Vita attraverso le lettere

La vita di Spinoza è un argomento affascinante. Alcuni hanno pensato che lo stile posato e placido potesse rivelare molto della sua filosofia; altri l’hanno definita come attraversata da una falsa modestia. Quel che è certo è che Spinoza non ha condotto una vita frizzante, mondana o sopra le righe. È per questo che Borges tratteggia uno Spinoza curvo e in disparte, impegnato a superare di gran lunga lo strato della superficialità. «[…] Qualcuno costruisce Dio nella penombra. / Un uomo genera Dio. È un ebreo / Di tristi occhi e di pelle olivastra […]» (Borges, 2002). 

L’Epistolario spinoziano – ben più degli accenni biografici che si possono trovare sparsi fra le sue opere – è quindi un luogo interessante per ritrovare uno Spinoza privato, amichevole, che discute vivacemente di filosofia e di temi a lui cari. Come si fa notare in più di un’occasione nel recente Amice Colende. Temi, storia e linguaggio nell’epistolario spinoziano (De Bastiani, Manzi-Manzi, 2021), le lettere non possono leggersi come “parafrasi” dello spinozismo. Vorrebbe dire depotenziarle, renderle puro mezzo di speculazione. Ogni testo, invece, acquista una sua forma e una propria forza rispetto all’oggetto verso cui è diretto. Nella prassi del discorso (intendiamo qui la parola discorso nella sua accezione meno prescrittiva possibile) l’interlocutore non è mai neutro. Se non lo è per i libri, figuriamoci per l’epistolario privato. 

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Un tentativo di colmare l’abisso

CeronettiSabato 8 novembre 2014, al Museo San Francesco di Nocera Umbra, verrà presentato il volume — curato dal nostro Giovanni  Marinangeli — contenente l’epistolario fra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio (Un tentativo di colmare l’abisso. Lettere 1968 – 1996, a cura di Giovanni Marinangeli, Adelphi, 2014, p. 444). Alla presentazione interverranno, oltre al curatore dell’opera, Roberto Lazzerini, Anna Giannatiempo Quinzio, Mariano Borgognoni.

Arte versus Religio. Ma anche Atene contro Gerusalemme. (Sola) Scriptura contro scrittura. Di certo la sensazione netta di essere di fronte a due diatribisti medievali, piuttosto che a due intellettuali, pur tra i più atipici e originali del novecento culturale italiano. Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, due padri adelphiani della prima ora, che la casa editrice milanese celebra pubblicandone il quasi trentennale carteggio. Due testimoni lucidi, per certi versi spietati, più ospiti che protagonisti del secolo nel quale hanno inscritto le matrici della loro opera, e  il cantus firmus della loro inossidabile amicizia. Un’amicizia circoscritta in un triangolo spazio-temporale ben definito: Alassio, Torino, il 1927, anno della comune epifania. Due vite segnate dalla abissale contaminazione col Sacro e con la parola, da quella poetica a quella scritturale, che l’epistolario restituisce in una policromia di sfumature e di rimandi serrati, nel quale il lettore (sempre impudico nel caso di una privata corrispondenza) si trova vorticosamente ad oscillare, lettera dopo lettera. Due fedi assolute, infrangibili, reciprocamente irriducibili: da un lato quella, teologicamente “scandalosa”, paolina di Sergio Quinzio nella resurrezione della carne, nella consolazione finale; dall’altro quella filosoficamente tenace di Guido Ceronetti nel potere salvifico della gnosi. Due Weltanschauung diverse e opposte, che non avrebbero potuto essere sostenute con migliore forza retorica e con maggiore rigore morale, nelle quasi trecento missive del carteggio: pagine in cui non mancano anche i segni, talvolta le stimmate, di una straordinaria cifra umana.