Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1969, traduzione di Carlo Pischedda.
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Indice
Introduzione, di Girolamo Arnaldi.
Profilo di Marc Bloch, di Lucien Febvre.
A Lucien Febvre (a guisa di dedica)
Introduzione.
I. La storia, gli uomini e il tempo.
I.1. La scelta dello storico.
I.2. La storia e gli uomini.
I.3. Il tempo storico.
I.4. L’idolo delle origini.
I.5. Limiti dell’attuale e del non attuale.
I.6. Comprendere il presente mediante il passato.
I.7. Comprendere il passato mediante il presente.
II. L’osservazione storica.
II.1. Caratteri generali dell’osservazione storica.
II.2. Le testimonianze.
II.3. La trasmissione delle testimonianze.
III. La critica.
III.1. Abbozzo di una storia del metodo critico.
III.2. Alla caccia della menzogna e dell’errore.
III.3. Saggio di una logica del metodo critico.
IV. L’analisi storica.
IV.1. Giudicare o comprendere?
IV.2. Dalla diversità dei fatti umani all’unità delle coscienze.
IV.3. La nomenclatura.
V. L’idea di causa.
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I. LA STORIA, GLI UOMINI E IL TEMPO.
I.2. La storia e gli uomini.
MB è contrario all’idea che la storia sia la scienza del passato (38). «L’oggetto della storia è per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini» (41). A proposito della specificità del linguaggio di ogni scienza, MB afferma: «i fatti umani sono essenzialmente fenomeni delicatissimi, molti dei quali sfuggono alle determinazioni matematiche. Per esprimerli bene e, di conseguenza, per bene intenderli (si comprende mai perfettamente quel che non si sa esprimere?) occorrono grande finezza di lingua e giusto colorito nel tono espressivo» (42).
1.4. L’idolo delle origini.
MB sottolinea la pericolosa contaminazione semantica che avviene, spesso inconsapevolmente, tra il concetto di origine e il concetto di spiegazione (44): «così che, forse, in parecchi casi il demone delle origini fu solamente un’incarnazione di quest’altro diabolico nemico della storia genuina: la mania del giudizio» (45).
1.6. Comprendere il presente mediante il passato.
Secondo MB, il privilegio di autointelligibilità riconosciuto al presente riposta su strani postulati (50). In primo luogo, presuppone che le condizioni umane subiscano un mutamento radicale ed assoluto nel volgere di una o due generazioni: postulato che dimentica l’inerzia di molte creazioni sociali (51). Sia la tradizione orale (ad esempio l’educazione dei giovani, lasciata ai più anziani) sia la tradizione scritta, che stratifica continuamente prospettive e abiti mentali (52). E’ dunque «necessario che nella natura umana e nelle umane società ci sia un sostrato immutabile; altrimenti, i nomi stessi di uomo e di società non significherebbero nulla. Pensiamo forse di poterli conoscere, gli uomini, studiandone soltanto le reazioni di fronte alle circostanze peculiari a una dato momento? L’esperienza si dimostrerà insufficiente a cogliere quel che essi sono anche in quel dato momento (…). Un’esperienza unica è sempre impotente a discriminare i propri fattori e, quindi, a fornire la sua propria interpretazione» (53).
1.7. Comprendere il passato mediante il presente.
La relazione di intellegibilità tra epoche deve essere bidirezionale: «L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente (…). Questa facoltà di apprendere ciò che vive: ecco la massima virtù dello storico» (54).
Noi usiamo sempre, sia pure inconsapevolmente, categorie del presente per “strutturare” la comprensione del passato. A tale impregnazione istintiva è bene allora sostituire una osservazione razionale e controllata: «L’erudito che non ami osservare intorno a sé gli uomini, né le cose, né gli eventi, meriterà forse il nome di utile antiquario. Farà bene a rinunciare a quello di storico» (55).
La scienza degli uomini nel tempo può dunque ragionevolmente (e per motivi di inveterata tradizione) essere chiamata “storia”: «e la sola storia vera, che non può farsi se non per aiuto reciproco, è la storia universale» (57).
Se tuttavia una scienza non è definibile soltanto attraverso il suo oggetto ma anche attraverso il suo metodo, ci si dovrà porre il problema se, via via che ci si allontani dal presente, la variazione delle tecniche d’indagine non implichi -alla fine- una radicale differenziazione dell’indagine stessa. Il che significa porre il problema dell’osservazione storica (57).
