La corona e il campidoglio

Le narrazioni filmiche, letterarie e seriali costituiscono nuove forme del mito. Non, però, nel senso banale di ‘moda’, quanto nei termini in cui esse raccontano una verità articolandola in una struttura narrativa e quindi non rigorosamente argomentativa. Dai miti abbiamo sempre appreso qualcosa (Vernant 2018; Colli 2014) grazie al loro modo di rappresentare la verità con un linguaggio semplice, diretto e che poggia sulla nostra natura di specie finzionale (Harari 2014), capace di costruire e intuire i significati (Gottschall 2014).

La serialità televisiva ha contribuito notevolmente alla diffusione informativa di temi come l’etica, la politica, le relazioni umane, il senso della storia, le perversioni della tecnologia, spesso nella forma di simulazioni futuristiche e distopiche. Altre volte, radicandosi nei problemi del presente, essa ha inquadrato problemi che, da attori del processo, difficilmente riusciremmo a guardare dall’esterno (Arendt 2005). Questo succede anche grazie a specialisti che lavorano sugli script ottenendo l’effetto di raccontare qualcosa che sia insieme bello e vero, spesso in un’ibridazione fra realtà e finzione. 

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Dio esiste ed è meglio se non si dimostra. Poi arrivò Kant (II)

Uno dei temi più ricorrenti della serie TV The young pope è quello della coabitazione tra fede e dubbio nelle persone che si dichiarano credenti nel Dio cristiano. Il papa stesso confessa a volte di non credere in Dio e di fondare il proprio ministero sul tema della sua assenza, unica possibilità per affermare la sua presenza. Nulla di strano se si tiene conto del fatto che, anche nell’agiografia cattolica, il credente e addirittura lo stesso santo è un individuo che spesso e volentieri è assediato da forti dubbi dai quali ne esce vittorioso e più forte di prima. Il legame tra fede e dubbio è costitutivo della fede e discende dalla sua stessa definizione: se la fede infatti è prova delle cose che non si vedono, come dice San Paolo, essa non può che essere per natura una sorta di altalena tra credulità e incredulità. Il problema sollevato dalla serie tv tuttavia non riguarda primariamente quest’aspetto quanto piuttosto quello dei fondamenti che giustificano l’affermazione o la negazione dell’esistenza di Dio. Nel primo discorso ai fedeli pronunciato dal balcone della basilica di San Pietro, Pio XIII tuona minaccioso: «Non si deve provare l’esistenza di Dio! Se non siete in grado di dimostrare l’inesistenza, allora significa che Dio esiste». Si tratta di una tesi che vale la pena analizzare nelle sue implicazioni.

Che Dio esiste
L’affermazione infatti è molto meno banale di quanto possa apparire (e le sue conseguenze non sono desiderabili per la Chiesa). Che Dio esiste significa che Dio è un’evidenza immediata e tale immediatezza implica almeno tre cose. In primo luogo che essa non si costituisce in riferimento ad un’altra idea bensì è causata da sé: se l’idea di Dio fosse causata da un’altra idea essa non potrebbe costituirsi con i caratteri che le sono propri, in particolare quelli dell’infinità e dell’indeterminatezza. In secondo luogo che Dio, percepito come essere pensante, produce un’idea di sé tale da essere unito all’oggetto: in questo modo essa non è né prodotto dell’immaginazione né prodotto della ragione. Infine che l’idea di Dio è originaria della mente, ovvero l’intelletto inteso come terzo genere di conoscenza, e non necessita di dimostrazioni che appartengono alla sfera della ragione (come la distinzione tra essenza ed esistenza). Come si vede, si tratta di conseguenze che hanno il potere di sgombrare il campo da ogni rivelazione, intesa come comunicazione della divinità all’uomo fatta tramite segni e parole: che il desiderio di dire immediatamente che Dio esiste sia in capo ai pensieri del capo della Chiesa suona così come una grande contraddizione (come Lenny Belardo, sebbene per altre ragioni, continua a ripetere di se stesso).

Il metodo di stabilire prima l’esistenza di qualcosa (che è) e poi di stabilire l’essenza (che cos’è) ha una lunga tradizione. Quello che è interessante sapere è che esso è comune sia a san Tommaso, il filosofo per eccellenza del cristianesimo, che a Spinoza, ovvero colui che, anch’egli per eccellenza, viene considerato il filosofo più ateo e anticristiano della storia. Per Tommaso infatti, come si legge nella Summa teologica, l’esistenza di Dio è in sé cosa nota: l’idea di Dio, quo ad se, cioè considerata in se stessa, è quanto di più chiaro e distinto possa esserci. Tuttavia, e questa è la postilla decisiva, quo ad nos, cioè per l’intelletto, non è così: l’essere noto di Dio è in sé e non per noi. Per questo piccolo e apparentemente insignificante motivo le prove dell’esistenza di Dio sono date solo a posteriori, risalendo cioè dall’effetto alla causa, sicché esse possono darsi soltanto se partono dal mondo, sono cioè cosmologiche.

