Uno dei temi più ricorrenti della serie TV The young pope è quello della coabitazione tra fede e dubbio nelle persone che si dichiarano credenti nel Dio cristiano. Il papa stesso confessa a volte di non credere in Dio e di fondare il proprio ministero sul tema della sua assenza, unica possibilità per affermare la sua presenza. Nulla di strano se si tiene conto del fatto che, anche nell’agiografia cattolica, il credente e addirittura lo stesso santo è un individuo che spesso e volentieri è assediato da forti dubbi dai quali ne esce vittorioso e più forte di prima. Il legame tra fede e dubbio è costitutivo della fede e discende dalla sua stessa definizione: se la fede infatti è prova delle cose che non si vedono, come dice San Paolo, essa non può che essere per natura una sorta di altalena tra credulità e incredulità. Il problema sollevato dalla serie tv tuttavia non riguarda primariamente quest’aspetto quanto piuttosto quello dei fondamenti che giustificano l’affermazione o la negazione dell’esistenza di Dio. Nel primo discorso ai fedeli pronunciato dal balcone della basilica di San Pietro, Pio XIII tuona minaccioso: «Non si deve provare l’esistenza di Dio! Se non siete in grado di dimostrare l’inesistenza, allora significa che Dio esiste». Si tratta di una tesi che vale la pena analizzare nelle sue implicazioni.
Che Dio esiste
L’affermazione infatti è molto meno banale di quanto possa apparire (e le sue conseguenze non sono desiderabili per la Chiesa). Che Dio esiste significa che Dio è un’evidenza immediata e tale immediatezza implica almeno tre cose. In primo luogo che essa non si costituisce in riferimento ad un’altra idea bensì è causata da sé: se l’idea di Dio fosse causata da un’altra idea essa non potrebbe costituirsi con i caratteri che le sono propri, in particolare quelli dell’infinità e dell’indeterminatezza. In secondo luogo che Dio, percepito come essere pensante, produce un’idea di sé tale da essere unito all’oggetto: in questo modo essa non è né prodotto dell’immaginazione né prodotto della ragione. Infine che l’idea di Dio è originaria della mente, ovvero l’intelletto inteso come terzo genere di conoscenza, e non necessita di dimostrazioni che appartengono alla sfera della ragione (come la distinzione tra essenza ed esistenza). Come si vede, si tratta di conseguenze che hanno il potere di sgombrare il campo da ogni rivelazione, intesa come comunicazione della divinità all’uomo fatta tramite segni e parole: che il desiderio di dire immediatamente che Dio esiste sia in capo ai pensieri del capo della Chiesa suona così come una grande contraddizione (come Lenny Belardo, sebbene per altre ragioni, continua a ripetere di se stesso).
Il metodo di stabilire prima l’esistenza di qualcosa (che è) e poi di stabilire l’essenza (che cos’è) ha una lunga tradizione. Quello che è interessante sapere è che esso è comune sia a san Tommaso, il filosofo per eccellenza del cristianesimo, che a Spinoza, ovvero colui che, anch’egli per eccellenza, viene considerato il filosofo più ateo e anticristiano della storia. Per Tommaso infatti, come si legge nella Summa teologica, l’esistenza di Dio è in sé cosa nota: l’idea di Dio, quo ad se, cioè considerata in se stessa, è quanto di più chiaro e distinto possa esserci. Tuttavia, e questa è la postilla decisiva, quo ad nos, cioè per l’intelletto, non è così: l’essere noto di Dio è in sé e non per noi. Per questo piccolo e apparentemente insignificante motivo le prove dell’esistenza di Dio sono date solo a posteriori, risalendo cioè dall’effetto alla causa, sicché esse possono darsi soltanto se partono dal mondo, sono cioè cosmologiche.
