’epistemologia”: “Il soggetto riceve “un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione […] e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare […] per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria” (Ivi, 43-44; l’opera di W.V.O. Quine, cui Edelman si riferisce, è Epistemology Naturalized). Continue Reading
L’importanza di non essere un pipistrello
L’esperimento mentale del filosofo americano Thomas Nagel, pubblicato su The Philosophical Review nell’ottobre del 1974, mira a confutare le ipotesi fisicaliste e riduzioniste che intendono spiegare il rapporto tra mente e corpo in termini puramente biologici. Nagel, ponendo una serie di problemi che s’incentrano essenzialmente sul ruolo della coscienza e su quello della soggettività individuale, parte da questo presupposto: anche se conoscessimo tutta la meccanica del cervello, anche se fossimo in grado di mappare ogni cellula che costituisce la nostra materia grigia, noi non comprenderemmo mai che cosa significhi fare un’esperienza spirituale, percepire un oggetto o provare delle emozioni. La ragione è semplice: nel momento in cui appare qualcosa alla coscienza, significa che appare qualcosa che equivale al come essere una certa altra cosa. Per dimostrare ciò, egli ricorre alla finzione di pensare a cosa si prova ad essere un pipistrello.
L’Antigone di Hegel,il femminile tragico e ironico. Anzi,criminale
In uno dei testi più noti della letteratura occidentale, Sofocle racconta la vicenda di Antigone che, per seppellire il cadavere di suo fratello Polinice caduto nella guerra voluta da Creonte, contravviene alla legge dello Stato che vietava gli onori funebri a chi avesse infranto le sue leggi. Per tal motivo, l’episodio è diventato paradigmatico del rapporto spesso conflittuale tra l’adesione alla legge divina e l’obbedienza alla legge civile con la protagonista che dopo essere stata condannata, finirà per togliersi la vita. Figura centrale della tragedia che porta il suo nome, Antigone ha ispirato filosofi come Schelling, Kierkegaard, Heidegger e Derrida ma l’interpretazione più nota è stata quella di Hegel che ha utilizzato il personaggio come strumento di un lungo esperimento mentale per mettere alla prova non solo la relazione tra legge divina e legge umana ma anche quella tra il singolo e la comunità finanche quella tra maschio e femmina. Lo scenario controfattuale, che giustifica l’inserimento dell’allegoria nella galleria degli esperimenti mentali, è costituito dalla lunga serie di conseguenze che si producono a seguito della scelta di Antigone. Come sempre, quando si tratta del filosofo dell’idealismo assoluto, le vie attraverso le quali si realizza il risultato finale non sono affatto scontate anche perché Hegel finisce per utilizzare l’eroina greca per dare una certa immagine della donna che è stata poi oggetto di radicale contestazione da parte di alcune correnti della filosofia contemporanea.
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Hobbes e il peso della coscienza
«Per quanto concerne la politica, la differenza tra Hobbes e me consiste in questo: io lascio il diritto naturale sempre nella sua integrità e sostengo che in una città il potere sovrano ha più diritto sul suddito solo nella misura in cui ha più potere di esso. E questo ha sempre luogo nello stato di natura». È così che Spinoza si pronuncia in una lettera sulle differenze che intercorrono tra la sua filosofia e quella di Hobbes: mentre quest’ultimo pone termine allo stato di natura con quello civile, per il primo lo stato di natura continua anche in quello civile. In realtà tale lettura, insieme a molte altre interpretazioni della dottrina del pensatore inglese, sarebbe molto meno sicura. Guido Frilli, ricercatore all’Università di Firenze che ha guidato le discussioni dello scorso ritiro filosofico svoltosi a Nocera Umbra dal 20 al 22 ottobre, ci ha presentato un Hobbes per molti aspetti diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere, attraverso una lettura attenta ed analitica dei testi da cui emerge un profilo molto più sfaccettato rispetto a quello conosciuto. Hobbes infatti è prima di tutto un pensatore che assegna un peso preponderante alla coscienza individuale e questo è un elemento che non può essere tralasciato se si vuole correttamente intendere la sua filosofia.