II. L’OSSERVAZIONE STORICA.
II.1. Caratteri generali dell’osservazione storica.
E’ in primo luogo necessario sgomberare il campo dal luogo comune a mente del quale la conoscenza del passato, all’opposto di quella del presente, sarebbe necessariamente sempre “indiretta”. (58).
In primo luogo, va chiarito che anche gli eventi presenti vengono conosciuti attraverso l’intermediazione di un altro soggetto (si veda l’esempio del generale in relazione alla conoscenza della battaglia che ha condotto): «la famosa osservazione diretta, preteso priviliegio dello studio del presente (…) è quasi sempre un’illusione, non appena l’orizzonte dell’osservatore si allarghi un po’. Qualsiasi raccolta di cose viste comprende un buona metà di cose viste da altri» (59). Su questo punto, l’investigatore del presente non è affatto più favorito dello storico del passato (61).
D’altro canto, siamo certi che l’osservazione del passato, anche remotissimo, sia sempre così indiretta? Spesso lo storico osserva direttamente oggetti (materiali e immateriali) che lo pongono in correlazione diretta -cioè senza intermediazione di un altro soggetto- con il fenomeno storico che intende studiare (62). Ne consegue che «la conoscenza di tutti i fatti umani nel passato, e della maggior parte di essi nel presente, ha come sua prima caratteristica quella di essere una conoscenza per via di tracce» (63). Esistono poi infinite variazioni tra i mezzi di indagine, dipendenti dalla diversa emersione delle tracce. Qui l’importanza delle date riprende forza. In ogni caso, la quantità e la qualità delle tracce sono legate a fattori fortemente casuali: «la differenza tra l’indagine del passato remoto e quella del passato prossimo è, ancora una volta, una differenza di grado. Non tocca la sostanza dei metodi. Non perciò è meno importante (…). Il passato è, per definizione, un dato non modificabile. Ma la conoscenza del passato è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente» (65). Certo, esiste un limite: il passato vieta allo storico di conoscere ciò che non sia stato tramandato e tutta una parte della storia assume l’aspetto un po’ esangue di un modo senza individui.
II.2. Le testimonianze.
Le fonti narrative (cioè i racconti volutamente dedicanti ad informare i lettori) sono un prezioso aiuto per lo storico (67). Tuttavia, la ricerca storica confida sempre di più nelle fonti non narrative, cioè nei materiali originariamente diretti a svolgere funzioni diverse dalla narrazione dei fatti. Non che anche in questo genere di materiali siano immuni da menzogne o errori. Ma almeno la deformazione non è stata concepita per fuorviare i posteri. Inoltre, questi materiali permettono:
- di supplire alle fonti narrative, quando queste manchino;
- di controllarne la veridicità;
- di evitare l’adesione incondizionata ai pregiudizi, false prudenze e miopie delle fonti narrative e dunque, in ultima analisi, delle generazioni oggetto di studio (68).
Ed anche dalle fonti narrative, la parte più utile per il lavoro dello storico è quella che riguarda ciò che la fonte non aveva intenzione di dire: le vite dei santi medievali non sono per nulla utili suoi fatti che raccontano, ma diventano preziose per intendere i modi di vivere e di pensare dell’epoca di compilazione (69). Proprio perché ogni fonte può essere preziosa, se interrogata nel modo giusto, il metodo di interrogazione diviene determinante. MB sottolinea l’ingenuità di chi pensa che lo storico si limiti alla consultazione e alla verifica della veridicità di documenti (69).
I testi parlano soltanto a chi li sappia interrogare: «mai, in nessuna scienza, l’osservazione passiva -sempre nell’ipotesi che essa sia possibile- ha prodotto alcunché di fecondo» (70).
II.3. la trasmissione delle testimonianze.
L’importanza della strumentazione e della raccolta dei materiali, fondamentali a sorreggere poi la capacità e l’intuizione dello studioso. La corporazione accademica non è affidabile in questo compito di gestione scientifica dei materiali perché, al pari degli stati maggiori, ha conservato, nell’epoca dell’automobile, la mentalità del carro di buoi (!) (74). Ogni libro di storia dovrebbe contenere un capitolo che metta a nudo il meccanismo delle fonti: «sono persuaso che, a leggere queste confessioni, anche i lettori non specialisti troverebbero un vero piacere intellettuale. Lo spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie, raramente stanca. Il bell’e fatto, invece, provoca gelo e noia» (75).