Spinoza liquida nel Breve Trattato l’argomento di Tommaso circa l’impossibilità di dimostrare Dio a priori per la “pretestuosa” ragione dell’aquinate secondo cui Dio non ha causa (ragione adottata da Tommaso per evitare una regressio ad infinitum). Spinoza dimostra invece l’esistenza di Dio in quanto causa sui (e quindi natura), ovvero a priori. «La mia filosofia parte da Dio» scrive in una lettera: ciò equivale ad assumere che l’intelletto umano è costituito dall’idea chiara e distinta di Dio senza la quale quel ragionamento non sarebbe possibile. Per poter partire da Dio è necessario che qualunque movimento dell’intelletto non possa prescindere dall’implicazione dell’idea di Dio. Questo Spinoza lo spiega non solo nel Breve Trattato ma anche nella quinta parte dell’Etica dove mostra in quale modo l’intelletto umano può avere un’idea adeguata, oltreché chiara e distinta, dell’essenza di Dio. Anche qui emerge il rifiuto della tradizione scolastica il cui caposaldo invece è che l’intelletto umano non possiede un’idea chiara e distinta di Dio. Il Dio di Spinoza invece, essendo definito come esistenza necessaria, diventa costitutivo dell’intelletto il quale non può svolgere alcun atto senza implicare la nozione dell’esistenza necessaria. La ragione sta in questa semplice dimostrazione: qualunque cosa noi pensiamo, la pensiamo affermando o negando, cioè diciamo è oppure non è; ma dire “è” oppure “non è” implica un’idea della necessità dell’esistenza perché se noi non avessimo questa idea, non potremmo affermare niente. Detto al rovescio: per poter affermare l’esistenza non necessaria, è necessario avere un’idea dell’esistenza necessaria. Questa idea dell’esistenza necessaria è l’idea di Dio. Per questo, in quanto costitutiva dell’intelletto, la conoscenza di Dio è immediata, sicché non si ha intelletto finché non c’è questa idea. L’idea di Dio è quindi capire che questa esistenza è necessaria, perché altrimenti non potremmo pensare nessun’altra esistenza come data. Questo significa anche che la dimostrazione della legittimità di questo punto di partenza si troverà soltanto alla fine quando, dopo essere partiti da Dio e passati attraverso la natura dell’uomo, si comprende perché era necessario prendere le mosse dall’essere assolutamente necessario. L’obiezione di Spinoza a Tommaso è rivolta all’intera tradizione scolastica ed è insuperabile se si rimane in un quadro che prevede l’uso degli strumenti dell’intelletto, sicché contro di essa si deve ricorrere a tesi nate nell’ambito dell’odierna filosofia analitica e scientifica: in altre parole, la teologia si ritrova oggi alleata della scienza moderna la quale, con il suo carattere ipotetico, è il giocatore più nichilista di tutti.

Gli argomenti sull’esistenza di Dio e la fine della teologia speculativa
Nella storia delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio si è soliti distinguere tra prova ontologica e prova cosmologica, rispettivamente dette anche come prova a priori e prova a posteriori. Quella ontologica si dice tale perché Dio viene dimostrato partendo dalla sua stessa definizione: nelle parole di Sant’Anselmo d’Aosta, Dio è l’essere rispetto al quale nulla di più grande può essere concepito e da ciò discende che negare la sua esistenza significa negare il suo stesso concetto. L’argomento ontologico è reso rigoroso solo affermando la non contraddittorietà dell’idea di Dio, ovvero l’opposto di ciò che, a dispetto del discorso iniziale di Lenny Belardo (Pio XIII), viene continuamente dichiarato, ovvero il principio che Dio sia una contraddizione.

