Logos e follia. La patologia psichica a partire da Michel Foucault

Fare epistemologia alla maniera di Foucault

«Per parte mia, mi sembrava di essere come un capodoglio che salta sulla superficie dell’acqua, lasciandovi una piccola traccia incerta e provvisoria di schiuma, e lascia credere – fa credere, o forse effettivamente lui stesso crede – che al di sotto, là dove non lo si vede più, là dove non è più scorto e controllato da nessuno, segue una traiettoria più profonda, più coerente, più ragionata» (Foucault 1998, 13-14).

Da questa dichiarazione tratta dal corso Bisogna difendere la società (Foucault 1998), possiamo rilevare un’icastica espressione della personalissima postura metodologica adottata da Michel Foucault nel suo procedere nell’ampio dominio delle conoscenze, dei discorsi. Ebbene, aderendo alla similitudine zoologica, potremmo dire che la vasta distesa acquatica nella quale il grosso cetaceo si muove è la regione delle formazioni discorsive, dalle dimensioni oceaniche. L’immagine dell’acqua, inoltre, ben riflette la dimensione fluttuante che intride gli enunciati discorsivi, gli stessi che, ricorrendo a una più celebre metafora foucaultiana, compongono l’archivio. A tal proposito, afferma il filosofo: «chiamerei archivio, non la totalità dei testi che sono stati conservati da una civiltà, né l’insieme delle tracce che si sarebbero salvate dalla sua rovina, bensì il gioco delle regole che determinano in una cultura la comparsa e la scomparsa degli enunciati, la persistenza o la cancellazione, la loro esistenza paradossale di eventi e di cose» (Foucault 1971, 32-33). L’archivio è dunque il dominio dispiegato nell’orizzonte dell’accadere culturale dal gioco di norme che regolano l’architettura discorsiva, l’articolarsi storico degli enunciati intesi come eventi. Foucault, invero, si propone, come un archeologo, di compiere uno scavo nell’esteso ambito della cultura, un vero e proprio lavoro archivistico volto a illustrare le condizioni d’esistenza degli eventi discorsivi che la costituiscono, chiarendo di questi il reciproco invischiamento e le pratiche e i comportamenti che li coinvolgono.

Sulla descrizione archeologica
In due saggi redatti in risposta alle sollecitazioni teoriche postegli dal Cercle d’épistémologie, tradotti in italiano e raccolti nel volume Due risposte sulla epistemologia. Archeologia delle scienze e critica della ragione storica, l’autore si riferisce alle tre grandi opere fino ad allora scritte – Nascita della clinica, Storia della follia, Le parole e le cose – come a delle «sperimentazioni descrittive» (Foucault 1971, 33), ove la descrizione ha come proprio oggetto il discorso. Essa si differenzia sia dall’analisi della lingua sia da quella del pensiero, l’una considerante gli enunciati nella loro struttura linguistica, l’altra nell’intenzionalità, anche nascosta e allegorica, del soggetto parlante. Tale descrizione è propriamente detta archeologia: si tratta di un logos condotto intorno all’archivio, cioè al dominio del discorso (che è un insieme finito di sequenze linguistiche), pur restando essa stessa discorso.

L’importanza della storia nell’analisi dei discorsi
L’obiettivo della descrizione del discorso è di «cogliere l’enunciato nella ristrettezza e nella singolarità del suo evento; di determinare le condizioni della sua esistenza, di stabilirne le correlazioni con gli altri enunciati con i quali può essere legato, di mostrare quali altre forme di enunciazione esso esclude» (Foucault 1971, 29), cercando di comprendere perché è comparso proprio un dato enunciato e non un altro. L’enunciato viene così considerato nella sua «irruzione storica» (Foucault 1971, 30), nella sua emergenza nel campo degli eventi discorsivi, i quali proprio in quanto eventi, hanno un carattere storico che, una volta portato alla luce, appare agli occhi dell’autore eccedere le mere caratteristiche linguistiche o la pregnanza semantica. Inoltre, in qualità di eventi, essi intessono relazioni, non sempre immediatamente visibili, con altri eventi, i quali possono essere di svariato genere (politico, tecnico, pratico, economico, sociale), anche di natura non necessariamente discorsiva. Queste relazioni sarebbero extra-linguistiche e metterebbero in rilievo una mappatura di punti dislocati, di dispersione temporale e di discontinuità puntuale, «una popolazione di eventi dispersi» (Foucault 1971, 22). Dietro questo sovraffollarsi di eventi enunciativi che irrompono, avvisa Foucault, non bisogna trovare alcun senso segreto del discorso, dal momento che l’unico inconscio che è possibile portare alla luce non è quello di una qualche metafisica soggettività parlante, bensì della mera cosa detta (Foucault 1971, 32). Tale emersione avviene solo attraverso lo studio delle modalità di coesistenza delle formule enunciative, del dominio della loro consecutio temporum, della loro reciproca utilizzazione e co-determinazione, mutua o parallela modificazione.

L’attenzione al carattere storico delle formazioni discorsive è messa in risalto da Foucault anche nella prima lezione da lui tenuta alla cattedra di Storia dei sistemi di pensiero presso il Collège de France, il cui testo è stato pubblicato col titolo: L’ordine del discorso (Foucault 1972, 2004; 3-40). Qui è evidente che il filosofo di Poitiers vuole scompaginare la linea continua ed omogenea della storia delle idee e rompere la presunta consequenzialità della storia delle scienze, attraverso un’analisi dei discorsi intesi come serie regolari e distinte di eventi. Per fare ciò considera due prospettive differenti di delimitazione, l’una dischiudente un insieme critico e l’altra un insieme genealogico. Quello critico racchiude le analisi condotte attraverso il principio di rovesciamento: forme di esclusione, limitazione, costrizione, come può essere l’analisi relativa alla partizione follia-ragione. Tale insieme mette in risalto i processi di rarefazione, raggruppamento, unificazione dei discorsi. L’insieme genealogico, invece, si sofferma sulle modalità di formazione, le norme specifiche, le condizioni di apparizione, crescita, variazione dei discorsi.

