La corona e il campidoglio

Le narrazioni filmiche, letterarie e seriali costituiscono nuove forme del mito. Non, però, nel senso banale di ‘moda’, quanto nei termini in cui esse raccontano una verità articolandola in una struttura narrativa e quindi non rigorosamente argomentativa. Dai miti abbiamo sempre appreso qualcosa (Vernant 2018; Colli 2014) grazie al loro modo di rappresentare la verità con un linguaggio semplice, diretto e che poggia sulla nostra natura di specie finzionale (Harari 2014), capace di costruire e intuire i significati (Gottschall 2014).

La serialità televisiva ha contribuito notevolmente alla diffusione informativa di temi come l’etica, la politica, le relazioni umane, il senso della storia, le perversioni della tecnologia, spesso nella forma di simulazioni futuristiche e distopiche. Altre volte, radicandosi nei problemi del presente, essa ha inquadrato problemi che, da attori del processo, difficilmente riusciremmo a guardare dall’esterno (Arendt 2005). Questo succede anche grazie a specialisti che lavorano sugli script ottenendo l’effetto di raccontare qualcosa che sia insieme bello e vero, spesso in un’ibridazione fra realtà e finzione. 

Dopo lo scandalo che ha travolto Kevin Spacey alcuni anni fa, recentemente è tornato sul catalogo Netflix House of Cards e, quasi in contemporanea, l’ultima stagione di The Crown, a un anno dalla morte della regina Elisabetta II. Due eventi reali che si sono intrecciati con la dimensione finzionale, aprendo un canale di riflessione non solo sul rapporto tra realtà e rappresentazione, ma anche su etica e politica. Entrambe le serie, infatti, non solo hanno goduto di un enorme successo di pubblico e di critica, ma hanno indagato in modi diversi l’idea della sovranità, stimolando riflessioni etiche sulle modalità di gestione e di concezione del potere. 

House of Cards, con protagonista Francis Underwood (Kevin Spacey), si presenta come una serie profondamente machiavellica, raccontando le manovre di ottenimento del potere completamente sganciate dalla sfera della morale; il focus è infatti legato alle modalità di acquisizione del potere in uno scenario politico che è quello di tipo elettivo americano (Hackett 2015). The Crown, invece, assume lo scenario della monarchia inglese mostrandone l’anacronismo: la sovranità nel paradigma più tradizionale di stampo ereditario con specifico riferimento alla politica inglese e alla figura di Elisabetta II (Koch 2023). 

Due serie-tv e due modi di raccontare la storia che lasciano il segno di una profonda riflessione politica inquadrando una figura machiavellica da un lato (House of Cards) e una figura cristologica dall’altro (The Crown). Si possono infatti individuare due aspetti etici che ricuciono le due figure di Francis Underwood ed Elisabetta II: il conflitto e il sacrificio. Esse entrano in relazione profonda seppure in maniera completamente diversa in due incarnazioni della sovranità: l’una più realistica (House of Cards) e vicina al modo in cui concepiamo la politica, anche se veicolata da un personaggio di finzione; l’altra estremamente reale (The Crown) ma associata a una concezione della sovranità (monarchia) che il senso comune fatica a concepire ancora come esistente a seguito dei processi di razionalizzazione e de-misticizzazione del potere. 

