Il pensiero che dimentica la necessità del pensare

Nell’articolo “I sentieri e la palude” abbiamo cercato di mettere in evidenza che una questione dell’essere, che non sia al tempo stesso una questione della coscienza, conduce ad aporie inevitabili. Quando un’aporia non viene vista, e quindi viene subìta dal pensante, si producono pensieri e visioni del mondo che portano inevitabilmente a posizioni che non solo risultano contraddittorie, ma riverberano negativamente nell’esperienza vissuta degli uomini.

Nell’articolo “La macchinazione e l’inganno dell’esperienza vissuta” viene posto in evidenza come il pensiero moderno, cadendo nell’oggettivazione dell’essere nell’ente, giunga a ciò che Heidegger chiama “macchinazione”, che è il pensiero dominante l’attualità. Anche la coscienza cade in questa oggettivazione, con la conseguenza che le filosofie della coscienza che risultano da questa impostazione immettono anche la coscienza stessa nella macchinazione, riducendola a mera funzione coscienziale, e dunque a semplice presenza.

Obiettivo di questo articolo è mostrare, con l’ausilio del testo dei Quaderni Neri 1938/1939, che la critica di Heidegger alle filosofie della coscienza non riguarda l’Idealismo tedesco. Nei confronti di questa filosofia, entro la quale intendiamo quel movimento di pensiero che va da Kant a Hegel, da un lato Heidegger prende le distanze, da un altro lato ne cattura un valore che non è, come quello del pensiero moderno, oggettivistico, e quindi nel caso specifico “coscienzialistico”, ma metafisico, nel senso heideggeriano della storia dell’essere.

Il pensiero di Heidegger è una radicale negazione dell’interpretazione della nozione di coscienza intesa come funzione dell’“ente pensante”, e quindi di ogni forma di riduzione della coscienza a “fatto di coscienza”. Ciò che Heidegger nega e contesta è il valore gnoseologico e funzionalistico che viene dato alla nozione di coscienza dalla modernità, e le conseguenze che secondo lui ne derivano. Per questa ragione non usa la parola “coscienza”, per evitare la caduta nel pensiero rappresentazionale, e nella conseguente pianificazione oggettivante. Il pensiero moderno si è appropriato della parola “coscienza”, e la assume univocamente come relazione soggetto-oggetto, non accorgendosi che in tal modo cade in aporie inevitabili. Non è però ciò che deve essere pensato nella parola “coscienza” che è fuorviante, ma lo è ciò che in essa la modernità pensa, e, con lei, tutta la cultura dominante. Quindi la rinuncia alla parola “coscienza”, possiamo dire, è derivata da esigenze “espositive” e “comunicative”, non concettuali. C’è un passaggio molto netto nei Quaderni Neri 1938/39 che conferma quanto sosteniamo:

«Una cosa è: autocoscienza in quanto sapere che domanda dell’essenza conservata e della sua storia. Un’altra cosa è: autocoscienza in quanto rifiuto di qualsiasi dignità di domanda in base alla presunzione della completa sicurezza e del proprio ruolo determinante in ogni pianificazione e presa di posizione» (Heidegger 2016, 509)

La parola coscienza ha perso la forza di dire la soggettività autentica, e per questo Heidegger la sostituisce con la parola esser-ci. Cosa deve essere mantenuto della sfera concettuale della “coscienza” nella parola esser-ci? Deve essere mantenuto ciò che Kant pensò nella soggettività trascendentale. Leggiamo ancora nei Quaderni Neri 1938/1939:

«Perché ancora Kant? (…) Perché solo tramite Kant è preparata la possibilità da tempo non ancora esaurita di tener lontano la comprensione della soggettività del soggetto dalle confusioni grossolane delle interpretazioni psicologiche e biologiche – vale a dire di riportare indietro l’antropologia a un piano metafisico, su cui solo il confronto con essa si rende arduo e diventa una lotta» (Heidegger 2016, 45)

Heidegger sta pensando alla soggettività trascendentale, e dunque al passo della Critica della ragion pura, noto come deduzione trascendentale, di cui dice:

«non è questo un passo essenziale tramite cui il soggetto in quanto tale viene posto in modo più profondo, e dunque più minaccioso e dunque più pressante?» (Heidegger 2016, 44)

