La vita di Spinoza è un argomento affascinante. Alcuni hanno pensato che lo stile posato e placido potesse rivelare molto della sua filosofia; altri l’hanno definita come attraversata da una falsa modestia. Quel che è certo è che Spinoza non ha condotto una vita frizzante, mondana o sopra le righe. È per questo che Borges tratteggia uno Spinoza curvo e in disparte, impegnato a superare di gran lunga lo strato della superficialità. «[…] Qualcuno costruisce Dio nella penombra. / Un uomo genera Dio. È un ebreo / Di tristi occhi e di pelle olivastra […]» (Borges, 2002).
L’Epistolario spinoziano – ben più degli accenni biografici che si possono trovare sparsi fra le sue opere – è quindi un luogo interessante per ritrovare uno Spinoza privato, amichevole, che discute vivacemente di filosofia e di temi a lui cari. Come si fa notare in più di un’occasione nel recente Amice Colende. Temi, storia e linguaggio nell’epistolario spinoziano (De Bastiani, Manzi-Manzi, 2021), le lettere non possono leggersi come “parafrasi” dello spinozismo. Vorrebbe dire depotenziarle, renderle puro mezzo di speculazione. Ogni testo, invece, acquista una sua forma e una propria forza rispetto all’oggetto verso cui è diretto. Nella prassi del discorso (intendiamo qui la parola discorso nella sua accezione meno prescrittiva possibile) l’interlocutore non è mai neutro. Se non lo è per i libri, figuriamoci per l’epistolario privato.
Come scrive Daniela Bostrenghi nel suo intervento, soprattutto per chi, come noi che abbiamo la possibilità di leggerlo solo a distanza di secoli, l’Epistolario è «da intendersi ― tra gli altri spunti offerti dalle sue pagine ― come documento (o, meglio, insieme di documenti), significativo per la storia della critica e per la storia della ricezione del pensiero di Spinoza» (Ibidem, p. 57). Ma di più, aggiungo, esso ci mostra come Spinoza “piegasse” il proprio linguaggio al mutare del corrispondente, lo tarasse in base all’argomento trattato e alla stringente necessità che emergeva ogni volta.
È il caso della lettera a Pieter Balling (la numero 17 secondo la numerazione Gebhardt, la numero 35 invece nell’edizione tradotta da Filippo Mignini e Omero Proietti), spedita da Spinoza al suo amico il 20 luglio 1664 da Voorburg. In questa lettera il filosofo olandese risponde all’amico che aveva precedentemente sottoposto alla sua attenzione il racconto di due scene che gli parvero premonizioni di un futuro poi avveratosi. Come spiega Maxime Rovere nel suo contributo, la risposta di Spinoza amplia di molto la profondità della dottrina dell’immaginazione. Balling, infatti, informava Spinoza di aver udito suo figlio gemere, quando era ancora sano e in forze, allo stesso modo in cui egli fece poco prima di morire. Il filosofo spiega ― con rapidità ― che l’immaginazione, fatta tanto di mente quanto di corpo, è atta a produrre delle immagini così vivide che sembrano vere, reali. E, tanto più la mente e il corpo sono perfetti, tanto più l’ars imaginandi acquisisce le forme esterne e le plasma a sua volta. Conclude Rovere: in questa lettera Spinoza si prende cura del suo amico Balling, senza propinargli un altissimo concetto filosofico, ma fornendosi della filosofia per consolarlo, per dare una spiegazione razionale di quanto gli era capitato. In questa lettera ― in forma personalissima ― «la scrittura perviene a riempire la sua principale funzione: rendere la vita migliore grazie al solo fatto che, attraverso una concatenazione di idee, possiamo comprendere non tutto, ma almeno qualcosa della nostra esperienza, e che questo aiuta gli essere umani a restare in piedi, insieme» (Ibidem, 113).
Il fascino e l’importanza filosofica dell’Epistolario spinoziano non si limitano dunque a mostrare il contesto e la cerchia di amici intorno a Spinoza (del loro ruolo, impegnati dopo la morte di Spinoza nella pubblicazione dell’Opera Posthuma così come della genesi dell’Epistolario, si occupa Giovanni Licata nel primo dei contributi del volume), ma ci mostrano uno Spinoza in azione. Come scrive Cristina Santinelli, infatti, nelle lettere si vede la messa in pratica dell’assidua meditatio di cui Spinoza si faceva portavoce sulla scia delle sue fonti latine. Ciò mostra come la «cattedrale di ghiaccio», come Guido Ceronetti definiva l’Etica, in realtà fosse abitata da spiriti mobili, caldi, vogliosi di verità e capaci di installare il proprio linguaggio a seconda del livello al quale avevano deciso di accedere.
Oltre alle diverse interpretazioni di alcuni passaggi nodali del sistema spinoziano – perché è innegabile che le lettere ci regalino anche qualche approfondimento diacronico dei testi –, in quelle pagine traspare l’idea di una filosofia come modus vivendi; la potenza espressa del corpo e della mente; la felicitas e il gaudium dovuti al rapporto intessuto con altissime personalità (è il caso, ad esempio, del carteggio con Oldenburg). In definitiva, l’Epistolario è «un’occasione per sperimentare una delle tesi più forti dello spinozismo: gli uomini convengono in natura se seguono la ragione e sono in disaccordo solo nella misura in cui sono soggetti alle passioni», come scrive Jacques-Louis Lantoine (Ibidem, p. 133). Riprova di ciò sono i carteggi con quelli che Diego Tatián definisce «I corrispondenti ostili: Burgh, Stensen, Blyenbergh e Velthuysen» (Ibidem, p. 115). Con questi Spinoza entra in contrasto, utilizzando spesso anche un linguaggio per niente prudente e, anzi, mostrandosi deciso a salvaguardare i principi filosofici da cui muovono le sue riflessioni. Questi «scambi ostili – segnala Tatián – mostrano uno Spinoza disposto a abbandonare le sue prudenti precauzioni imposte dall’“epoca presente” ed è lì, in questi pochi casi, che le idee si spogliano di quelle “reticenze” che intendevano lasciar passare inosservata la sua radicalità» (Ibidem, p. 132).
La lettura di questi saggi, quindi, non solo può aiutarci ad identificare alcuni temi dell’Epistolario entro una cornice più ricca e illuminata ma, anche, ci costringono a una riflessione: la vita di Spinoza, così intrecciata alle sue opere e alla sua filosofia, non si può prendere e definire una volta per tutte. Come scrive sempre Borges, infatti, nella già citata poesia: «Il tempo lo trasporta come trascina il fiume / una foglia nell’acqua che discende. / Non importa. Il mago insiste e foggia / Dio con geometria raffinata». Spinoza sfugge, quindi, si nasconde e si mostra sempre nascondendosi. È forse anche questo a renderlo affascinante e sublime, così apparentemente distante eppure così dentro alle cose più abitudinarie.
Di questa inesauribile ricerca l’Epistolario restituisce un affresco privato e “parlante”; Amice Colende, che raccoglie i contributi del primo incontro pubblico organizzato dagli amici della Societas Spinozana a Roma il 21 dicembre 2017, cerca di organizzarne alcuni, di segnare una prima traccia di ricerca che ha ancora da venire.
Riferimenti bibliografici
– De Bastiani, Marta Libertà – Manzi-Manzi, Sandra (a cura di). 2021. Amice Colende. Temi, Storia e linguaggio nell’epistolario Spinoziano. Sesto San Giovanni: Mimesis.
– Borges, Jorge Luis. 2002. Tutte le opere. Milano: Meridiani Mondadori.