Dopo Kant tuttavia, sia l’argomento ontologico che quello cosmologico sono stati relegati in soffitta e così lo stesso armamentario delle prove sull’esistenza di Dio. Se Hume ne aveva già mostrato la loro insostenibilità, lo stritolatore di Königsberg aggiunse alle due precedenti la prova fisico-teologica riordinando il sistema: da una parte inseriva la prova ontologica e quella cosmologica nell’ambito delle prove trascendentali, in quanto indipendenti da prove empiriche (e così facendo trasferiva la prova cosmologica nell’ambito dell’a priori); dall’altra indicava nella prova fisico-teologica l’unica prova a posteriori, cioè dipendente dall’esperienza, grazie alla quale, muovendo dai fenomeni, si conosce Dio dalla conformazione delle cose del mondo. Questo nuovo schema era finalizzato al sostanziale rifiuto di tutte le prove sull’esistenza di Dio, così come ampiamente dimostrato nella Critica della ragion pura (A584/B612 fino ad A642/B670). Kant osservava che, a fondamento di tutte le prove, vi è la prova ontologica dell’esistenza di un unico essere originario quale essere supremo e così introduceva la distinzione tra logica ed esistenza: se in un giudizio nego il predicato mantenendo il soggetto, ne risulta una contraddizione («porre un triangolo e negare al contempo i suoi tre angoli è contraddittorio»); ma se si nega soggetto e predicato insieme non nasce alcuna contraddizione (ovvero, «negare il triangolo e i suoi tre angoli non importa contraddizione»): allo stesso modo, nella frase “Dio non è”, non si riscontra la benché minima contraddizione. Scrivendo (nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura) di aver dovuto togliere il sapere al fine di giungere alla fede, Kant poneva termine alla teologia speculativa e dichiarava l’impossibilità di prendere le mosse da un qualsiasi essere necessario e il conseguente riconoscimento del fondamento nichilistico del pensiero («nulla può impedirmi di pensare il non essere di qualsiasi cosa esistente»). Era la rinuncia all’idea di verità e alle prove razionali su Dio il quale, ormai, diventava soltanto un’utile supposizione per regolare le azioni umane. Non senza una punta di ironia Schopenhauer commentava che Kant avrebbe dovuto aggiungere una quarta prova alle dimostrazioni di Dio (definita come cheraunologica) fondata sul sentimento della bisognosità, dell’impotenza e della dipendenza dell’uomo di fronte alle forze naturali. Con ciò, si era ormai giunti alle porte dell’ateismo filosofico moderno.

 

The young Pope e quell’amore segno di contraddizione (I)

Sulla serie TV The Young Pope di Paolo Sorrentino, andata in onda in Italia su Sky lo scorso autunno ed ora iniziata negli Stati Uniti dove sta riscuotendo un successo simile a quello conosciuto nel Belpaese, sono stati scritti decine e decine di commenti e di recensioni. Basta impostare la ricerca su Google per rendersi conto del dibattito e del clamore suscitato da questo che di fatto è un film della durata di oltre dieci ore. Noi non vogliamo aggiungerci ad essi o descriverne la trama, la sceneggiatura, l’estetica, la congruenza o meno del racconto con la realtà e tantomeno dare un giudizio cinematografico sull’opera del geniale regista napoletano. Ancora meno ci interessano i motivi per i quali è stata prodotta e il genere di operazione a cui si è inteso procedere, commenti questi spesso numerosi e polemici nel nostro Paese: come se (tanto per rimanere in tema) la basilica di San Pietro fosse stata costruita per motivi esclusivamente religiosi e non anche per legittime ragioni di carattere commerciale ed economiche. La nostra attenzione si basa sul semplice fatto che la serie contiene un enorme mole di temi filosofici, teologici e politici che vale la pena esaminare. Tantissime conversazioni dotte, a volte un vero e proprio profluvio di parole: per ammissione dello stesso Sorrentino, il parlare è addirittura “estenuante”, i dialoghi non danno tregua. Già alla fine della terza puntata è possibile riassumere i temi cruciali: dal silenzio di Dio all’incapacità di credere; dalla radicale solitudine umana al Dio che incute terrore e paura; dal tema dell’assenza-presenza del divino a quello dell’impossibilità di dimostrare l’inesistenza di Dio. In tre articoli, cercheremo di mettere a fuoco quelle che secondo noi sono le principali questioni della serie televisiva: l’amore di e verso Dio, la sua esistenza o non esistenza, la natura e il futuro della Chiesa cattolica. Ne daremo conto sviluppando questi temi non solo ripercorrendo le modalità con cui vengono presentati nella vicenda televisiva ma anche e soprattutto per far emergere concetti e rimandi a dottrine filosofiche.