La peculiarità delle scienze umane
Il discorso scientifico risulta essere una delle più specifiche modalità di regolazione dell’affastellarsi di enunciati ed eventi interrelati prima enucleato. La scienza è sicuramente un campo ove vi sono numerose relazioni con un alto grado di intelligibilità, capaci di restituire un certo livello di formalizzazione e una dimensione legislativa. Tuttavia, per il filosofo francese, questo carattere formale elude costitutivamente la possibilità di cogliere nell’evento enunciativo la sua dimensione temporale, storica: in breve, le condizioni d’esistenza. Queste ultime sono al contrario più evidenti in discorsi poco formalizzati. Nondimeno, soprattutto in quest’ultimo tipo di discorsi, è facile cedere a delle unità concettuali sintetiche, a delle nozioni positive volte ad appianare qualsiasi discontinuità nel dominio variegato degli enunciati, e riconducibili alla nozione di “soggetto”, declinato secondo diverse categorie antropologiche (autore del testo, individuo parlante, etc.). Foucault sostiene che, per evitare di lasciarsi coinvolgere dalla suggestione di tali nozioni, sia opportuno considerare «l’insieme degli enunciati attraverso cui queste categorie si sono costituite – l’insieme degli enunciati che hanno scelto come “oggetto” il soggetto del discorso, (il loro proprio soggetto) e ne hanno intrapreso il dispiegamento come campo di conoscenze» (Foucault 1971, 34), ossia le scienze dell’uomo. La specificità delle scienze umane è proprio quella di essere formate da rapporti tra enunciati e soggetto enunciante laddove quest’ultimo, al contempo, viene tematizzato come oggetto, ossia contenuto tematico di tali relazioni.

L’archeologo Foucault descrive i rapporti di coesistenza tra gli enunciati, ma senza assecondare unità concettuali mutuate dalla tradizione. La particolarità o la permanenza dell’oggetto, il tipo di enunciazione discorsiva, la coerenza e permanenza di qualsivoglia concetto, l’identità di opinione, in breve, ciò che denoterebbe la sua unità non è garanzia della possibilità di creare un discorso descrittivo e costante. È opportuno chiarire dunque con quale dispositivo concettuale abbiamo a che fare quando parliamo di “oggetto”.

Un oggetto epistemico particolare, l’oggetto “follia”
Secondo Foucault l’oggetto, soprattutto per quanto riguarda le scienze umane, non assicura l’unità dell’intero discorso o l’esistenza di una dimensione di obiettività. Le relazioni di coesistenza tra enunciati che si riferiscono a uno stesso oggetto non restituiscono, solo per questo reciproco riferimento, una coerenza descrittiva. Ciò è rilevato poiché, fa notare Foucault, è il nesso epistemologico tradizionale a dover essere ribaltato: l’oggetto non è un ente astratto a partire dal quale si può stabilire una serie di enunciati, bensì è questa serie di formulazioni a costituire l’oggetto stesso (cfr. Foucault 1971, 36). Per comprendere il suddetto ribaltamento, è emblematico l’esempio dell’oggetto “follia”, la quale appunto non è un vero e proprio oggetto (né astratto né concreto, né essenzialistico né naturale), bensì un insieme sparpagliato di concetti (oggetti, referenti di enunciati) che si riferiscono ad essa, che sono sistematizzati dalla follia in quanto legge partitiva, ossia in quanto «referenziale», per riportare il termine che Foucault oppone a «referente» (oggetto). Lo stesso autore scrive che l’«insieme di enunciati che concernono la follia, e per la verità la costituiscono, non si riconduce a un solo oggetto» (Foucault 1971, 37), tant’è che « l’oggetto che viene posto come loro correlato dagli enunciati medici del XVII secolo o del XVIII secolo, non è identico all’oggetto che si configura attraverso le sentenze giuridiche o le misure poliziesche» ( Foucault 1971, ibidem).

Non è quindi la malattia mentale intesa come entità oggettuale ad unificare il discorso psicopatologico o psichiatrico, che invece è formato dall’insieme degli enunciati disparati espressi nel corso della storia, in epoche differenti, e organizzati, tenuti insieme dal dispositivo normativo “follia”. La follia è dunque un gioco di regole, un dispositivo che permette di individuare la moltitudine di enunciati (appartenenti ad ordini del discorso differenti e riconducibili ad altrettanto diversi registri), che esprime l’intrinseca non auto-coincidenza dell’oggetto, il quale presuppone inevitabilmente uno scarto per sussistere nelle sue molteplici forme. Questa non-identità concerne non solo i diversi oggetti rinvenibili sotto il comune gioco regolativo del concetto di follia, ma anche i mutamenti di tali oggetti enunciati, dovuti alla loro ineludibile esposizione al tempo della storia, la quale apporta le cosiddette “rotture epistemologiche” di bachelardiana memoria.

La follia come esperienza
Al di là della “follia”, la follia intesa come esperienza è definita da Foucault come un’espressione del campo empirico della Sragione, opposto a quello della Ragione nella dicotomia ch’egli rileva nell’Europa occidentale nella cosiddetta “età classica”, ossia l’evo che intercorre dal XVII al XVIII secolo, a cavallo tra Renaissance e modernità. La suddetta dicotomia dispiega il suolo su cui si staglia l’intera ricerca da Foucault condotta in Storia della follia, la sua tesi di dottorato in filosofia, nella quale ha tracciato, nella fattispecie, un percorso di analisi della percezione rispetto alla follia. L’autore, infatti, ne ha sempre fatto una questione sociale o, meglio, di topologia della separazione sociale, separazione che è al contempo: emarginazione, riduzione al silenzio e all’oblio delle manifestazioni folli. A corredare la spartizione originaria tra Ragione e Sragione, delimitando la soglia percettiva della follia, si sono innestate delle «tattiche di spartizione» (Foucault 1997, 89), tra le quali la più emblematica e decisiva è stata l’istituzione dell’internamento. Tale operatore di esclusione è sopravvenuto nel XVII secolo, replicando il gesto segregante nei confronti dei lebbrosi rinchiusi nei lebbrosari durante il Medioevo. In epoca medievale, d’altronde, la follia era interpretata come espressione di una dimensione trascendente il mondo umano; mentre nel classicismo, a partire dalla Renaissance, essa fu in un certo senso desacralizzata, rientrando nell’ordine immanente della realtà umana, fino a essere accolta dal Seicento in poi nelle mura ospedaliere, le quali, fino alla fine del XVIII secolo non erano preposte ad alcuna funzione medica.