Il Campidoglio e The old Nick
Francis Underwood (per gli amici Frank) è una figura di alto rilievo nella politica statunitense, dalle grandi abilità retoriche e dialettiche, dagli scopi chiari e ambiziosi e con un guilty pleasure per le costolette in uno sperduto locale di terza categoria della Washington sporca e nascosta. Un personaggio evidentemente infido, curato e selvaggio, disposto a tutto pur di raggiungere il proprio obiettivo che è quello di diventare presidente degli Stati Uniti. Frank conosce bene i meccanismi di corruzione, controlla bene e silenziosamente il quarto potere, elargisce favori e vincola a sé le persone che contraggono continuamente debiti non di denaro, ma di sangue. La parabola di Frank Underwood è ulteriormente alimentata da una figura shakesperiana ancora più inquietante, sua moglie Claire. Presidente di un’associazione no-profit dalle grandi finalità filantropiche come costruire i pozzi in Africa, Claire, al pari del marito, ricopre un ruolo di facciata che rivela una natura poco conflittuale. È una lady MacBeth che dissolve i limiti della morale, escludendoli dall’orizzonte del marito; insieme costituiscono una coppia che, scomodando qualcuno, potremmo definire ‘al di là del bene e del male’. Non figure sataniche, dunque, come vorrebbe la critica letteraria riferita al Satana di Milton, ma figure machiavelliche in cui la riflessione morale, la sofferenza della scelta e il conflitto interno sono completamente assenti. Francis Underwood è sì il diavolo, ma nella forma associabile a Machiavelli. Secondo Markus Michael Fischer, gli inglesi diedero incolparono l’opera di Machiavelli di aver contribuito a connotare negativamente il termine ‘politico’. Da questo trae origine il nomignolo che la tradizione cristiana inglese moderna attribuisce al diavolo, definendolo “The old Nick”, l’abbreviazione anglofona per Niccolò (Fischer 2000).

House of Cards fa dunque proprio il tema machiavellico della inconciliabilità e del conflitto fra etica e politica. Questo non si riferisce a un conflitto nel personaggio, bensì a quello che vive lo spettatore rendendosi conto della condotta a-morale di cui è capace Frank Underwood. Tuttavia, le mosse politiche del protagonista non eccedono la sfera dell’etica non in virtù della ragion di stato o di uno stato di eccezione (Schmitt 1972, 33-41), quanto per un egoistico fine di autoaffermazione e possesso del potere che è un tema di stampo hobbesiano: «Hobbes in effetti fa leva su un conflitto interno al mondo passionale: non solo la paura è una passione ragionevole, ma l’amore della propria conservazione è direttamente contrapposto all’amore della gloria che spinge invece verso la rivalità distruttiva» (Donatelli 2015, 193-194). Frank Underwood, nel centro delle questioni politiche che dilaniano la serie, apre uno squarcio psicoanalitico che permette di intravedere un narcisismo onnipotente orientato al possesso. Spesso, il protagonista utilizza parole vicine al campo semantico del ‘possedere’. Il potere stesso diviene possesso e non più servizio, questa è la terribile deformazione e l’atroce sguardo che House of Cards offre sulla politica. Il raggiungimento e l’appagamento del desiderio del controllo. Una deformazione o, meglio, una traslazione sul piano politico del conflitto originario da cui, secondo Hobbes, la società civile dovrebbe garantire l’uscita (Hobbes 2001).

La politica, in questa trasposizione seriale perversa, diventa solo un altro spazio in cui il conflitto originario dello stato di natura si prolunga, si ripete e si amplifica. La democrazia diviene l’espediente non per esercitare la sovranità che ha come fine il coordinamento del popolo, ma dove i bisogni del popolo sono lo strumento che garantisce il consenso al monarca assoluto di perpetuare il potere. Perché quello di Frank Underwood è un assolutismo mascherato da democrazia; questa consapevolezza è dei pochi che mantengono lo sguardo lucido sulle ambizioni di Underwood che non fatica a sporcarsi le mani per raggiungere i propri obiettivi. House of Cards mette così in scena un sovvertimento paradossale dell’ordine politico (Rawls 2012, 27-101). Il mantenimento del potere passa dal raggiro del popolo che, quando inizia a lamentarsi, viene messo a tacere da una manciata di costolette gratuite. Il Campidoglio è lo scenario in cui la guerra originaria di matrice hobbesiana si trasferisce, quando in realtà dovrebbe rappresentare il luogo proprio del principio di realtà, della negoziazione democratica e civile. Eppure, le immagini di qualche anno fa dell’assalto al Campidoglio, ci hanno palesemente mostrato come lo spazio politico (e un certo modo di fare politica) si rivelino per quello che sono, smascherandosi e privilegiando sanguinose guerre e conflitti e palesandosi come lotta al potere.

