Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l’esperienza per cui si è desiderato avere delle parole speciali per descrivere un momento speciale. Le parole a disposizione erano insufficienti e si avrebbe voluto avere un proprio linguaggio creato appositamente per la sensazione che si stava vivendo. Il desiderio sarebbe stato sensato? Sarebbe pensabile cioè un linguaggio in cui si potesse esprimere le proprie esperienze per uso personale? In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze interiori? In che modo designo le mie sensazioni con le parole?
Tutte domande che Wittgenstein si pone continuamente, non solo nelle sue Ricerche Filosofiche. E la sua risposta è negativa: un linguaggio privato non solo non si costituisce ma non è nemmeno pensabile. Nel suo stile irrequieto, frenetico, mai sistematico, egli utilizza almeno tre blocchi di argomenti: la definizione ostensiva (“questo è S”), la sensazione del dolore e la natura dei colori. In tutti questi casi, il filosofo austriaco intende demolire alla radice l’idea che un soggetto, nominando qualcosa, voglia indicare qualcosa che a sua volta si possa distinguere in reale ed irreale. Non esiste cioè una prospettiva ontologica che parta dal soggetto: l’idealismo, come dice in una sua lezione, si lega soprattutto ai dati di senso visivi. In parole più chiare, per chi è abituato a ragionare in filosofia aiutandosi con la storia della filosofia, Wittgenstein ha come riferimento polemico Cartesio e il cogito cartesiano, il cuore stesso dell’idealismo. Continue Reading