Foucault ci pone subito in guardia rispetto al fatto che l’istituto internante assolvesse a una funzione esclusivamente giuridico-sociale. Da tale natura deriva, di conseguenza, il carattere morale del giudizio annesso a tale gesto segregante: i folli presero posto nella schiera dei reietti della società (poveri, vagabondi, sifilitici, blasfemi ecc.), sobbarcandosi la percezione di colpevolezza scaturita dalla loro mancata adesione all’etica borghese che, in particolar modo con il progredire dell’industrialismo capitalista, condannava qualsiasi forma di inoperosità e miseria.

La nascita della psicologia e della psichiatria
Tale impasto di follia, miseria e colpa morale sopravvisse a lungo, anche quando vi fu la svolta medicalizzante nell’ambito delle case d’internamento e nella percezione della follia, assieme a un’apparente liberazione. All’approssimarsi della contemporaneità, invero, con i cosiddetti riformatori della psichiatria emergente, tra i cui nomi spiccano quelli di Tuke e Pinel, la violenza e la repressione applicate ai folli furono surrettiziamente catalizzate in forme edulcorate di subordinazione e disciplinamento ben più subdole, come il trattamento morale, coerentemente organizzate entro una sorta di gerarchia (di operatori, sorveglianti, infermieri) al cui vertice era il medico. La psichiatria ha costretto la follia al silenzio, e proprio di tale gesto coercitivo e repressivo Foucault ha voluto compiere l’archeologia, come ha dichiarato in una intervista per «Le Monde», in relazione alla sua Thèse.

Di questa analisi descrittiva, una sorta di ricognizione sintetica è presente in un altro libro dell’autore: Malattia mentale e psicologia, uscito nel 1962, un anno dopo la pubblicazione di Storia della follia. Si tratta di una riedizione, sostanzialmente rielaborata nella seconda parte, di Malattia mentale e personalità (1954). È evidente da entrambi i titoli che l’attenzione di Foucault era rivolta all’obiettivazione che della follia era stata operata dalle pratiche sanitarie, a partire dalla loro più vigorosa affermazione nei decenni precedenti all’avvento del XIX secolo. L’esperienza della follia fu così oggettivata nel concetto di “malattia mentale”, il quale è stato analizzato dall’autore relativamente ai suoi rapporti con la società. Nella prima versione Foucault, all’epoca molto influenzato da Althusser e, in quanto formato anche come psicologo, dalle teorie marxiste di Pavlov, ha prediletto un’interpretazione materialistica dell’eziologia patologica, onde la malattia era intesa come alienazione reale, deterministicamente causata dalle disuguaglianze sociali ed economiche.

Nella seconda redazione, invece, l’autore ha rimodulato la parte speculativa sulla patogenesi psichica. Egli ha pertanto inteso l’alienazione non come causa della malattia mentale, ma come suo effetto, ossia come prodotto di una catena di eventi storici. Questi ultimi, non già predeterminati secondo una filosofia della storia precostituita nel suo movimento dialettico, sono rilevabili mediante una genealogia. Essa è volta a evincere l’a priori storico concreto che ha dato luogo alle eterogenee forme di quella che in questa sede il filosofo ha chiamato “struttura globale” della follia.

L’alienazione sociale che pure scaturisce dalla malattia mentale è così, per il Foucault del ’62, il riflesso di una alienazione più antica, risalente alla trasfigurazione del rapporto dell’uomo con sé stesso, con la sua verità. L’uomo, diventato homo psychologicus (ossia soggetto e oggetto di un sapere autoreferenziale) nella modernità post-rivoluzionaria, ha cominciato a porre sé stesso come metro della verità, a designare la sua verità umana (e dunque storica) come indicatore naturale di razionalità. Egli ha sostanzialmente naturalizzato l’esperienza della Ragione, e con essa, anche il suo contraltare, ossia la Sragione. La follia, esperienza all’interno del più ampio campo empirico della Déraison, è divenuta nell’epoca contemporanea un fenomeno di natura da indagare altrettanto naturalisticamente, anche attraverso una scienza umana come la psicologia, che tuttavia tende ad operare alla maniera delle scienze esatte.

Conclusione. Per un sapere alternativo intorno alla follia
Grazie quindi soprattutto all’esperienza di ricerca ed elaborazione di Storia della follia, il filosofo francese ha spostato l’attenzione, in Malattia mentale e psicologia, da una natura umana (personalità), alienata nella prassi sociale, a una natura umana che prima di essere alienata è originariamente in rapporto alla follia, dalla quale invece si aliena nello sguardo psicologico medicalizzante che la esclude e la definisce “malattia mentale”. Foucault non cela affatto, dunque, la sua tensione polemica nei riguardi della psicologia, dal momento che essa si pone come un sapere a pretesa scientifica e positiva, volto non solo a oggettivare dal punto di vista conoscitivo un’esperienza-limite come quella della follia, ma per giunta utilizzando gli stessi metodi delle scienze dure, come analisi statistiche e tecniche di determinazione fattoriale.

Inoltre, lo slancio positivistico della psicologia contemporanea è manifesto considerando il dato per cui essa ha obliato le sue origini storiche, la sua genesi contraddittoria: essa è invero «alla sua origine, un’analisi dell’anormale, del patologico, del conflittuale, una riflessione sulle contraddizioni dell’uomo con se stesso» (Foucault 2006, 3). Solo in un secondo momento essa ha voluto modificarsi in un «psicologia del normale, di ciò che può consentire l’adattamento, dell’ordinato (…), come per uno sforzo di dominare queste contraddizioni» (Foucault 2006, ibidem). Da questo punto di vista, Foucault sembra affermare la lezione epistemologica ereditata dal maestro Georges Canguilhem riguardo al primato storico dell’errore e dell’ostacolo empirico rispetto alla sistematizzazione logico-positiva, che ne è un effetto (non una causa intemporale).