House of Cards inscena una radicale estromissione de tale conflitto morale dall’alveo della politica. Noi seguiamo Underwood, siamo allineati con lui eppure non facciamo altro che disapprovare con un senso di empatia negativa. Ed è qui che entra in gioco il valore del sacrificio in House of Cards, non inteso come sacrificio di sé (la più alta forma di moralità) e che vediamo in The Crown, ma come sacrificio dell’altro nella lotta originaria finalizzata al mantenimento del potere. In questo caso, l’elemento paradossale che rende evidente anche la scelta di un nome banale per il protagonista. Frank è infatti orribilmente franco con i suoi nemici ma anche con lo spettatore quando palesa le proprie intenzioni. Di fatto, uno degli aspetti tecnici più funzionali a questo scopo, ricorrente in House of Cards, è la rottura di quarta parete che Kevin Spacey gestisce magistralmente. Il personaggio parla vis a vis con la telecamera, si confessa, racconta, spiega le dinamiche, prevede, prende in giro i suoi nemici e alleati. È un’intelligenza perversa quella di Underwood, capace di mettere insieme il male e la pazienza, la manipolazione con la meticolosità. Abilità che gli permettono di lavorare nell’ombra, gestendo un insieme di contatti e sotterfugi che creano una rete opaca che difficilmente permette di risalire alla sua persona. 

House of cards è un trattato di teoria politica al contrario. Non parte dall’idea di sovranità come diritto che regola l’esistente, ma come perenne possibilità di controllo perpetuando lo stato di eccezione, in cui il valore formale della legge e del diritto perde di senso. Underwood sa esercitare la temibile arma del sovvertimento dello status quo per creare le condizioni eccezionali utili a bypassare la legge e ogni possibile sanzione. Frank Underwood è l’uomo di razionalità pratica che sovverte il sistema, continuamente, per controllarlo e senza mai si stanca del possesso, vittima perenne di desideri sempre più grandi. 

La corona: “Le roi est mort, vive le roi!”
Elisabeth Alexandra Mary nel 1952, alla morte di re Giorgio VI, diviene regina di Gran Bretagna con il nome di Elisabetta II. Ben prima della sua incoronazione, però, Elisabetta è costretta a portare il gravoso peso del potere e della sovranità, la responsabilità derivante dal carico della corona, fardello pesante che la obbliga a svestirsi della propria individualità per incarnare il ruolo di regina, sposata con il suo popolo e aprendo lo scenario impensabile, intimo, terribile di un conflitto interno fatto, paradossalmente, di rinunce e privazioni. Elisabetta è costretta a privarsi della propria personalità, per accogliere in sé lo spirito della corona e la sovranità. Non è un caso che la monumentale opera di Ernst Kantorowicz, I due corpi del re (Kantorowicz 2012), prenda le mosse dalla teoria della doppia natura del sovrano: un corpo fisico, caduco, transeunte e un corpo immortale, invisibile, incorruttibile e che rappresenta il misticismo insito nella sovranità. 

Il corpo politico è un corpo che non crolla, che non cede, che sopravvive di generazione in generazione recuperando l’idea di una metempsicosi in cui i due corpi vengono divisi, dando vita al concetto di demise del re che è uno dei punti nevralgici della dottrina ricostruita da Kantorowicz: «[con la morte] vi è una separazione tra i due corpi e il corpo politico è trasferito e trasmesso dal corpo naturale […] ad un altro corpo naturale». La teoria dei due corpi del re vide la sua prima pubblicazione ufficiale nel XVI secolo proprio in Inghilterra, seppure fosse un’idea presente nell’Europa pre-moderna.  