Se lo chiede, ma in realtà lo afferma.  Proprio da questo nucleo speculativo, come è noto, muove un pensiero, che storiograficamente è chiamato Idealismo tedesco, ma che più correttamente va detto “Idealismo dialettico”, a cui Heidegger si riferisce con queste parole:

«Nell’idealismo tedesco furono compiuti movimenti del pensiero che noi, considerandoli semplicemente nel loro insieme e sul fondamento dell’interpretazione moderna dell’ente e della verità, ancora non penetriamo a fondo nella loro unicità conforme alla storia dell’essere. Noi qui dobbiamo attendere pensatori futuri che siano creativamente all’altezza di questo tempestoso assalto tedesco sull’ente nel suo insieme e non restino impantanati nell’interpretazione storiografica» (Heidegger 2016, 40)

Che cosa succede nell’Idealismo dialettico, per cui non si può accomunare questa filosofia alle moderne filosofie della coscienza che riducono il soggetto a semplice presenza, ad oggetto? Così dice Heidegger nei Quaderni Neri:

«Kant, tramite la visione del “trascendentale”, ha concepito la “soggettività” e dunque il riferimento rappresentativo all’oggetto, in maniera tale che adesso il soggetto stesso possa entrare essenzialmente nel movimento dialettico, e precisamente in modo tale che solo questo movimento porti la soggettività a dispiegarsi nella sua assolutezza» (Heidegger 2016, 40)

Il movimento del soggetto all’interno del processo dialettico sottrae il soggetto alla semplice presenza. Il soggetto non è una semplice presenza situata nel mondo, ma è ciò per cui, per usare una felice espressione da Essere e tempo, “ne va del suo essere stesso”. Il soggetto non è un ente fra gli enti ma è quell’ente il cui essere è apertura all’essere, e quindi perenne messa in crisi della chiusura nell’ente che caratterizza la metafisica occidentale. Occorre notare, e questo Heidegger sembra non vederlo, che l’assolutezza del processo dialettico impone al soggetto stesso di negare la propria alterità all’assoluto. Ma allora l’assolutezza in cui si dispiega la soggettività non può essere del soggetto, non può essere appropriabile dalla soggettività. Il soggetto che si dispiega nella sua assolutezza non è il soggetto che si contrappone all’oggetto, come altro oggetto, ma è l’identità originaria di soggetto-oggetto di cui i termini sono solo l’apparenza.  Qui la distanza fra Heidegger e l’idealismo si amplifica. Tuttavia ciò che si può escludere è che per Heidegger l’idealismo dialettico cada nella palude della modernità, che la dialettica si impantani nell’oggettivazione naturalistica o psicologistica.

Il confronto diretto fra Heidegger e la dialettica merita attenzione. Sono molti gli ordini concettuali su cui si dispiega il confronto. Nei QN 1938/1939 Heidegger muove dalla considerazione essenziale per la dialettica del superamento degli opposti. Qui Heidegger distingue una “genuina” dialettica, che è quella inaugurata da Kant con la deduzione trascendentale, e una dialettica che porta con sé l’incombenza risolutiva del sistema. La presenza del sistema, come idea e come metodo, corrompe la dialettica rendendola un pensiero che, costringendo al superamento degli opposti, si vincola agli opposti mentendosi sempre a loro livello. La dialettica costruisce “allucinazioni” di superamento ma resta immobile.    Sentiamo le parole di Heidegger a proposito:

«Il superamento dialettico ha in sé il tratto insidioso di tornare a costringere indietro negli opposti e nel loro saldo mantenimento (di questo vive la dialettica) e di non chiedere appunto se invece ciò che sostiene un opposto non sia di essenza affatto diversa, se non sia l’origine della contrapposizione in quanto tale nel rappresentare?»(Heidegger 2016, 39)

