Antropocene e antropocentrismo

Si è iniziato a parlare di Antropocene solo nel 1999. In quell’anno, a Città del Messico, ad un congresso sull’Olocene, il chimico dell’atmosfera Paul Crutzen, premio Nobel nel 1995, pronunciò per la prima volta il termine Antropocene. L’Olocene è ufficialmente l’epoca nella quale viviamo, un’era iniziata all’incirca 11.700 anni fa; l’Antropocene è invece la rapidissima evoluzione del nostro tempo geologico, rappresentata da un grado di variazione rispetto al recente passato così ampio da evidenziare una spaccatura radicale e profonda.

L’Antropocene, infatti, si caratterizza per l’azione che l’anthropos ha avuto e ha sul pianeta: sottolinea quindi la sua enorme portata trasformativa e la potenza della tecnica. Ciò significa che in questo tempo l’umano, con la sua azione, ha avuto un impatto determinante nella modificazione della struttura naturale: nell’indirizzare i processi futuri. A prescindere dalle valutazioni (morali, politiche, ecologiche e anche filosofiche) che si possono dare di questo fenomeno trasformativo, possiamo dire che l’Antropocene rappresenta un unicum nel susseguirsi delle ere geologiche. Il suo arrivo o, forse meglio, il suo emergere non è caratterizzato infatti da una mutazione naturale (ad esempio una glaciazione o un’estinzione di massa), bensì da una mutazione naturale indotta dall’azione umana. Tale modificazione è in atto e ha esiti prevedibili che, come ha scritto Robert Macfarlane nel suo ultimo libro Underland, «ci costringe a pensare al futuro in termini di tempo profondo, e a valutare che cosa ci lasceremo dietro, dal momento che i paesaggi che costruiamo oggi affonderanno negli strati geologici, diventando mondi di sotto» (Macfarlane 2020, pp. 69-70).

L’azione della nostra specie, quindi, è un potente inquinante che si sta sedimentando sul pianeta lasciando tracce inedite e, per certi versi, inaudite. Per questo confrontarsi con l’Antropocene così inteso vuole dire fare i conti con un tempo profondo del quale siamo, per lo più, incapaci di governare i confini. Questo confronto con un tempo dilatato che arriva fino a dopo la nostra estinzione, a un post-umano difficile da concettualizzare, finalmente «ci invita a intraprendere una lettura retrospettiva del momento attuale» (Macfarlane 2020, p. 70).

Paleontologia del presente
Questa analisi retrospettiva dell’oggi, ovvero immaginare le nostre tracce sulla Terra fra centinaia e migliaia di anni, viene efficacemente definita da Macfarlane paleontologia del presente. Insomma, si tratta di immaginare un post-umano che, alla luce dell’estinzione della nostra specie, indaghi l’underland, il mondo di sotto, per ricostruire la storia dell’anthropos. Facendo una previsione, è abbastanza probabile che della nostra specie nel tempo dell’Antropocene rimangano plastica, quantitativi esorbitanti di fossili di animali allevati in numeri spropositati (bovini, ovini, pollame e suini), «piombo-207, l’isotopo stabile alla fine della catena di decadimento dell’uranio-235» (Macfarlane 2020, p. 69).

Eppure c’è una forza che ci trattiene dall’avviare seriamente questo processo paleologico (e non parlo qua direttamente, per non divagare, dell’apporto causale del sistema economico-finanziario che ha contribuito ad accelerare il processo di trasformazione). Dunque, questa forza che ci trattiene è la nostra difficoltà umana a rapportarci con il tempo profondo, con le enormi distanze, oppure sussiste una ritrosia a lasciare il piedistallo antropocentrico dal quale abbiamo dato vita sia agli effetti dell’Antropocene sia alla sua concettualizzazione critica? La mia idea è che sia il rapporto (insano) tra Antropocene e antropocentrismo che deve essere indagato in una maniera articolata, fino a mostrarne la complessità e l’intima natura comune.

Antropocentrismo
In primo luogo se l’Antropocene (e quindi la crisi climatica e la necessità di comprendere cosa stiamo lasciando ai post-anthropos) è la conseguenza dell’azione dell’uomo e del suo antropocentrismo, è opportuno chiedersi: chi è l’anthropos che incolpiamo di aver innescato questo processo? Siamo sicuri che tutti gli umani siano corresponsabili del disastro riassunto nel termine Antropocene? È probabile che la definizione di anthropos e quindi di Antropocene vada sottoposta a un processo di decolonizzazione e si inizi a comprendere che finora con anthropos si sia per lo più inteso l’uomo bianco urbanizzato del primo mondo.