Questo scenario di teologia politica mostra il conflitto e la sofferenza intrinseca alla figura di Elisabetta II, obbligata, nel pieno delle forze della giovinezza, a piegare i propri desideri, il proprio corpo fisico, la propria individualità, alla corona simbolo del corpo politico immortale a cui bisogna rispondere e prestare servizio, in quanto investitura divina. Questo tipo di lettura va però articolata seguendo l’argomentazione di Kantorowicz che inquadra lo sviluppo del concetto di regalità in una linea cronologica dall’alto medioevo, regalità cristocentrica, passando per il basso Medioevo, regalità giuricentrica, e l’età moderna come regalità politocentrica – la quale pone al centro il rapporto fra l’uno (monarca) e i molti (popolo). La metafora dei due corpi del re è un prodotto medievale e che ebbe un importante sviluppo proprio in Inghilterra, sotto i Tudor. Per esempio, l’esecuzione di Carlo I è possibile in quanto è condotta nei confronti del corpo fisico e non di quello politico, evitando di violare la regalità. Furono proprio i giudici di età elisabettiana a riconoscere nel re i due corpi: uno naturale e uno politico che, contenuti in una sola persona, formano un’unità che non può essere soggetta a divisione.

Nelle prime stagioni di The Crown questa sofferenza di Elisabetta è evidente come dolore della lacerazione prodotta dai due corpi, poiché ciò comporta non solo rinunciare alla propria vita come individualità, ma anche compromettere quella dei propri cari per il bene più grande, quello della corona. Questo è il conflitto che, a differenza di House of Cards, mette in scena The Crown. Un conflitto più intimo, in cui il potere non è ricercato in una sfrenata lotta antagonistica, ma è subìto. Un potere che obbliga alla rinuncia, alla crocifissione e al sacrificio della propria vita per la sopravvivenza del popolo e della corona. 

Molti sono i passaggi drammatici, in cui la giovane Elisabetta si trova a dover vivere pesanti dilemmi morali e, spesso, a fare del male ai propri familiari pur di rispettare il dovere della corona. Così, quell’iniziale forma di slancio giovanile, di cambiamento, viene lentamente soppiantato dalla necessità del controllo, dell’imperturbabilità, della tradizione intesa sempre di più come insieme di valori solidi e condivisi a cui il popolo può sempre fare riferimento nelle ore più buie – e che, se si vuole, può essere letto in senso psicoanalitico come sviluppo psicosessuale dal principio di piacere al principio di realtà. Un conflitto che, in realtà, non si esaurisce mai e che rende Elisabetta una figura cristologica, non solo in riferimento alla sacra unzione (lascito sempre della tradizione medievale), quanto anche in riferimento al valore del sacrificio che è costretta ad affrontare, immolandosi per indossare la corona e per il suo popolo.

The Crown è una narrazione politica su un’idea di sovranità che è ancora fortemente ancorata al modello medievale, al misticismo tipico della sovranità. I primi ministri si succedono davanti a Elisabetta che rimane il centro fisso della tradizione: non si smuove, non si turba, non crolla mentre il potere politico della democrazia, affidato al popolo, continua a transitare nelle sue stanze fra reazionari e progressisti. La serie, fino alla sua ultima stagione, spinge in avanti questo conflitto e ne mostra sia la natura teologico-politica, sia l’aspetto più strettamente psicoanalitico. L’inflessibilità è incarnata da Elisabetta che risponde in nome della tradizione, delle leggi scritte che impongono una invasione del super-Io, seppure non arrivi a livelli di pervasività tale da annullare il conflitto interno. Elisabetta deve sopportare e accettare la ‘croce’ del pesante corpo politico, in quanto, sempre come analizza Kantorowicz, il re è gemina persona, umano per natura e divino per grazia. 

The Crown, nell’inquadramento etico-politico offerto dalla serie, mostra chiaramente le condizioni e la sussistenza di un modo di intendere il potere, in cui la presenza del misticismo è presente e intrinseco a quello della sovranità. Un passaggio e una ritualità anacronistici di cui ci siamo resi conto con l’elezione di Carlo III nella successione a Elisabetta II, dalla quale ha ereditato il corpo politico, il corpo mistico, caricando sulle proprie spalle il peso della corona. 