Pertanto, per il Foucault del ’62 la verità è che «mai la psicologia potrà dire la verità sulla follia, perché è la follia a detenere la verità della psicologia» (Foucault 1997, 86). Il rapporto verità-follia-psicologia è dunque invertito rispetto a come è concepito nell’ambito dell’episteme psicologica. Non solo una verità ontologica della follia non sussiste ed è possibile rilevarne una solo di ordine logico e storico (nell’accezione ereditata da Foucault dalla scuola di epistemologia francese), ma tale verità epistemologica neppure è rilevata dalla coeva scienza psicologica.

Ad ogni modo, lo scopo di questo articolo non è operare un rifiuto delle scienze e tecniche psicologiche, una mera demolizione. Al contrario, partendo dall’importanza poderosamente evocata della metodologia foucaultiana e della storia nell’analisi dei discorsi, esso si propone di mostrare che «non ci sarebbe alcuna psicologia possibile se non attraverso l’analisi delle condizioni di esistenza dell’uomo e attraverso la ripresa di quanto c’è di più umano nell’uomo, vale a dire la sua storia» (Foucault 2006, 19). Come redarguiscono Sandro Chignola e Giuseppe Duso, ereditando l’insegnamento foucaultiano, fare una storia dei concetti non equivale a fare una storia dei termini, perché un termine, a seconda dell’epoca storica in cui viene utilizzato, non si riferisce sempre allo stesso oggetto (Chignola e Duso, 2012). È questo un insegnamento di metodo che permette di sfociare in un lavoro realmente critico, in quanto dispiegante la possibilità di pensare che non siamo obbligati a considerare le formazioni discorsive, i saperi, le scienze come vorrebbe un’ermeneutica positivistica e tradizionalmente affermata, che non opera distinguo tra concetto e parola. Al contrario, non siamo obbligati a pensare la psichiatria, la psicologia (e tutte le scienze umane, fino all’economia) come oggi le pensiamo. Storicizzando i termini, de-terminando gli eventi, ponendo confini ai concetti e ai loro ambiti oggettuali, considerando la loro manifestazione e mutazione temporale, è possibile arrivare a scorgere le potenzialità fattivamente trasformative della filosofia. E una epistemologia che riconosca la psicologia come disciplina storicamente determinata, che ricerchi una verità storica della psicologia (anziché una verità naturale della follia), è la chiave per un rinnovamento all’interno della stessa disciplina psicologica. Lo stesso Foucault ha lasciato trapelare il grande patrimonio, in questa direzione, delle “psicologie del senso” come quella fenomenologico-esistenziale, soprattutto di matrice binswangeriana, e della psicoanalisi freudiana e lacaniana (con le altrettanto grandi riserve che vi ha accordato). Per usare le sue parole icastiche: «la psicologia si salverà soltanto con un ritorno agli Inferi» (Foucault 2006, 43), con una discesa negli abissi profondi della condizione umana.

 

Riferimenti bibliografici

  • Binswanger, Ludwig, & Foucault, Michel. 1993. Sogno ed esistenza. Milano: SE.
  • Canguilhem, Georges. 1998. Il normale e il patologico. (M. Porro, a cura di) Torino: Einaudi.
  • Chignola, Sandro, & Duso, Giuseppe. 2008. Storia dei concetti e filosofia politica, Milano: Franco Angeli.
  • Foucault, Michel. 1954. Maladie mentale et personnalité. Paris : PUF.
  • Foucault, Michel. 1971. Due risposte sulla epistemologia. Archeologia delle scienze e critica della ragione storica. Milano: Lampugnani Nigri.
  • Foucault, Michel. 1972, 2004. L’ordine del discorso e altri interventi. Torino: Einaudi.
  • Foucault, Michel. 1985. La vie l’expérience et la science, in « Revue de Métaphysique et de Morale », CANGUILHEM 1 : 3-14. Paris : PUF. JSTOR : https://www.jstor.org/stable/40902647.
  • Foucault, Michel. 1997. Malattia mentale e psicologia. Milano: Raffaello Cortina.
  • Foucault, Michel. 1998. Bisogna difendere la società. (M. Bertani e A. Fontana, a cura di) Milano: Feltrinelli.
  • Foucault, Michel. 1998, 2011. Storia della follia nell’età classica. (M. Galzigna, a cura di) Milano: RCS Libri.
  • Foucault, Michel. 2004. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974). Milano: Feltrinelli.
  • Foucault, Michel. 2006. Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984. (M. Bertani, P. A. Rovatti, a cura di) Milano: Raffaello Cortina.
  • Macherey, Pierre. 1986. “Aux sources de ‘L’Histoire de la folie’ : une rectification et ses limites”, Critique, « Michel Foucault : du monde entier », 471-472 : 753-774.Paris : Les Éditions de Minuit.

Foto di BRUNO CERVERA su Unsplash

Ragione e rivelazione, due nemiche irriducibili

Ci sono molti modi per affrontare il problema del rapporto tra fede e ragione: la filosofia che accetta la rivelazione oppure la rivelazione che accetta la filosofia; la filosofia che viene posta come pari alla teologia oppure collocata in modo ancillare (e viceversa); infine fede e ragione pensate in collaborazione verso un fine superiore oppure in radicale conflitto.  