Amore umano contro amor dei intellectualis
Secondo le parole del produttore di Sky, The Young Pope è una serie TV che parla essenzialmente d’amore: l’ambizione del Papa è fare una rivoluzione nella Chiesa e la chiave per realizzarla è la sua idea dell’amore verso gli altri e verso Dio. La vicenda ruota attorno al giovane papa americano, Lenny Belardo, eletto in modo quasi accidentale ed involontario dai cardinali durante le schermaglie diplomatiche per l’elezione dei rispettivi candidati al soglio di Pietro. Pio XIII, secondo il nome scelto dal nuovo eletto, non solo non ha una visione precisa di come condurre il suo ministero (la cerca espressamente nel cardinale suo direttore spirituale) ma soprattutto ha una fede oscillante e insicura tanto che egli stesso si dichiara, così come Dio, essere una palese contraddizione. Il papa è un orfano e per tutta la sua vita ha rincorso la figura del padre e dei genitori. La struttura psicologica che sorregge la scelta di fede è chiaramente derivata dal modello freudiano in cui la religiosità si alimenta della nostalgia del senso del padre. È la celebre tesi espressa nel Disagio della civiltà, opera del 1927: «L’origine dell’atteggiamento religioso può venire individuata nei suoi chiari contorni risalendo al sentimento di impotenza dell’infanzia; ed è incontrovertibile la derivazione dei bisogni religiosi, dall’impotenza infantile e dalla conseguente nostalgia del padre» (Freud, Disagio della civiltà, pp.512-513).
Quali sono le basi pratiche ed intellettuali sulle quali il pontefice si appresta a fare la sua rivoluzione fondata sull’amore? Egli deve mettere mano ad una grave difficoltà. Come riconosce esplicitamente nella quarta puntata, la Chiesa deve affrontare la sfida più grande e più ardua di tutte: Spinoza. Secondo le parole di Pio XIII, sussurrate all’orecchio di una donna in cerca di consigli su come pregare, «colui che ama Dio non deve pretendere che Dio, a sua volta, lo ami». Si tratta del riferimento implicito a Etica, parte 5, proposizione 19 (E5P19): «Chi ama Dio non può essere spinto a farsi riamare da Dio». La proposizione di Spinoza, unico filosofo citato in tutte e dieci le puntate, aveva commosso Goethe per il suo amore disinteressato. Essa giunge all’apice di una serie di argomentazioni tra cui quella secondo cui Dio, propriamente, non ama né odia nessuno: «Dio non ha passioni e non prova alcun affetto di gioia o di tristezza» (E5P17). L’argomento era già stato enunciato nel Breve trattato, sorta di manuale esplicativo dell’opera maggiore, scritto e mai pubblicato dall’autore durante la sua vita. Nel capitolo 24 della parte II, intitolato Dell’amore di Dio per l’uomo, Spinoza stabilisce quattro principi: 1) a Dio non può essere attribuito alcun modo di pensare: di conseguenza non si può dire che Dio ama gli uomini; 2) amare significa attribuire a Dio una grande mutevolezza e questo, riferito a ciò che per sua natura è infinito ed assoluto, è assurdo; 3) le affermazioni precedenti non significano che Dio lascia l’uomo solo in quanto tutto è in Dio e non può esserci amore per qualcos’altro; 4) Dio non stabilisce leggi che gli uomini possano trasgredire. In questo modo Spinoza conclude che, per avere conoscenza di Dio, è necessario conoscere la sua essenza e l’intelletto umano. Nell’Etica la questione è ancora più semplice in quanto l’amore intellettuale della mente verso Dio è lo stesso amore con il quale Dio ama se stesso: l’amore degli uomini verso Dio e l’amore di Dio verso gli uomini sono una sola e medesima cosa. (E5P36). Si tratta del cosiddetto Amor dei intellectualis il quale, descritto come ciò che nasce dalla conoscenza intellettuale, è eterno (E5P33).