La Corona e il Campidoglio
Elisabetta II e Francis Underwood, The Crown e House of Cards sono sussumibili ciascuno in un simbolo specifico che è anche il luogo del potere: la corona e il campidoglio. In entrambe le serie si manifesta il conflitto aperto dalla politica. Nel primo caso è un conflitto interiorizzato tra individuo e sovranità, nel secondo caso è esteriorizzato tra etica e politica. Quello di Elisabetta II e della gravitas della corona è un tema vicino e condivisibile, che recupera, in generale, il conflitto intrapsichico più ampio a cui ognuno è sottoposto: quello tra Es e Super-Io (Freud 2012), tra principio di piacere e principio di realtà, fra desiderio individuale e istanza morale e, se ci si vuole spingere in una lettura deontologica classica, kantianamente è il conflitto fra principio soggettivo (massima) e principio oggettivo (imperativo)  (Kant 2005). Questa forma di conflitto scompare totalmente nella visione machiavellica della politica come spazio di una potenzialità infinita, senza limiti, un iper-potere che, se camuffato dal principio della ragion di stato, è potenzialmente illimitato. 

Altro nucleo ricorrente che le due serie mettono in evidenza è il senso di rimanenza di qualcosa di atavico e lontano, di un tempo apparentemente non più esistente. Nel caso di The Crown è il misticismo proprio della corona che si traduce nella incorruttibilità e permanenza del potere come teologia politica; nel caso di House of Cards è la regressione allo stato di natura nella lotta al potere all’interno del sistema politico elettivo e non ereditario.

Infine, il tema del sacrificio che, in un gioco perverso e paradossalmente reale e all’interno di uno stesso tempo storico, è messo in atto da due sistemi diversi di potere: il sacrificio dell’altro per la gloria del più forte (House of Cards) e il sacrificio di sé per la tutela del valore e della tradizione nella sua eterna incorruttibilità (The Crown).

 

Riferimenti bibliografici

  • Arendt, Hannah. 2005. Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant. Genova: Il nuovo melangolo.
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  • Fischer, Markus. 2000. Well-ordered License: On the Unity of Machiavelli’s Thought. Lanham, MD: Lexington Books.
  • Freud, Sigmund. 2012. Introduzione alla psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Gottschall, Jonathan. 2014. L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Hackett, J., Edward. 2015. House of Cards and Philosophy: Underwood’s Republic. Hoboken, NJ: Wiley-Blackwell.
  • Harari, Yuval Noah. 2014. Sapiens. Da animali a Dei. Milano: Mondadori.
  • Hobbes, Thomas. 2001. Il leviatano. Milano: Bompiani.
  • Kant, Immanuel. 2005. Critica della ragion pratica. Roma-Bari: Laterza.
  • Kantorowicz. 2012. I due corpi del re. L’idea della regalità nella teologia politica medievale. Torino: Einaudi.
  • Koch, Giovanna. 2023. The crown. La serie. Dalla storia al mito. Il concept del pluripremiato biopic britannico. Roma: Dino Audino.
  • Rawls, John. 2012. Lezioni di storia della filosofia politica. Milano: Feltrinelli .
  • Schmitt, Carl. 1972. Le categorie del ‘politico’. Bologna: Il Mulino.
  • Vernant, Jean-Pierre. 2018. Le origini del pensiero greco. Milano: Feltrinelli.

Foto di Pro Church Media su Unsplash

Laureato in Scienze Filosofiche all’Università della Calabria. È Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies, docente nelle secondarie di secondo grado, esperto e membro del Comitato Direttivo “Inventio” e membro della Società italiana per l’Etica dell’Intelligenza Artificiale (SIpEIA). Si è laureato con una tesi in Filosofia e Antropologia della scienza, conducendo il lavoro di ricerca presso l’Università Aix Marseille con Carlo Rovelli (supervisore prof.ssa Ines Crispini). Dal 2018 svolge attività di ricerca con la cattedra di Etica e Antropologia filosofica presso l’Università della Calabria e si occupa di etica e IA, etica narrativa e didattica della Filosofia.

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