Il miglior fornitore di fonti per lo storico è la catastrofe. Soltanto l’eruzione del Vesuvio ha conservato Pompei (76) e le confische rivoluzionarie francesi hanno consentito l’acquisizione agli archivi pubblici di documenti che altrimenti sarebbero andati dispersi per i mille rivoli delle storie personali degli antichi proprietari (77). Le società riusciranno ad organizzare, con la loro memoria, la loro conoscenza di sé «a patto di impegnare una lotta a fondo contro i due principali responsabili dell’oblio o dell’ignoranza: la negligenza, che smarrisce i documenti, e l’ancor peggiore mania del segreto -diplomatico, d’affari, di famiglia- che li nasconde e li distrugge (…). La nostra civiltà avrà fatto un gran passo avanti il giorno in cui la dissimulazione eretta a norma di comportamento e quasi a virtù borghese lascerà il posto al gusto per l’informazione: cioè a dire, necessariamente, per gl scambi di informazioni» (78-79) [!].
III. LA CRITICA.
III.1. Abbozzo di una storia del metodo critico.
Conferisce al Tractatus theologicus-politicus di Spinoza il rango di capolavoro di critica filologica e storica (84), ma sottolinea come le tecniche della critica furono a lungo praticate quasi esclusivamente «da un pugno di eruditi, di esegeti e di curiosi» (85). Se è vero che lo sfoggio di erudizione comporta testi appesantiti da inutili apparati d note, è pur vero che queste sono fondamentali per un serio lavoro: “quando non si tratti di liberi voli della fantasia, non si ha il diritto di presentare una affermazione se non a condizione che possa essere verificata; e per uno storico, quando usa un documento, l’indicarne il più concisamente possibile la provenienza, ossia il mezzo per ritrovarlo, equivale senz’altro a obbedire a una regola universale di probità» (87).
III.2. Alla caccia della menzogna e dell’errore.
Una volta constatato l’inganno, attraverso lo scrupoloso confronto fra le fonti, se ne devono scoprire i motivi. Spesso, l’eccesso di intellettualizzazione in tale ambito porta a sottovalutare che molte di queste ragioni non sono … ragionevoli: presso certi esseri la menzogna è un abito mentale (91). Altri elementi che fomentano la menzogna sono, anche in epoca moderna, «l’obbedienza a un codice, alquanto antiquato, di galateo letterario, il rispetto di una psicologia stereotipa, la smania del pittoresco» (95).
Importanza della psicologia della testimonianza (96). «In senso assoluto, il buon testimone non esiste: ci sono soltanto buone o cattive testimonianze. (…). Salvo poche eccezioni, si vede, si comprende bene soltanto ciò che ci proponiamo di percepire» (97).
La precisione nell’osservazione varia notevolmente non solo da individuo a individuo ma anche da epoca a epoca (99). In moltissime deformazioni della testimonianza «quasi sempre l’errore è orientato in anticipo. Soprattutto esso si diffonde, prende radici solo se si accorda con le convinzioni preconcette dell’opinione comune; diventa allora come lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti» (100).
III.3. Saggio di una logica del metodo critico.
La critica delle testimonianze, lavorando su elementi psicologici, sarà sesmpre un’arte fondata sulla discrezione. Ma è un’arte razionale, fondata sulla pratica metodica di alcune operazioni intellettuali (103).
IV. L’ANALISI STORICA.
IV.1. Giudicare o comprendere?
Due problemi da affrontare: quello dell’imparzialità storica e quello della storia come tentativo di riproduzione o come tentativo di analisi (121). La parola imparzialità è equivoca. Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Il primo, però, una volta osservato e spiegato i fatti, ha concluso il suo compito. Il secondo deve poi esprimere un giudizio, e questo implica comunque l’adesione a una tavola di valori (124). Ebbene, il giudizio di valore ha ragione d’essere soltanto come preparazione di un’azione ed in rapporto ad un sistema volontariamente accettato di punti di riferimento morale: «Nella vita quotidiana, le esigenze di comportamento ci impongono questa etichettatura, di solito molto sommaria. Là dove non possiamo più nulla, là dove gli ideali comunemente accettati differiscono profondamente dai nostri, essa non è che un impaccio» (124). Per lo storico, dunque, la presa di posizione “politica” è totalmente inutile. Il compito dello storico è la comprensione mentre, persino nell’azione, noi giudichiamo troppo e non comprendiamo mai abbastanza (127).