Amore antropomorfico contro amore della conoscenza
Un simile amore distrugge il principio di scambio che sta a fondamento dell’amore di ogni religione e senza il quale è difficile, se non impossibile, che essa non vada incontro alla sua distruzione. Cos’è infatti la religione se non quel sentimento che induce a pregare Dio in cambio del benessere atteso in questa terra o nell’aldilà? Non è forse la religione quel sentimento diretto a beneficiare l’oggetto del proprio amore per averne un ritorno? Nel discorso inaugurale (che, detto tra parentesi, sembra essere stato ripreso da Donald Trump con quel suo retorico appello ai dimenticati) Pio XIII invoca la piena armonia con Dio. Ma nella ricerca di quell’amore che la realizzerebbe non è sufficiente il fatto che l’amore dell’uomo per Dio riposi sul fondamento dell’amore di Dio per l’uomo (questo è anche del cristianesimo); quello che fa problema è soprattutto l’idea che l’amore di Dio, inteso in senso spinoziano, non è altro che la sua legge universale ed eterna che si esprime in generale nella conoscenza della natura ed in particolare nella conoscenza della natura eterna della mente umana. Detto in parole più semplici: l’amore per Dio è l’amore per la scienza. Einstein faceva dipendere le conquiste dei grandi scienziati dalla convinzione che questo nostro universo può essere conosciuto solo attraverso lo sforzo razionale. Il più celebre tra i fisici scrive in una lettera che «Se questa convinzione non avesse suscitato forti emozioni e se quegli uomini nelle loro ricerche per raggiungere la conoscenza non fossero stati spinti dall’amor dei intellectualis di Spinoza, difficilmente sarebbero stati capaci di quell’instancabile devozione che sola permette all’uomo di giungere alla sue più grandi conquiste». Anche Max Weber esemplificava questo ragionamento al termine del suo testamento-capolavoro, La scienza come professione. Contro la richiesta del sacrificio dell’intelletto, tipica della religione, egli scrive facendo riferimento ad un versetto biblico: «Una voce chiama da Seir in Edom: Sentinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: Verrà il mattino ma è ancor notte. Se volete domandare domandate, ma tornate un’altra volta. Da ciò vogliamo trarre l’ammonimento che la morale di anelare ed attendere non basta: quello che bisogna fare è mettersi al lavoro ed adempiere al compito quotidiano nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice farlo quando  concludeva Weber  ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita». Si potrebbe obiettare che l’amor dei intellectualis è appunto qualcosa di meramente intellettuale, quindi parziale e riguardante una sfera umana specifica. La risposta a tale obiezione, che evidentemente non viene avanzata da Pio XIII che la considera al contrario la sfida più grande, è duplice: non solo l’amor dei intellectualis produce a sua volta l’affetto più potente in grado di muovere l’uomo alla virtù, ma esso è intimamente di natura pratica in quanto solo il pensiero può generare la prassi umana.
Si dice che il cristianesimo sia la religione dell’amore. Dio stesso è definito amore nel vangelo di Giovanni e nelle sue Epistole (1Gv 4,16). In che modo il Dio cristiano può rispondere alla sfida di Spinoza? La prima cosa da fare è l’eliminazione di ogni traccia di antropomorfismo nell’amore di Dio. Solo quando Dio non avrà attributi umani, e soprattutto quando la rivelazione, anche la rivelazione del suo amore, si spoglierà di ogni segno, si potrà sfidare Spinoza: la sfida più ardua consiste nella rinuncia alla rivelazione e ai segni con i quali essa si trasmette. Fatto ciò (e già la cosa è piuttosto difficile) si dovrebbe tentare di trovare un luogo nella Scrittura che possa rimandare ad una certa indifferenza nell’amore di dio. L’unico testo a questo scopo è (forse, e con tutte le riserve del caso) il finale del vangelo di Giovanni quando Gesù, alla domanda di Pietro che chiedeva conto del discepolo che gli era accanto, rispose bruscamente che la questione non lo doveva interessare: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?» (Gv 21, 22-23). In altre parole, Gesù non solo non lega il proprio amore ad alcun gesto di ricompensa, ma comunica a Pietro l’idea che Dio ama indifferentemente senza alcun vincolo nei confronti delle sue creature e senza discernimento tra persone. Ma tutto ciò, sia detto, è un’interpretazione che lasciamo ai teologi. Pio XIII sceglie la strada dell’amore folle e misterioso, cioè la strada del fanatismo: «Solo il fanatismo è amore», proclama nella quinta puntata, tutto il resto deve restare fuori dalla Chiesa. Essa è diventata popolare ed ha ricevuto e riceve continuamente stima anche da parte di non credenti. Ma quello che si vuole ora è la totale devozione a Dio: l’amore non si misura con i numeri ma solo con l’intensità. Con una punta di fatalismo (sempre guardato con timore dalla chiesa) il papa stabilisce una sorta di destino ineluttabile: qualunque cosa esso sia, non abbiamo scelta: alla fine dobbiamo per forza trovare l’amore. Ma nonostante lo struggente finale, a dominare è ancora un antropomorfismo (un po’ deludente a dir la verità) secondo il quale solo il sorriso, attributo di Dio, può salvare il mondo e la fede. Alla sfida dell’ebreo, vero segno di contraddizione, non viene data risposta. Come scrive Borges, «il più generoso amore gli fu largito, l’amore che non chiede di essere amato». Vale la pena ripeterlo: nell’amore dell’uomo verso Dio è Dio che ama se stesso. Tra le innumerevoli conseguenze di tale principio, c’è n’è una che va sottolineata: non è la virtù a produrre l’amore, ma è l’amore a produrre la virtù. È in questa comprensione che risiede la vera rivoluzione della fede.