La Filosofia come continua ricerca del fondamento

Come alcuni ebbero a notare, la filosofia nasce grande. Quasi subito emerge il nocciolo problematico che resterà il cuore pulsante di tutta la ricerca a venire: l’identità essere e pensiero. Le parole con cui questo “cuore teoretico” appare nella coscienza greca sono famose, le dice Parmenide. «È infatti la stessa cosa pensare ed essere». Questa identità, che Parmenide chiama semplicemente essere, è la definizione nominale della verità; ed è ciò che in altri sistemi di riferimenti troviamo con parole come “assoluto”, “fondamento”, “Dio”.

Poco dopo Parmenide dice anche: «Composero infatti i mortali le loro opinioni nel nominare due forme, senza credere necessaria la loro unità». Dopo aver nominato la verità, indicandola nell’identità di essere e pensiero, Parmenide introduce la negazione stessa della verità, la dòxa, l’opinione che i mortali si formano. L’opinione dei mortali è la negazione della verità in quanto non vede la necessità dell’unità di pensiero ed essere, ma crede piuttosto nella loro separatezza, e vive in questa opinione separante l’identità. In queste due frasi fondamentali di Parmenide si concentra tutto il senso della storia della filosofia, fino ad oggi. Il non intendere l’identità essere-pensiero, che Parmenide invece garantisce come verità assoluta, anzi, la Dea stessa garantisce, conduce il mortale, cioè l’uomo, a pensare essere e pensiero separati, e considerare come compito fondamentale per se stesso una loro unificazione attraverso l’istituzione di una relazione. Ma il tema della relazione fra essere e pensiero, nel momento stesso in cui è posto nei termini suddetti, cioè quando viene inteso appunto come “relazione”, è già avviato a conclusioni necessariamente aporetiche. Infatti, quando si dice relazione, si dice separazione e unificazione. Se pensiero ed essere sono in relazione, e se questa relazione è fondamentale per entrambi, ché altrimenti se fosse estrinseca il problema si sposterebbe sul fondamento esterno della relazione, ovvero su un qualcosa che fonda la relazione essere e pensiero senza essere né essere né pensiero – se appunto la relazione di cui si tratta è essenziale, diventa impossibile pensare i termini separati. Se essere e pensiero fossero separabili, se ci fosse anche solo un punto in cui sono separati, non lo potremmo mai sapere: è il pensiero che sa, come potrebbe mai sapere l’essere laddove esso è separato dal pensiero stesso? È il pensiero che sa: ma se il pensiero è separato dall’essere vuol dire che non è, e quindi un non essere non sa. E ugualmente, se ci fosse un essere distaccato dal pensare, questo essere stesso non saprebbe di essere, e quindi non sarebbe per alcunché, tanto meno per se stesso. 

Identità come ipseità
La relazione pensiero-essere “non sta”. Non ha alcun valore epistemico. Non ha senso parlare di relazione fra essere e pensiero se questo implica anche solo un punto di distacco fra i due. Si tratterà di intendere piuttosto essere e pensiero come identità. Ma anche sul termine “identità” dobbiamo riflettere: se esso volesse dire unione, sintesi, composizione, allora non usciremmo dalla relazione, resterebbe sempre una molteplicità da unificare, avremmo non unità ma unificazione. Dobbiamo allora intendere l’identità come ipseità, e cioè come unità assoluta, e dunque come l’assoluto stesso. L’essere di Parmenide è l’assoluto, e come tale è il fondamento. 

Il senso del fondamento
Intendere l’assoluto come fondamento si presta ad un pericoloso fraintendimento consistente nel pensare la verità come fondamento determinato. Infatti, questo passaggio dall’identità come fondamento al fondamento determinato, tanto è spontaneo quanto alterante: imponendo all’identità di essere determinata si introduce una relazione nell’identità, la relazione del fondamento con il fondato, la fondazione, e si sfalda quell’identità da cui mosse il pensiero. In qualunque modo si pensi la relazione tra fondamento e fondato, nel nesso di fondazione si costituisce una reciproca necessità fra i due termini che induce a pensare ad un fondamento che per essere tale abbia bisogno del fondato, e le posizioni di fondamento e fondato si invertono costantemente una nell’altra. Siamo oltre un circolo vizioso, siamo nella più luminosa formulazione della contraddizione. La madre di tutte le contraddizioni. Non vi può essere reciprocità di funzione fra i termini, il fondamento fonda il fondato senza che di tale fondazione vi sia alcuna necessità per il fondamento. Per il fondato il fondamento è necessario, ma per il fondamento il fondare non ha alcun vincolo di necessità.

Assoluto e relativo
Ciò che abbiamo visto costituisce la linea logica che attraversa le questioni che la cultura filosofica propone da sempre nei termini di relazione fra l’assoluto e il relativo, o, in altri sistemi di riferimento, fra l’infinito e il finito, o fra Dio e mondo (il creato). Il nocciolo problematico è questo: se restiamo aderenti al rigore dei concetti come emergono e si impongono, tutte le relazioni poste conducono ad aporie, ripetendo analogicamente l’aporia grande della relazione di fondazione che abbiamo descritto. In particolare, se si pensa alla coppia assoluto-relativo, ci si rende conto che ciò che costituisce problema non è l’assoluto, bensì il relativo: esso, privo di ragione in sé, non ha e tuttavia richiede fondamento, ma il fondamento rettamente inteso impedisce una relazione fra fondato e fondamento. Lo stesso dicasi della coppia unità-molteplicità. Dove è il senso della molteplicità? Qual è la sua ragion d’essere? Se sosteniamo che l’uno è il fondamento della molteplicità, dobbiamo chiederci in che modo e perché l’uno abbia prodotto il molteplice. Di fronte a tali domande le certezze del senso comune si sciolgono, e la verità, che si impone nonostante il senso comune, trova resistenza presso i filosofi, che, non riuscendo ad accettare l’essenziale indifferenza del fondamento verso il fondato, e quindi trovando di fronte a sé l’oceanico non senso del finito, e quindi dell’esistenza, vanno in cerca di qualcosa dentro il fondamento che possa giustificare il fondato: cercano qualcosa come una relazione nell’assoluto, o una molteplicità nell’unità. Per salvare il finito dalla sua inconsistenza e insignificanza, si tradisce l’infinito trovando in esso una ragione del finito, ma non c’è nulla né in cielo né in terra che possa tradurre l’infinito nel finito senza con ciò tradirlo, e infine perderlo. Che dentro l’assoluto vibri un movimento che generi poi in modo razionale la molteplicità determinata delle cose è per noi impossibile, perché contraddittorio.