Spinoza liquida nel Breve Trattato l’argomento di Tommaso circa l’impossibilità di dimostrare Dio a priori per la “pretestuosa” ragione dell’aquinate secondo cui Dio non ha causa (ragione adottata da Tommaso per evitare una regressio ad infinitum). Spinoza dimostra invece l’esistenza di Dio in quanto causa sui (e quindi natura), ovvero a priori. «La mia filosofia parte da Dio» scrive in una lettera: ciò equivale ad assumere che l’intelletto umano è costituito dall’idea chiara e distinta di Dio senza la quale quel ragionamento non sarebbe possibile. Per poter partire da Dio è necessario che qualunque movimento dell’intelletto non possa prescindere dall’implicazione dell’idea di Dio. Questo Spinoza lo spiega non solo nel Breve Trattato ma anche nella quinta parte dell’Etica dove mostra in quale modo l’intelletto umano può avere un’idea adeguata, oltreché chiara e distinta, dell’essenza di Dio. Anche qui emerge il rifiuto della tradizione scolastica il cui caposaldo invece è che l’intelletto umano non possiede un’idea chiara e distinta di Dio. Il Dio di Spinoza invece, essendo definito come esistenza necessaria, diventa costitutivo dell’intelletto il quale non può svolgere alcun atto senza implicare la nozione dell’esistenza necessaria. La ragione sta in questa semplice dimostrazione: qualunque cosa noi pensiamo, la pensiamo affermando o negando, cioè diciamo è oppure non è; ma dire “è” oppure “non è” implica un’idea della necessità dell’esistenza perché se noi non avessimo questa idea, non potremmo affermare niente. Detto al rovescio: per poter affermare l’esistenza non necessaria, è necessario avere un’idea dell’esistenza necessaria. Questa idea dell’esistenza necessaria è l’idea di Dio. Per questo, in quanto costitutiva dell’intelletto, la conoscenza di Dio è immediata, sicché non si ha intelletto finché non c’è questa idea. L’idea di Dio è quindi capire che questa esistenza è necessaria, perché altrimenti non potremmo pensare nessun’altra esistenza come data. Questo significa anche che la dimostrazione della legittimità di questo punto di partenza si troverà soltanto alla fine quando, dopo essere partiti da Dio e passati attraverso la natura dell’uomo, si comprende perché era necessario prendere le mosse dall’essere assolutamente necessario. L’obiezione di Spinoza a Tommaso è rivolta all’intera tradizione scolastica ed è insuperabile se si rimane in un quadro che prevede l’uso degli strumenti dell’intelletto, sicché contro di essa si deve ricorrere a tesi nate nell’ambito dell’odierna filosofia analitica e scientifica: in altre parole, la teologia si ritrova oggi alleata della scienza moderna la quale, con il suo carattere ipotetico, è il giocatore più nichilista di tutti.
Gli argomenti sull’esistenza di Dio e la fine della teologia speculativa
Nella storia delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio si è soliti distinguere tra prova ontologica e prova cosmologica, rispettivamente dette anche come prova a priori e prova a posteriori. Quella ontologica si dice tale perché Dio viene dimostrato partendo dalla sua stessa definizione: nelle parole di Sant’Anselmo d’Aosta, Dio è l’essere rispetto al quale nulla di più grande può essere concepito e da ciò discende che negare la sua esistenza significa negare il suo stesso concetto. L’argomento ontologico è reso rigoroso solo affermando la non contraddittorietà dell’idea di Dio, ovvero l’opposto di ciò che, a dispetto del discorso iniziale di Lenny Belardo (Pio XIII), viene continuamente dichiarato, ovvero il principio che Dio sia una contraddizione.
Dopo Kant tuttavia, sia l’argomento ontologico che quello cosmologico sono stati relegati in soffitta e così lo stesso armamentario delle prove sull’esistenza di Dio. Se Hume ne aveva già mostrato la loro insostenibilità, lo stritolatore di Königsberg aggiunse alle due precedenti la prova fisico-teologica riordinando il sistema: da una parte inseriva la prova ontologica e quella cosmologica nell’ambito delle prove trascendentali, in quanto indipendenti da prove empiriche (e così facendo trasferiva la prova cosmologica nell’ambito dell’a priori); dall’altra indicava nella prova fisico-teologica l’unica prova a posteriori, cioè dipendente dall’esperienza, grazie alla quale, muovendo dai fenomeni, si conosce Dio dalla conformazione delle cose del mondo. Questo nuovo schema era finalizzato al sostanziale rifiuto di tutte le prove sull’esistenza di Dio, così come ampiamente dimostrato nella Critica della ragion pura (A584/B612 fino ad A642/B670). Kant osservava che, a fondamento di tutte le prove, vi è la prova ontologica dell’esistenza di un unico essere originario quale essere supremo e così introduceva la distinzione tra logica ed esistenza: se in un giudizio nego il predicato mantenendo il soggetto, ne risulta una contraddizione («porre un triangolo e negare al contempo i suoi tre angoli è contraddittorio»); ma se si nega soggetto e predicato insieme non nasce alcuna contraddizione (ovvero, «negare il triangolo e i suoi tre angoli non importa contraddizione»): allo stesso modo, nella frase “Dio non è”, non si riscontra la benché minima contraddizione. Scrivendo (nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura) di aver dovuto togliere il sapere al fine di giungere alla fede, Kant poneva termine alla teologia speculativa e dichiarava l’impossibilità di prendere le mosse da un qualsiasi essere necessario e il conseguente riconoscimento del fondamento nichilistico del pensiero («nulla può impedirmi di pensare il non essere di qualsiasi cosa esistente»). Era la rinuncia all’idea di verità e alle prove razionali su Dio il quale, ormai, diventava soltanto un’utile supposizione per regolare le azioni umane. Non senza una punta di ironia Schopenhauer commentava che Kant avrebbe dovuto aggiungere una quarta prova alle dimostrazioni di Dio (definita come cheraunologica) fondata sul sentimento della bisognosità, dell’impotenza e della dipendenza dell’uomo di fronte alle forze naturali. Con ciò, si era ormai giunti alle porte dell’ateismo filosofico moderno.