Quest’ultimo è stato il modo in cui quel rapporto è stato interpretato da Leo Strauss in una storica quanto drammatica lezione tenuta al seminario teologico di Hartford, Connecticut, l’8 gennaio del 1948.  In quella lectio magistralis, dal titolo Reason and Revelation, Strauss esaminava fede e ragione nell’arena del conflitto, come si espresse esplicitamente; non cercava cioè di riunire gli elementi comuni che potevano garantire un accordo tra le due ma ne evidenziava i loro principi ultimi che le separavano in maniera irriducibile. Se la filosofia pretende di essere la vita nella conoscenza, la rivelazione la vita nell’obbedienza a Dio: ecco allora l’alternativa tra Atene e Gerusalemme, assunte rispettivamente come modello dell’antichità e modello della modernità. Vero che entrambe, filosofia e rivelazione, nascono come critica del mito e sono entrambe anti idolatre. La filosofia intende però questa sua natura come ricerca della verità, la conoscenza cioè come via alla felicità umana. Cosa che costituisce, osserva Strauss, il principio diametralmente opposto a quello biblico, quintessenza di ogni religione rivelata, in cui l’alternativa al mito è l’obbedienza al dio vivente.  Continue Reading

Il Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria

1. Premessa. —  2. Il Logos nel De migratione Abrahami. — 2.1. Le tappe della migrazione. — 2.2. Logos dell’uomo e Logos di Dio. —  2.3. Il Logos umano e la migrazione da esso.— 2.4. Logos di Dio e Logos dell’uomo.— 2.5. La funzione del linguaggio.— 2.6. Logos e vita etica.— 2.7. Il Logos  e Dio.—3. Conclusioni.— Bibliografia.

1. — Premessa.
Questo lavoro intende esaminare il concetto di Logos ((Nel De migratione Abrahami, la parola logos ricorre 82 volte (al riguardo si è consultato P. BORGEN, K. FUGLSETH, R. SKARSTEN, The Philo Index: a complete Greek word Index to the Writings of Philo of Alexandria, Grand Rapids – Leiden, 2000, 208), assumendo i seguenti principali significati: a. parola di Dio (theou logos): la parola di Dio è oggetto di percezione della facoltà della vista che è nell’anima (rispetto alla parola dell’uomo percepita dall’udito), è pura parola non mescolata (diversamente dalla parola umana che è percussione dell’aria a mezzo degli organi della fonazione), è eletta come guida dal Sapiente, è oggetto di derisione di maghi e stregoni, è legge che ordina ciò che si deve e che non si deve fare, è compagna di viaggio di chi segue Dio (vd. ad es.: par. 47, 49, 52, 67, 83, 129, 130, 173, 174); b. Sacra scrittura (ieros logos): nel senso specifico di Torah (vd. ad es.: par. 17, 85); c. Logos, nel senso specifico di Logos di Dio: è la casa dell’intelletto di Dio, è nato prima delle realtà generate, è la barra del timone con cui il Nocchiero dell’Universo dirige tutte le cose, strumento per la creazione del cosmo in un ordine irreprensibile, è rappresentato dal Sommo Sacerdote, sulla cui testa è presente una lamina d’oro recante l’iscrizione “oggetto sacro a Dio” e Idea delle Idee in conformità della quale Dio ha dato forma al Cosmo (vd. ad es.: par. 4, 6, 102); d. legge di natura (logos fyseos): intesa come volontà di Dio, manifestata all’atto della Creazione, legge di Dio (vd. ad es.: par. 105); e. retta ragione (orthos logos): se l’intelletto la segue, l’uomo riesce a vivere in conformità alla legge di natura (vd. ad es.: par. 60, 128); f. parola legislatrice (logos thesmothetes): è la parola legislatrice di Mosè (quale autore della Scrittura), dà alimento e nutrimento a nobili azioni, pensieri e proponimenti (vd. ad es.: par. 24) g. linguaggio interiore nell’uomo (logos endiathetos): è il pensiero, la fonte – che si trova nella mente – da cui esce la corrente (parola), riceve il dono della bene-dizione (eulogia) di Dio (vd. ad es.: par. 70, 71, 73); h. linguaggio proferito, parola (logos prophorikos): è la parola, casa del “padre” (intelletto), cioè è il luogo in cui l’intelletto si manifesta, in cui l’intelletto abita, vive, in cui l’intelletto si mostra mettendo in bell’ordine i pensieri, è la corrente che sgorga dalla fonte dell’intelletto, ha l’intelletto come suggeritore, va a vuoto se il pensiero non è chiaro, è interprete dell’intelletto, diversamente dalla parola di Dio ha natura sensibile, è percussione dell’aria attraverso gli organi della lingua e della bocca, va dalla bocca del parlante all’orecchio di chi ascolta, è inadeguato per parlare di Dio, può essere oggetto di un’arte (oratoria), occorre migrare dal linguaggio,  giacché le parole sono copie delle realtà più vere, e non bisogna correre il rischio che – sedotti dalla copia – si perda di vista l’archetipo, per colui che migra il linguaggio (al pari del pensiero) diventa oggetto di benedizione, è simboleggiato da Aronne che – abile a parlare – sostiene Mosè (impacciato nella parola) nella comunicazione – vd. ad es.: par. 2, 3, 4, 7, 12, 40, 48, 78, 79, 80, 81, 84, 85, 151, 171.))  nel De migratione Abrahami ((Ai fini della lettura ed analisi della problematica del Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria, ci si è avvalsi del testo contenuto in: FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005.)), opera dedicato da Filone di Alessandria alla interpretazione di Genesi 12, 1 – 4 e 12, 6. Prima di passare all’esame dell’argomento, si ritiene opportuno premettere una breve nota di contestualizzazione. Continue Reading

Il sogno in Montaigne

1.— Introduzione.