Le interpretazioni troppo univoche di Hobbes
Rispetto alla questione del diritto naturale infatti, non è vero e non è nemmeno possibile che Hobbes interrompa il ruolo della coscienza sulle soglie del diritto civile. Anzi, si tratta proprio del contrario: se lo Stato non riconosce alla coscienza individuale il ruolo che le è proprio, quello cioè di autonomo ed irriducibile soggetto di potere, esso finisce per andare incontro alla rovina. Il problema è che Hobbes è sempre stato stretto tra due interpretazioni che di fatto hanno limitato, secondo Frilli, la portata rivoluzionaria del suo sistema. Da una parte quella totalitaria che ne intravede il teorizzatore di uno stato forte e schiacciante l’individuo; dall’altra quella proto-liberale che si appoggia sulla sua forte concezione individualistica. Nell’interpretazione totalitaria la coscienza è una tabula rasa plasmabile dal potere ma è anche, al contempo, qualcosa di illusorio, una forza che è incapace di condurre alla verità. La coscienza, in questa interpretazione, è totalmente colonizzata da quella collettiva e dal potere che esprime. Al contrario, nell’interpretazione proto-liberale, la coscienza risulta essere una realtà autonoma e irriducibile al comando politico, ergendosi dunque a spazio di resistenza, intoccabile dal potere che riesce a limitare, essendone fuori per definizione. Emerge però una terza lettura grazie ad una diversa considerazione del rapporto fra coscienza e religione che conduce a quella che, in via provvisoria, Frilli ha definito come comunitaria. Essa, per farsi largo nel panorama delle altre interpretazioni, deve liberarsi anche delle letture fin troppo meccanicistiche e nominalistiche del pensiero di Hobbes così come del peso preponderante assegnato alla passione della paura della morte violenta come genesi dello Stato e che invece deve essere ricondotta nell’alveo delle altre passioni umane.
Il ruolo della religione
Per comprendere adeguatamente questa impostazione è necessario però avere chiara la posizione di Hobbes sulla religione. Essa è tematizzabile su più livelli. Prima di tutto, in senso antropologico, la religione è ansia per il futuro. Spogliata poi delle sue vesti esteriori, la religione è legge di natura, cioè giustizia e carità. Rispetto alla politica, infine, essa è sempre parte del potere per via delle sue qualità intrinsecamente egemoniche. Il ruolo della religione appare in modo chiaro nel Leviatano. La sua genesi, così come descritta nel cap. XII, risiede proprio nella coscienza individuale e segno evidente è il fatto che «la religione sia solamente nell’uomo» e «non si trova in altre creature viventi» ((T. Hobbes, Leviatano, trad. it. G. Micheli, BUR, Milano, p. 110.)) in quanto, osservando il susseguirsi degli eventi, egli desidera conoscere le cause di ciò che accade ed è tentato di dare una spiegazione dell’inizio delle cose. Dal punto di vista del rapporto con la politica, Hobbes spiega come ogni potere politico aspiri ad avere una sua religione che lo aiuti a rafforzare i patti tra i cittadini e il potere coercitivo. Il cristianesimo però costituisce un’eccezione: solo esso infatti, tra tutte le altre religioni, non ha avuto una genesi politica, ma anzi si è immediatamente posto contro il potere politico che l’ha osteggiato fino a che non è divenuta religione di stato con Costantino. Necessaria riforma del potere è l’imprescindibile riforma della religione che per Hobbes significa ritorno del cristianesimo delle origini, prima cioè che fosse contaminato dal potere politico. Solo così esso potrà riassumere la sua vera natura, che consiste nel fornire consigli e non comandi e nell’ indirizzare l’uomo verso la saggezza e una vita ben vissuta.
Concetto e conseguenze del ruolo della coscienza
In questo quadro, il concetto di coscienza, contenuto nel capitolo VII del Leviatano, è definito come qualcosa di fallibile, in contrapposizione con quanto voleva Lutero il quale rintracciava proprio nella coscienza individuale di ciascuno lo spazio dove intercettare la verità, connotandola così con un forte senso morale. La coscienza per Hobbes è aperta alle esteriorità sociali e dunque alle influenze del mondo esterno. Ma allo stesso tempo essa rappresenta la possibilità di conoscere qualcosa insieme ad altri (secondo l’etimo della parola, ovvero co-scientia, calco latino che indica il sapere insieme ad altri). In altre parole, nella lettura che Frilli ha dato di Hobbes, la coscienza risulta essere attraversata da una duplicità di fondo: da una parte essa è il frutto dell’educazione e della nostra formazione, dall’altra si fonde in quella coscienza pubblica rappresentata dalle leggi. Lo Stato di conseguenza consiste nel giusto dosaggio di questa miscela perché se è vero che il potere produce il consenso è anche vero che il consenso è a fondamento del potere. Da questo punto di vista, nella conversazione finale, è stata rilevata l’assenza contemporanea di un racconto che serva come collante di una comunità: in termini gramsciani, che eserciti l’egemonia. Chiusa l’epoca del nazionalismo, di cui ritornano spesso le versioni più deleterie, svalutata la democrazia, di cui si avverte il malfunzionamento, finito il socialismo con tutte le sue storture. Riprendere la lettura di Hobbes declinandolo in senso comunitario significa così recuperare quelle determinanti, il ruolo dell’educazione e quello della religione in primis, che sole permettono ad una società di essere tale e allo Stato di esercitare la sua funzione.