La ricerca filosofica sorge come domanda di verità. Essa, insomma, si configura a muovere dalla domanda se ciò che si presenta, e si presenta nell’ordinario esperire, sia effettivamente vero, cioè se la sua verità coincida effettivamente con la forma del suo presentarsi.
Il valore della domanda non viene misconosciuto, giacché non si può non riconoscere che la ricerca sorge nell’intento di rispondere, direttamente o indirettamente, alla domanda di verità. La vera difficoltà, invece, consiste nel rispondere a tale domanda, ossia nel definire cosa sia effettivamente “verità”. Ebbene, la difficoltà nel rispondere ha prodotto la rinuncia alla ricerca radicale e ha suggerito l’obiettivo di stabilire solo se la teoria sia conforme all’esperienza che intende spiegare, onde mettere l’uomo nella condizione di poter prevedere l’esperienza e di intervenire su di essa.
La domanda, tuttavia, è originaria proprio perché è innegabile. La sua innegabilità risulta incontrovertibilmente dalla pretesa di negarla: tale negazione non potrebbe non valere quale risposta alla domanda se la domanda sia o non sia innegabile. Né la domanda può venire elusa. Eludere la domanda di verità, infatti, significa assumere come vero qualcosa, dunque presupporlo senza porlo veramente.
Se la verità venisse assunta acriticamente, questo è il punto, essa decadrebbe a mero presupposto, a premessa indimostrata; di contro, il pensiero, se è autentico, non può non intendere di dimostrare, poiché solo la dimostrazione lascia emergere la verità nel suo essere “verità” e, dunque, configura un’effettiva risposta alla domanda fondamentale, non una semplice pretesa, un arbitrario asserire.
La tradizione teoretico-speculativa, iniziata con Socrate, ha resistito fino ai giorni nostri, anche se è stata spesso accolta con sospetto proprio perché tendente a scardinare certezze. Le certezze sono sempre “verità soggettive”, dunque relative, laddove la “verità oggettiva” non può che essere assoluta e per questo emergente oltre l’ordine delle determinazioni, così che si può solo in-tendere di volgersi ad essa, mai pre-tendere di possederla.
E tuttavia, non si può non rilevare che anche coloro, che pure hanno inteso evidenziare il valore della domanda e dell’intenzione di volgersi solo alla verità, non hanno potuto esimersi dal formulare una qualche risposta. La stessa affermazione, che asserisce il primato della domanda, altro non è che un tentativo di rispondere alla domanda fondamentale: si risponde, infatti, che la verità è, propriamente, la ricerca della verità, che è altro modo per affermare la verità della ricerca.
Come si evince da queste rapide riflessioni, la problematicità del conoscere sussiste come intrinseco rapporto tra il “domandare” e il “rispondere”: da una parte, il domandare non può venire disgiunto dall’intenzione di fornire una qualche risposta, così come, del resto, la ricerca non può non costituirsi come funzione del progetto di trovare un qualche punto fermo, che consenta, se non altro, di ripartire; dall’altra, nessuna risposta è in grado di estinguere la domanda fondamentale, così che questa riemerge incoercibilmente e spinge sempre avanti la ricerca.
La problematicità indicata ha valore strutturale e, dunque, si ripropone in ogni ambito teorico, in ogni campo determinato del conoscere. E, proprio per la ragione che gli infiniti asserti e discorsi devono venire riferiti a quella domanda fondamentale – che ne costituisce la genesi e la condizione di intelligibilità –, riteniamo che la ricerca teorica debba venire affiancata dalla consapevolezza teoretica, che consente di individuare problemi, senza per questo assolutizzarli.
Il conoscere che trionfa nell’epoca contemporanea, tuttavia, sembra porsi a prescindere dalla domanda di verità e, a volte, come rifiuto di essa. La filosofia speculativa, nel corso degli ultimi secoli, è stata considerata molto spesso un esercizio vuoto, un’astrattezza che non ha alcuna rilevanza per una ricerca che progetti di attenersi all’autentica realtà delle cose.
Se non che, è la stessa scienza che, proprio quando si esprime come ricerca autentica e radicale, riscopre le questioni fondamentali del sapere e mostra di rivolgersi a una filosofia che sappia pienamente svolgere la sua funzione teoretica. Ogni ricerca, infatti, è rivolta alla verità dell’oggetto intorno a cui si dispone e, se dichiara che il proprio fine è l’utile, ciò nondimeno intende che questo sia veramente tale, così che neppure l’utile può venire separato dal vero e l’esigenza di fondazione torna a riproporsi come innegabile: essa costituisce il senso anche di quel conoscere che esibisce un intento soltanto pratico-operativo.
Orbene, il riferimento alla realtà è espressione di questa esigenza di fondazione. Ordinariamente, si assume l’esperienza percettivo-sensibile, ossia i “dati” rilevati dai nostri sensi, come l’autentica realtà. Tali dati vengono anche definiti “fatti” proprio perché indiscutibili, stante l’indipendenza che si suppone essi abbiano rispetto ai punti di vista soggettivi. In questa concezione, la verità viene connotata come corrispondenza (adaequatio), e precisamente come corrispondenza tra la cosa reale (rei) e il conoscere (et intellectus) che esprime tale realtà mediante enunciati e mediante formule. Se il conoscere coglie le cose come esse effettivamente sono, allora si tratta di un conoscere vero; se, invece, non le coglie come effettivamente sono, allora si tratta di un conoscere non vero.
Il problema, però, consiste nella modalità di accertamento dell’essere delle cose. Per poter confrontare il conoscere con la realtà, ecco il problema, si dovrebbe poter cogliere la realtà direttamente, immediatamente, a prescindere dal processo conoscitivo. Si dovrebbe avere un accesso privilegiato al reale, diverso da quello che si ottiene in forza del processo conoscitivo. Solo in questo caso diventa possibile il confronto tra il reale, accolto a prescindere dal conoscere, e la descrizione che ne fornisce il conoscere stesso.
Si potrebbe obiettare che, per cogliere il reale, è sufficiente osservarlo. L’ingenuità di questa posizione, però, è ormai nota ed è nota non solo a chi cerca di pensare in senso speculativo. Anche in ambito epistemologico, infatti, la consapevolezza che ogni osservazione è “carica” di teoria e, dunque, non è mai neutra si è andata affermando in modo significativo nella seconda metà del Novecento. Tuttavia, recentemente la teoreticità dell’osservazione è stata fortemente discussa ed è tornato a imporsi un punto vista che tende ad assumere la realtà secondo la forma in cui essa si presenta all’ordinario esperire, ossia secondo la forma propria del senso comune.
Precisamente sul tema della realtà ci proponiamo ora di riflettere, perché a seconda di come si intende la vera realtà si configura una concezione naturalista oppure una concezione metafisica, fermo restando il fatto che anche alcuni sostenitori della concezione naturalista parlano di realismo metafisico per indicare il punto di vista per il quale è possibile cogliere la realtà oggettiva. Di contro, quando noi parliamo di concezione metafisica, contrapposta appunto a quella naturalista, intendiamo sottolineare non soltanto che la vera realtà emerge oltre la realtà naturale, ma anche che tale realtà, che è vera solo se assoluta, è bensì innegabile, ma proprio perché assoluta non è determinabile.
Per introdurre l’analisi, riteniamo utile ricordare che il tema della realtà è intrinsecamente vincolato a quello dell’esistenza. Che è come dire: la domanda intorno a quale sia la vera realtà tende a convertirsi nella domanda su quali siano le cose effettivamente esistenti.
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