Michel de Montaigne (1533-1592) tratta del sogno nella parte finale dell’Apologie de Raymond Sebond.
Il capitolo è il risultato di un periodo particolare della vita del filosofo: nel 1568 Montaigne riceve una cospicua eredità che gli permette nel giro di pochi anni di rinunciare alla carica di sindaco a Bordeaux e di intraprendere un ritiro interiore; nel 1569 dà alle stampe la traduzione della Theologia naturalis, sive liber creaturarum (1487) del pensatore catalano Raymond Sebond ((La traduzione di quest’opera fu richiesta dal padre Pierre Eyquem de Montaigne, che morì l’anno prima della pubblicazione (cfr. P. Burke, Montaigne. Un profilo, trad. it. B. Lazzaro, Donzelli, Roma 1998, pp. 29-30).)); tra il 1575 e il 1576 scopre lo scetticismo di Sesto Empirico e incomincia a definire il proprio pensiero ((In questo periodo Montaigne scrive «una porzione importante dell’Apologie» (R. Popkin, Storia dello scetticismo, trad. it. R. Rini, Mondadori, Milano 2000, p. 60). L’Apologie de Raymond Sebond figura in tutte le edizioni degli Essais (1580, 1582, 1588) ed è stata più volte riveduta e ampliata.)).
La difesa degli argomenti di Sebond dalle accuse dei suoi avversari ((A Sebond sono rivolte due obiezioni: la prima «che i cristiani si fanno torto volendo sostenere con ragioni umane il loro credo, che si concepisce soltanto per fede e per una particolare ispirazione della grazia divina»;  la seconda «che i suoi argomenti sono deboli e inetti a dimostrare ciò che vuole» (M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, trad. it. Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2012, pp. 783, 799).)) permette a Montaigne di introdurre il problema gnoseologico: i critici della Theologia naturalis incarnano la condizione dell’uomo, creatura miserabile, le cui pretese intellettuali di essere sul gradino più alto del mondo ((Cfr. Ivi, p. 807.)) si infrangono contro la varietà e la mutevolezza della realtà esterna ((Cfr. Ivi, pp. 879-977. Il punto argomentativo più radicale, che anticipa l’argomento del sogno, è la citazione di Euripide (cfr. in Stobeo, IV, 52, 38), secondo cui «è in dubbio se la vita che viviamo sia vita, o se sia vita quello che chiamiamo morte» (Ivi, p. 959).)).

La stessa natura dell’uomo, nella sua duplice dimensione mentale e corporea, è un abisso che le eterne dispute filosofiche e le ricerche degli uomini di scienza non sono riuscite a decifrare ((Cfr. Ivi, pp. 979-1083.)). La «sinfonia del dubbio» ((Espressione usata da Richard Popkin (cfr. Storia dello scetticismo, cit., p. 69).)) culmina nella critica della conoscenza sensoriale: se, infatti, è vero che i sensi sono l’unico mezzo per approcciare la realtà, tuttavia, dal momento che l’esperienza sensoriale mostra solo l’apparire degli oggetti, la verità delle idee (impressioni formate dall’anima sulla base dei sensi) non è dimostrabile ((Cfr. Ivi, pp. 1085-1113.)).Quest’incertezza gnoseologica si riversa sulla capacità di distinguere sogno e realtà, problema che ha da sempre interessato la filosofia ((Questo è confermato dall’obiezione di Thomas Hobbes (1588-1679) alla prima meditazione di René Descartes (1596-1650): «poiché Platone ha parlato di questa incertezza delle cose sensibili, e poiché è facile osservare la difficoltà che vi è di discernere la veglia dal sonno, avrei voluto che questo eccellente autore di nuove speculazioni si fosse astenuto dal pubblicare delle cose così vecchie» (Obbiezioni fatte da persone dottissime contro le precedenti meditazioni con le risposte dell’autore, trad. it. A. Tilgher, F. Adorno, in Cartesio, Mondadori, Milano 2008,p. 240). Ciò conferma un vivo interesse per l’argomento del sogno antecedente alle celeberrime Meditazioni metafisiche (1641).)).

 

2.— L’argomento del sogno nelle filosofie antiche.

Montaigne introduce l’argomentazione con un’allusione a pensatori precedenti:

«Quelli che hanno  paragonato la vita a un sogno, hanno avuto ragione, forse più di quanto pensassero» ((M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, p. 1103.)).

Lo studio delle fonti dell’Apologie de Raymond Sebond rinvia alle posizioni di Platone, Cicerone, Sesto Empirico ed Aristotele ((Stando all’apparato bibliografico dell’ultima edizione italiana dei Saggi curata da Andrè Tournon, ci sarebbero diciassette riferimenti agli Academica (Lucullus) di Cicerone, diciotto agli Schizzi Pirroniani di Sesto Empirico, cinque al Teeteto di Platone e uno alla Metafisica di Aristotele (cfr. Note, in Saggi, cit., pp. 2367-2372, 2374-2379).)).
Platone introduce l’argomento del sogno all’interno di una discussione tra Socrate e Teeteto sull’identità conoscenza-sensazione. Socrate si rivolge all’interlocutore dicendo:

«Più volte, credo, tu avrai sentito persone chiedere quale prova si potrebbe dare a dimostrazione [che si è svegli o no], quando uno, per esempio, ora stesso, così sul momento, ci venisse a domandare se dormiamo e se sia sogno tutto quello che stiamo pensando, oppure se siamo svegli e proprio da svegli ragioniamo tra noi». ((Platone, Teeteto, 158 b-c, trad. it. M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 47.))

Teeteto risponde che è difficile dare una prova dimostrativa, poiché nella veglia e nel sonno tutti i ragionamenti e i racconti corrispondono perfettamente ((Cfr. Ivi, 158 c, p. 47 .)).
Socrate archivia il discorso, dicendo che il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo svegli, e che lottiamo con pari ardore per le cose che in entrambi gli intervalli diciamo essere vere ((Cfr. Ivi, 158 d, p. 47.)).
Negli Academica Cicerone oppone, a chi sostiene che le rappresentazioni dei dormienti siano più deboli di quelle di chi è sveglio, l’idea che in entrambi gli stati si crede con la stessa intensità nella realtà di ciò che appare ((La prima posizione è formulata in XV, 51-55 e confutata in XXVII, 88-89 (cfr. Cicerone, Academica, trad. it. Antonio Russo in Scettici antichi, Mondadori, Milano 2009, pp. 477, 500-501).)). Segue che, «per quanto concerne l’assenso dell’anima, non sussiste alcuna differenza tra le rappresentazioni vere e quelle false» ((Ivi, p. 501.)).
Diversamente dalla posizione platonico-ciceroniana, Sesto Empirico affronta il sogno da un piano puramente epistemologico:

«Secondo, poi, che si è addormentati o svegli, diverse sono le rappresentazioni sensibili; poiché nel modo come ci rappresentiamo le cose nel sonno, non ce le rappresentiamo da svegli, né nel modo come ci rappresentiamo le cose da svegli, ce le rappresentiamo nel sonno» ((Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, L. I, cap. XIV, trad. it. A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 25.)).