La cattiva infinità
La critica più nota, ma anche più penetrante, rispetto alla posizione che abbiamo fin qui sostenuto, consiste nel rilevare che in tal modo emergerebbe un assoluto assimilabile alla famosa «notte in cui tutte le vacche sono nere», secondo la formulazione hegeliana contro Schelling. Questa notte è effettivamente il modo in cui la coscienza finita vede l’assoluto, dalla propria parte, dal proprio punto di vista, se tenta di eliminare ogni determinazione, quindi ogni relazione. Ma è solo la rappresentazione che riesce a formulare, e non il concetto, che resta dietro alla rappresentazione come sua stessa possibilità. Quando una coscienza tenta di determinare l’assoluto si ritrova fra le mani una rappresentazione. Vedere l’assoluto come notte è il limite dell’intelletto stesso. Ma vedere ciò come limite è l’essere oltre della coscienza stessa, che in tanto determina e limita, in quanto può trascendere ciò che in tal modo determina. E così la coscienza, che è di per se stessa l’atto di oltrepassare l’intelletto, sa che l’assoluto non è rappresentabile. 

Pensare l’identità
Possiamo dire che, proprio su questo nucleo concettuale, molte grandi filosofie incontrano il proprio limite nell’illusione: non accettando l’innegabilità dell’identità, e cercando all’infinito di risolvere la relazione, finiscono per muoversi in orizzontale con una memoria limitata, ché nel tempo le filosofie si ripetono uguali credendo di essere nuove, escogitando di volta in volta dei tentativi di uscita dall’aporia ma sempre ricadendovi; ma nello stesso tempo, all’interno di queste stesse filosofie, vive idealmente una sola filosofia, mai determinata in sé, mai contenuta in una singola esposizione, che riconosce il proprio limite nell’impensabilità anipotetica (ovvero quel principio che ha il carattere assolutamente vero) dell’assoluto. Questa filosofia non intende porsi nell’agone positivista della proposta concettuale, né si lascia sedurre dalla possibilità di agire nel mondo: essa si limita a porre in evidenza le aporie che di volta in volta le buone intenzioni dei filosofi, che cercano di trovare il nucleo fondativo che leghi, per l’amor del cielo, ma in realtà per amor della terra, il finito all’infinito, incontrano nel loro esporsi, per sofisticato che sia. Ma nello stesso tempo, configurandosi come intenzione di verità, l’autentica filosofia frustra ogni tentazione di scetticismo o di misologia, riproponendo ogni volta l’innegabilità dell’assoluto, perentoriamente, costringendo così a ripensare sempre di nuovo l’identità assoluta.

Il caso Heidegger
Un caso esemplare di questa caduta per amore della terra si ha in Heidegger, il filosofo che più di tutti dichiara la sua intenzione di verità dell’identità (che per lui è l’essere che non è l’ente, che è la ragione, fondamento abissale, dell’ente) ma poi annuncia, in varie occasioni e secondo molteplici direttrici concettuali, il rapporto essenziale fra l’essere e l’uomo, il fondamento e il fondato. Fra le varie esplicitazioni di questo nesso creduto necessario, ci limitiamo ad una, che contiene in sé un’auto–obiezione che facciamo nostra e un tentativo di risposta a nostro avviso non soddisfacente:

«L’essere ha bisogno dell’uomo per essere essenzialmente e l’uomo appartiene all’Essere per compiere la sua estrema determinazione in quanto esser-ci. Ma allora l’Essere non viene a dipendere da un altro, se tale aver-bisogno costituisce addirittura la sua essenza e non ne è solo una conseguenza essenziale? Ma come possiamo parlare di di-pendenza se questo aver-bisogno trasforma appunto ciò di cui ha bisogno nel suo fondamento e soltanto così lo costringe a diventare se stesso. E, viceversa, come può l’uomo sottomettere l’Essere se deve appunto lasciare la sua perdizione nell’ente per diventare colui che è fatto proprio dall’Essere e che gli appartiene? Questo rimbalzo di aver bisogno e appartenere costituisce l’Essere come evento, e il primo compito speculativo che ci spetta è quello di elevare l’oscillazione di questo rimbalzo nella semplicità del sapere e di fondarlo nella sua verità»

In questo passo fondamentale, Heidegger nemmeno nomina la relazione: ne è totalmente dominato.

Riferimenti bibliografici

  • Parmenide, Sulla Natura.
  • Heidegger, Martin. 2007. Contributi alla filosofia (Dall’evento). Milano: Adelphi
  • Stella, Aldo. 2023, Riflessioni teoretiche. Perugia: Morlacchi Editore

Nato a Bologna, dove ha studiato e si è laureato in filosofia teoretica. Attualmente è ricercatore presso l’Istituto di ricerche filosofiche DiaLogos e redattore della rivista Cum-Scientia.

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