IV.2. Dalla diversità dei fatti umani all’unità delle coscienze.
La comprensione non sottintende un atteggiamento di passività. Come ogni cervello che percepisce, lo storico sceglie e separa: analizza (128). L’enorme varietà umana impone infiniti mutamenti prospettici nell’analisi anche della vicenda più minuta (131). La singola vita umana è costituita da infiniti piani, spesso in apparente contraddizione: ma «ci sono contraddizioni che assomigliano molto ad evasioni» (132). Stesso approccio si ripropone quando si passa dagli individui alle società. Non si può fare storia se non ci occupa del movimento che dai fatti attraversa le coscienze. La studio della rete delle relazioni tra i fatti è la ragion d’essere dell’analisi dei fatti stessi: «la conoscenza dei frammenti, studiati successivamente, ciascuno per conto suo, non produrrà mai quella dell’insieme; non produrrà neppure quella dei frammenti stessi» (135).
IV.3. La nomenclatura.
Del problema della classificazione (136). Il tallone d’achille della ricerca storica sta in questo: «Ogni analisi esige anzitutto, come strumento, un linguaggio appropriato; un linguaggio capace di tracciare con precisione i contorni dei fatti, pur conservando la duttilità necessaria per adattarsi progressivamente alle scoperte, un linguaggio soprattutto senza ondeggiamenti né equivoci» (137).
Il linguaggio va usato con grande attenzione. Già l’uso di nomenclature relative a oggetti materiali deve essere contestualizzata, per non stravolgere i significati. Ciò è particolarmente vero nell’ordine meno materiale, dove le trasformazioni avvengono troppo lentamente per essere percepibili dagli uomini stessi sui quali il mutamento esercita i suoi effetti: costoro non provano il bisogno di cambiare la parola, poiché non avvertono il mutamento di contenuto. Così come può avvenire che il nome muti o scompaia, senza alcuna variazione nello stato delle cose (139). Le stesse problematiche risultano indotte nella traduzione in differenti lingue di opere storiche (140), accortezza che deve essere tenuta presente anche per le stesse fonti: «Il grande catasto inglese fatto compilare da Guglielmo il Conquistatore, il famoso Domesday Book, fu opera di chierici normanni o del Maine. Non soltanto essi descrissero in latino istituzioni prettamente inglesi; ma le avevano prima ripensate in francese» (142). Spesso, poi, è lo stesso storico che, nel definire i termini del proprio lavoro, gli assegna significati arbitrari (150). Ancora, la suddivisione in aree temporali della ricerca storica deve essere utilizzata con grande consapevolezza, se non si vuole incorrere in inutili errori (156).
V. L’IDEA DI CAUSA.
Lo stabilire rapporti di causa/effetto costituisce esigenza istintiva dell’intelletto, ma la ricerca di tali nessi non deve essere lasciata all’istinto (161). In generale, «gli antecedenti più costanti e più generali, per quanto necessari essi siano, rimangono semplicemente sottintesi (…). Gli antecedenti già più particolari, ma ancora dotati di una certa stabilità, costituiscono ciò che si è convenuto di chiamare “le condizioni”. Il più speciale, quello che, nel fascio delle forze generatrici, rappresenta in qualche modo l’elemento differenziale, riceve di preferenza il nome di “causa”» (162). Tale principio può tornare utile come base di ricerca, ma v’è molto di arbitrario nel tentativo di discernere la causa dalle condizioni, e molto dipende dalla prospettiva dell’indagine. D’altro canto, «la “superstizione” della causa unica, in storiografia, è molto spesso a forma insidiosa della ricerca d un responsabile; quindi, di un giudizio di valore» (163). Inoltre, i fatti storici sono essenzialmente fatti psichici: il che -data l’estrema complessità e inafferrabilità di tali elementi- rende la successiva ricerca di “cause” inequivocabili una fatica insostenibile.
Nella sezione “letture” è stato appena pubblicato l’articolo su:
Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1969, traduzione di Carlo Pischedda.