Il discorso, funzionale al quarto modo di sospensione del giudizio, «che si denomina dalle circostanze» (( Ivi, p. 24.)), conduce alla seguente conclusione: ciò che vediamo nel sonno e nella veglia esiste relativamente al sognare e allo stare svegli (( Cfr. Ivi, pp. 25-26.)); non importa quale dei due stati sia reale, poiché la discordanza fra le due circostanze attesta già l’impossibilità di una conoscenza assoluta.
Avversario dell’argomento del sogno è Aristotele che, nel quarto libro della Metafisica, include il «chiedersi se in questo istante noi stiamo dormendo o siamo desti» ((Aristotele, Metafisica, IV, 1011 a 6-7, trad. it. A. Russo, Mondadori, Milano.)) tra le aporie di coloro che pretendono nello stesso tempo di non avere convinzioni e di dare una spiegazione razionale di tutte le cose ((Cfr. Ivi, IV, 1011 a 7-10, cit., pp. 768-769.)).
Senza entrare nel merito della validità o meno della recezione montaigneana delle dottrine precedenti, è tuttavia evidente che il confronto tra queste posizioni permette al francese di dare il proprio contributo personale all’argomento del sogno.

 

3.— Sogno e realtà negli Essais.

Secondo Montaigne «quando sogniamo, la nostra anima vive, agisce, esercita tutte le sue facoltà, né più né meno di quando è sveglia» ((Saggi, cit., L. II, cap. XII, p. 1103.)).
Se il soggetto è mentalmente attivo sia nella veglia sia nel sonno, si pone il problema della differenziazione. È qui riproposta indirettamente la diatriba degli Academica di Cicerone: all’idea che le facoltà dell’anima siano deboli e oscurate nel sonno è contrapposta la similitudine tra i due stati. Il rapporto sogno-realtà non è accostabile a quello notte-luce viva, bensì alle dicotomie notte-ombra, dormire-sonnecchiare, più-meno, tenebre-tenebre cimmerie.
Quando Montaigne scrive «noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo» ((Ibid.)), la distanza è recisa. Veglia e sonno sono entrambi contraddistinti da oscurità e vaneggiamenti, dunque finiscono per fondersi. Il non discernere i due ambiti innesca un’insicurezza totale su ogni dato della nostra coscienza, così da rendere il problema apparentemente privo di soluzione:

«dato che la nostra ragione e la nostra anima accolgono le fantasie e le opinioni che nascono in esse dormendo, e danno autorità alle azioni dei nostri sogni allo stesso modo che a quelle del giorno, perché non dovremmo domandarci se il nostro pensare e il nostro agire non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?» ((Ibid. A questa domanda se ne aggiunge un’altra, analoga, qualche pagina dopo: «Le circostanze delle malattie, della follia o del sonno ci fanno apparire le cose diverse da come appaiono ai sani, ai saggi a quelli che sono svegli, non è verosimile che il nostro stato normale e i nostri umori naturali abbiano anche la capacità di dare alle cose un’essenza corrispondente alla loro condizione, e di adattarle a sé, come fanno gli umori sregolati?» (Ivi, p. 1109).))

Montaigne risponde indirettamente all’interrogativo in questo passo dell’Apologie de Raymond Sebond:

«gli uomini non possono avere dei principi se la divinità non li ha loro rivelati: tutto il resto, e l’inizio e il mezzo e la fine, non è che sogno e fumo» ((M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, cit., p. 989.)).

Ragionamenti, idee e discorsi «hanno un certo corpo, ma è una massa informe, senza armonia e senza luce, se non vi si accompagnano la fede e la grazia di Dio» ((Ivi, p. 797.)). La fede autentica in Dio soccorre la ragione imbrigliata nei sensi e restituisce all’uomo il vero aspetto delle cose; il lume divino permette così di distinguere la verità dall’illusione, la realtà dal sogno. A risanare giudizio e volontà dell’uomo è «una stretta divina e soprannaturale, avente una sola forma, un solo aspetto e una sola luce, che è l’autorità di Dio e la sua grazia» (( Ivi, p. 795.)).
Alla ragione naturale, creatrice di false immagini e menzogne, è contrapposta la vera ragione divina, che si mostra solo a chi ha fede, ovvero a chi ha ricevuto il dono della liberalità di Dio. ((Cfr. Ivi, pp. 931, 991, 1015, 1037. La fede rende forti e solidi gli stessi argomenti di Sebond, che servono «d’indirizzo e di prima guida a un principiante per metterlo sulla via di questa conoscenza; lo preparano in qualche modo e lo rendono atto a ricevere la grazia di Dio, per mezzo della quale la nostra credenza poi si compie e giunge a perfezione» (Ivi, p. 797).)). L’uomo «è un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà di imprimervi» ((Ivi, p. 917.)); solo preferendo la fede cristiana alla virtù stoica si può «aspirare a questa divina e miracolosa metamorfosi» ((Ivi, p. 1119.)).
La risoluzione dell’argomento del sogno è confermata da altri capitoli degli Essais, in cuiMontaigne separa radicalmente il sogno dalla realtà, accostando il primo alla follia e all’ignoto, il secondo al terreno decisivo per raggiungere l’equilibrio psico-fisico.
Nel capitolo De l’exercitation paragona gli stati deliranti alla «cascaggine del sonno» ((Ivi, L. II, cap. VI, p. 665.)), ovvero alla percezione confusa e oscura. In De la présomption usa l’espressione comme en songe per esprime la distanza tra i due stati:

«Ho sempre nell’anima un’idea e una certa immagine confusa che mi presenta come in sogno una forma migliore di quella che ho usato, ma non posso afferrarla e concretarla» ((Ivi, L. II, cap. XVII, p. 1179.)).