Se pensiamo alla contrapposizione di soggetto-oggetto ciò che Heidegger sostiene è che il superamento che si ottiene si mantiene saldo sull’opposizione, perché il risultato è dato dall’unificazione che opera il rappresentare e che mantiene la differenza fra l’ente rappresentato e la verità dell’ente. Ma ciò non è la genuina dialettica, per la quale gli opposti sono inevitabili, ma non necessari. Inevitabili vuol dire che si vive in essi, ma non di essi. Il superamento non si basa sulla proiezione di una unità sintetica che nella sua unificazione conserva la dualità, ma nel toglimento dell’opposizione in favore di ciò che si trova prima di essa e che ne condiziona la possibilità. E si tratta di unità, non unificazione. A tal proposito rimandiamo al fondamentale articolo di Aldo Stella apparso su Ritiri Filosofici col titolo “Verità come unificazione nella Fenomenologia dello spirito”. Stella mostra con chiarezza un’ambiguità strutturale nel pensiero di Hegel fra unità e unificazione, che Heidegger a nostro avviso intercetta: da un lato Heidegger comprende l’autentica e genuina dialettica, e la vede principalmente in Kant e in Schelling, ma dall’altro, essendo storicamente ancora troppo vicino all’epoca della dialettica hegeliana, non riesce a distinguere nelle ambiguità hegeliane il senso autentico. Nel caso specifico dell’opposizione soggetto-oggetto la genuina dialettica supera il dualismo nella nozione di “atto”, mentre una dialettica legata all’ente o si irrigidisce in un monismo assoluto, o addirittura si sfalda nella considerazione storiografica dell’uomo, cioè nel volgare storicismo.

C’è anche un altro aspetto che ci interessa porre in luce che Heidegger vede e segnala pensando alla dialettica. Il problema fondamentale della dialettica, e in senso più ampio della filosofia stessa, è che non viene mai neppure presa in considerazione dal pensiero moderno dominante, perché in primo luogo esso non può più comprenderla. Dice Heidegger:

«Giunge ora sull’epoca dell’idealismo tedesco solo una grossolana condanna. Ciò, per qualche tempo, avrà come conseguenza che un superamento speculativo della “dialettica” in base alle sue forme più grandi e necessarie non costituisce alcuna necessarietà; e questo significa: l’essenza della modernità si irrigidisce nella lontananza da tale necessità» (Heidegger 2016, 40-41)

Quel “per qualche tempo” è oggi. Cosa vuol dire che c’è un tempo nel quale le forme speculative che l’idealismo pone come necessarie non sono considerate come necessità? Vuol dire che la stessa “necessità”, cioè la condizione del pensare, viene tolta dall’attenzione del pensante. Dall’attenzione nel senso che di essa, della necessità, non ci si interessa in alcun modo. In ambito conoscitivo cosa significa? Che della verità del conoscere non ci si interessa più. Ancora, vuol dire che per quanto i dialettici pongano il pensiero dominante di fronte alle aporie logiche, alle contraddizioni evidenti, alle assurdità a volte quasi risibili che i suoi presupposti implicano, questi, il pensiero dominante, cioè il riduzionismo, la macchinazione, il pensiero tecnico o come si voglia chiamarlo, nemmeno si accorge delle obiezioni, non vede e non può vedere contraddizioni perché è strutturato su di esse.

Lo scenario cambia radicalmente: ora non si tratta più della questione dell’essere o della questione della coscienza, qui la questione che urge è un’altra: che ne è di un pensiero che elimina, oblia, si nasconde la forma della necessità nel pensare? Un pensare senza orientamento logico, un deambulare nel buio, questa sembra la forma del pensiero che toglie la necessità dalla sua struttura. Heidegger esprime l’effetto della mancanza della necessità nel pensare tecnico come assenza di domande. Ogni dire, ogni dire filosofico soprattutto, è sempre la risposta ad una domanda implicita. Se il pensare non è mosso dal domandare, che è la forma originaria del pensare stesso, ogni dire perde di senso. Se non si comprende strutturalmente la domanda, non si può comprendere né il senso né il valore di un qualsiasi discorso. Dunque il pensiero dominante non comprende perché togliendo la necessità dal proprio orizzonte di senso ha esaurito la forza del domandare.

Riferimenti bibliografici

  • Heidegger, Martin. 2007. Contributi alla filosofia (Dall’evento). Milano: Adelphi
  • Heidegger, Martin. 2016. Quaderni Neri, Riflessioni VII-XI 1938/1939. Milano: Bompiani

Foto di Giuseppe Peletti su Unsplash

Nato a Bologna, dove ha studiato e si è laureato in filosofia teoretica. Attualmente è ricercatore presso l’Istituto di ricerche filosofiche DiaLogos e redattore della rivista Cum-Scientia.

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