In secondo luogo, anche ammesso che l’anthropos descriva una inequivocabile classe di corresponsabili del disastro, ciò dà per scontata una potenza trasformativa nell’uomo senza pari. Questa posizione – in altre parole – spiegherebbe la causa con la conseguenza, riproducendo a pieno il dispositivo fondante della modernità in cui vige un totale controllo del bios da parte dell’uomo. In questo schema l’individuo, la persona, l’uomo, sono ancora il centro e in essi converge la vita e «tutto quanto è non-vivente viene concepito in termini privativi» (Godani 2021, p. 126). Detto in altri termini: assumere l’antropocentrismo come causa degli effetti racchiusi dal significante Antropocene vuol dire perpetrare nell’illusione di una Natura periferica rispetto all’azione e alla potenza dell’anthropos.

Il mondo informe
L’esperienza personale, l’individualità e la centralità dell’uomo, in questo senso rappresentano (ancora una volta) la causa, il malanno e la cura. L’operatività mondana e la progettazione del futuro si fondano sull’idea che il mondo sia composto di una materia informe a nostra disposizione, nel bene e nel male. In termini più ontologici, che l’esserci sia tale solo quando è essere-per-la-vita. Non a caso utilizzo questi termini, perché con Heidegger la totale torsione rispetto alla metafisica classica si compie definitivamente rendendo finito anche l’Essere, braccato dal nulla e incastrato nella storia. L’Essere, il mondo, l’uomo, il suo destino fatale e la stessa fine del mondo, in Heidegger si danno all’interno di un processo storico, di un orizzonte temporale e per questo finito. È innegabile che per il pensiero contemporaneo l’evidenza della storia (e quindi anche per il pensiero che assume l’Antropocene come un elemento critico nei confronti dell’agire umano, ovverosia per gli abitatori del tempo) sia un dogma ineliminabile, poiché è la storicità a definire «la vita precaria di ogni essere storico, il suo venire dal nulla per farvi presto ritorno, a definire per noi la natura di tutte le cose» (Godani 2021, pp. 182-183).

Conclusioni
Abbandonare la prospettiva storica e la centralità dell’anthropos, ovvero non solo decolonizzare il concetto di Antropocene ma anche de-antropocentralizzare ogni discorso, aiuterebbe a dare piena sostanza all’idea di Antropocene, mostrandone i suoi lati più corrosivi. La fine del mondo, come dice Paolo Godani nel suo notevole volume Il corpo e il cosmo nel quale si procede a una archeologia dell’idea di persona, sulla scorta delle più acute analisi foucaultiane in tal senso, non può essere ridotta né all’esito della catastrofe ecologica, né alla fine di ogni possibilità valoriale e operativa sul mondo. Poiché «la radice di questa fine del mondo risiede esattamente nelle condizioni alle quali ci si affida per scongiurarla: proprio l’operabilità mondana e la progettazione secondo valori, infatti, implicano come loro condizione di possibilità non solo la separazione dell’esserci operante e progettante dall’essere stesso del mondo sul quale pretenderebbe di agire, ma, più profondamente, l’idea che il mondo, in sé, sia una sorta di materia informe e priva di senso, una materia morta che avrebbe bisogno dell’umana presenza per vivificare» (Godani 2021, p. 183).

Non una contemplazione immobile, ma la rottura di ogni schema piramidale e la presa d’atto che ogni cosa è viva, ci permetterà di rapportarci col tempo profondo, ovvero di «spostare il “centro di gravità» della responsabilità dalla persona alle “concatenazione delle cose” (Musil 1972, cap. 39)» (Godani 2021, p. 176), abbandonando – spinozianamente – l’ordine dell’immaginazione per quello dell’intelletto, aprendo nuovi e ampi spazi per poter pensare che «gli strati del tempo, anche i più distanti da noi secondo l’ordine della nostra cronologia, non sono meno sussistenti (e non agiscono con minor forza nel determinare ciò che siamo) di quello che crediamo costituisca il nostro mondo contemporaneo» (Godani 2021, p. 185), per poter riannodare le catene di eventi a cui siamo da sempre legati e che hanno condotto anche a questa disposizione di cose e forze che possiamo chiamare Antropocene.

Riferimenti bibliografici
Macfarlane, Robert. 2020. Underland. Torino: Einaudi (trad. it. Duccio Sacchi).
Godani, Paolo. 2021. Il corpo e il cosmo. Vicenza: Neri Pozza.
Musil, Robert. 1972. L’uomo senza qualità. Torino: Einaudi (trad. it. Anita Rho).

Foto di Jas Min su Unsplash

Saverio Mariani è nato a Spoleto (PG) nel 1990, dove vive e lavora. È laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e della formazione. Redattore di questa rivista, ha pubblicato il saggio filosofico Bergson oltre Bergson (ETS, Pisa, 2018). Il suo blog sito è: attaccatoeminuscolo.it

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