Nella dimensione onirica le idee e le immagini sono molto più oscure rispetto alla veglia, dunque la difficoltà sta nell’afferrare il contenuto del sogno, non dell’oggetto reale. In De ne contrefaire le malade è riportato invece il racconto – di pliniana memoria – di un uomo che, sognando di esser cieco, scopre il mattino seguente di esserlo diventato. Secondo Montaigne «è più verosimile che i moti che il corpo sentiva all’interno […] fossero il motivo del sogno» ((Ivi, L. II, cap. XXV, p. 1273.)), piuttosto che la forza dell’immaginazione fosse la causa della cecità. È dunque la realtà ad avere incidenza sul sonno, non il contrario.
Nel capitolo Sur des vers de Virgile Montaigne chiama in causa il proprio vissuto:

«Mi accade come per i sogni. Sognando li raccomando alla mia memoria (poiché facilmente sogno di sognare), ma l’indomani mi ricordo, sì, com’era il loro colore, o gaio o triste o strano; ma come fossero per il resto, più mi affanno a trovarlo, più mi trovo nell’oblio» ((Ivi, L. III, cap. V, p. 1625.)).

L’oblio non è più una condizione umana costante, ma solo un momento di smarrimento in cui si cerca invano di riportare all’unità tutti i contenuti mentali, inclusi quelli onirici. Infine in De l’expérience, Montaigne scrive:

«Sogno di rado, e allora sogno cose fantastiche e chimere prodotte generalmente da pensieri piacevoli: più radicali che tristi. E ritengo che sia vero che i sogni sono fedeli interpreti delle nostre inclinazioni; ma ci vuole abilità nel coordinarli e spiegarli» ((Ivi, L. III, cap. XIII, p. 2049.)).

Negli Essais la differenza tra sogno e realtà è riconosciuta prima e dopo L’apologie de Raymond Sebond, un effetto collaterale dell’«écriture fragmentaire» ((Cfr. L. van Delf, Les spectateurs de la vie: généalogie du regard moraliste, Les Presses de l’Université Laval, 2005, p. 216.)) di Montaigne. È possibile che l’autore sia partito dalla fede in Dio, garante del vero, e abbia introdotto il rapporto sogno-realtà esclusivamente per supportare il pirronismo dell’Apologie; oppure abbia riflettuto sull’argomento durante la stesura del capitolo su Sebond, trovando in Dio l’unica soluzione possibile. In entrambi i casi la conclusione è la subordinazione della ragione alla fede, alla grazia e alla rivelazione. Una ragione autonoma incorre in aporie e in circoli viziosi, allontanando l’uomo dall’unica verità e ingabbiandolo alla mutevolezza e alla varietà dell’esistenza; una coscienza illuminata coglie invece i segreti dell’assoluto; in questa prospettiva, la ragione può e deve ammettere il proprio limite e accettare i principi che derivano da Dio stesso. La consapevolezza del limite non è però sufficiente a raggiungere il vero: senza l’intervento divino e un credere autentico l’uomo non può comprendere né la realtà del mondo né la realtà del tutto. La soluzione all’argomento del sogno non compromette la contingenza e la libertà della condizione umana ((Secondo Sandro Mancini proprio per non compromettere la contingenza della condizione umana e della libertà, Montaigne «non può e non vuole dare risposta» all’argomento del sogno. «Colmando la cavità dell’esperienza, svelerebbe l’enigma dell’identità e renderebbe con ciò superfluo e retorico interpellare Dio» (S. Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996, p. 315).  Lo studioso sembra non tener conto del valore fortemente gnoseologico dell’intervento di Dio e della sua decisività nella risoluzione dell’argomento del sogno.)), bensì le fortifica. L’anima s’interroga liberamente sull’esistenza, fino a comprendere che la chiamata in causa di Dio è l’unica via per evitare la paralisi del nulla e dell’incertezza. La devozione alla Verità permette inoltre al soggetto di affrontare la complessità del vivere con saggezza e moderazione, nonché di praticare una continua autoanalisi.

 

4.— Conclusioni.

Il riconoscimento dell’«“insufficienza” personale» ((J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell’apparenza, trad. it. M. Musacchio, Il Mulino, Bologna 1984, p. 61.)) e l’intervento divino risanano la miseria della condizione umana. Attraverso il dubbio l’anima si libera dalle illusioni della natura sensibile, predisponendosi ad accogliere la grazia e la rivelazione. Se il pirronismo è la via per conoscere se stessi e la complessità del mondo, Dio è il principio risolutore che garantisce all’uomo la comprensione del vero e del giusto, nonché l’uscita dal dogmatismo e dal circolo della scepsi. Per Montaigne la ragione umana deve dunque sottostare a Dio, unico garante del perfetto discernimento tra ciò che è vero e ciò che non lo è, tra vita onirica e vita reale.
L’argomento del sogno non risana solo l’epistemologia, ma anche il fideismo: se la religione è un collante sociale, valida perché da tempo parte dei costumi di un popolo, la fede è l’accesso del singolo alla verità. In tutto il percorso scettico Montaigne oppone al dogmatismo della ragione il rispetto formale della religione del proprio paese ((Cfr. M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, cit., pp. 881, 917.)), mostrando però che solo interiormente la nostra anima opera l’autentico percorso verso il divino ((Ciò emerge dal seguente passo: «La nostra fede non è nostro acquisto, è puro dono della liberalità altrui. Non è per ragionamento o per mezzo del nostro intelletto che abbiamo ricevuto la nostra religione, è per autorità e per comandamento estraneo» (Ivi, p. 797). La fede è subordinata a Dio; la religione alla politica e alla cultura di un popolo.)).  Il rapporto con Dio è dunque personale e non ha nulla a che vedere con il lato sociale delle religioni che, seppur utili alla politica, rischiano di favorire una nuova tirannia della ragione.
L’adesione di Montaigne ai costumi cristiani e il rigetto dell’ateismo ((L’ateismo è definito «una proposizione quasi contro natura e mostruosa» (M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, cit., p. 793).)) sono fuori discussione, ma l’immagine del Dio a lui rivelatosi e il suo intimo rapporto con il sacro risultano impenetrabili, tanto da sfuggire alla peinture du moi degli Essais.