“Come un serpente muta la pelle”. Il metabolismo mythos-logos tra Derrida e Panikkar

Mythos e logos: oltre l’opposizione
In un comune presupposto mythos e logos sembrano essere nettamente distinti, due termini quasi agli antipodi. Per quanto entrambi appartengano al campo semantico del discorso e di un certo modo retorico, vengono tendenzialmente definiti come due termini opposti: il mythos sarebbe un racconto favolistico, leggendario-religioso, racchiuso in un gruppo di appartenenza che ne fa la propria vicenda fondatrice; d’altra parte, il logos sarebbe il discorso razionale per eccellenza, ciò che distingue il vero dal falso e che è in grado – elevato a mezzo filosofico – di puntare all’universale, indipendentemente dai tribalismi. Sembra che la filosofia e le scienze positive inizino nel momento in cui si distaccano dal mythos, germogliando nel differenziale aperto da questa forma narrativa che non concede alcuna conoscenza certa sul mondo che ci circonda.

Tra i molti che hanno analizzato questa dicotomia, Derrida ha cercato di dimostrare che sin dagli albori della filosofia il mito – così più in generale il discorso figurativo – sia stato esteriorizzato e reindirizzato gerarchicamente per corrispondere al paradigma della verità filosofica. Il filosofo francese, per quanto riguarda la lexis figurativa del campo metaforico-allegorico-mitico, chiama in causa sia Aristotele sia Platone ne La mitologia bianca, testo che sviluppa una tesi sul processo di cancellamento e rimozione messo in atto dalla metafisica occidentale nei confronti di quelle gamme retoriche che accompagnano il logos ma in maniera depotenziata, illegittima e infantilizzata. «Colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo» (Aristotele, Metafisica, I, 982 b18-19) scrive Aristotele nelle pagine iniziali della Metafisica, ma, per quanto abbia in comune l’amore per le cose meravigliose con il filosofo, il suo approccio alla verità differisce di grado e precisione rispetto all’analisi scientifica che solo il filosofo può propriamente fare. Come per la metafora, l’apporto cognitivo del mito – a quanto dice Derrida – è uno strumento che il detentore del logos per eccellenza (il filosofo) può utilizzare, sfruttando il godimento che un bel racconto o una bella metafora possono generare nell’ascoltatore, a patto che l’economia del piacere sia finalisticamente orientata alla conoscenza.

La filosofia, come vedremo anche in Platone, nei secoli che ne segnano il progressivo separamento da altre forme dell’autorappresentazione occidentale, avanza una pretesa teoretica su se stessa, cerca il suo proprio. Questo processo per Derrida si accompagna – nella pretesa che la filosofia ha di collocarsi come scienza di tutte le scienze – a una sistemazione gerarchica dell’alterità delle discipline, dei loro mezzi e modi retorici, riassorbendo la loro esorbitanza attraverso un processo che costituisce lo sviluppo della metafisica attorno al privilegio del logos. Verso la ricerca della verità, come un arrotino lima le monete dall’esergo e dai tratti distintivi del conio per avere un pezzo di oro puro – per utilizzare la metafora di France – la filosofia cancella gli elementi allogeni per pervenire all’essenza del reale. Questo processo è ciò che Derrida definisce mitologia bianca, in due sensi:

α) Mitologia bianca, ovvero la metafisica «[…] che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare la Ragione» (Derrida 1972, tr. it.: 280). Il logos è al centro, e il centro del logos è il riferimento dell’azione dell’uomo occidentale e colonizzatore dell’alterità. Esso diventa idolo di se stesso, un feticcio della Razionalità tout court, nella sua se-dicente e se-ducente capacità di adattarsi al reale e definirlo, chiarirlo attraverso la sua forza centripeta nel quale tutto torna. L’altro si deve piegare a questa forza irresistibile, essere riconducibile alle categorie di una ragione che è discorso, pena l’esclusione dall’orizzonte del senso. È una forma universale in cui vengono sussunti i fenomeni dell’alterità, purificati delle loro inadeguatezze, smussati per essere totalmente assorbiti. Ciò che si conforma alla ragione attraverso il linguaggio entra nelle cesure del vero e del falso, del senso e del non senso, quindi del sapere che ha il compito di discernerli. Anche il logos ha del mito in sé, anzi diventa un mito che ne soppianta altri, un tribalismo che si fa universale lungo il corso della sua storia, dimenticando le sue origini.

β) Mitologia bianca come processo di cancellazione della propria nascita «favolosa» (Ibidem), mitica che, però, avendola prodotta «resta attiva, irrequieta, inscritta in inchiostro bianco, disegno invisibile e nascosto nel palinsesto» (Ibidem). Mitologia come Bestimmung che si dispiega nel processo di cancellazione e usura del linguaggio filosofico e naturale, del loro innesto reciproco da cui concrescono il fiore e il frutto del linguaggio metafisico attraverso continue catacresi di miti e metafore.

Dunque, il logos oblierebbe la propria nascita mitica, diventando tacitamente un mito a sua volta, rimanendo abitato dall’altro da sé, senza espungerlo definitivamente. Benché il linguaggio filosofico si creda depurato, non può non contenere in sé metafore, allegorie, e miti, per quanto siano stati erosi da un processo di catacresi. Ciò che secondo Derrida succede sia in Aristotele, sia in Platone – così poi lungo la storia della filosofia come logocentrismo – è il tentativo continuo di arginare la supplementarietà della metafora e del mito, per distaccarsi dall’elemento empirico, per sussumere l’economia del piacere all’interno di una più comprensiva economia generale del senso.

Più in particolare, per quanto riguarda il mythos, ne La farmacia di Platone, Derrida sostiene una tesi circa l’esteriorizzazione che la filosofia opera per depurare e riprendere al suo interno questo modo discorsivo, attraverso la lettura del Fedro. Questo dialogo, composto successivamente alla Repubblica, trova al suo interno una panoplia di miti che lo rende il luogo privilegiato per l’utilizzo del mito che Platone aveva proposto nel dialogo precedente: un buon modo pedagogico per accompagnare i cittadini verso la conoscenza delle realtà ideali che, come il sole, non possono essere osservate direttamente. Il sommo bene, sommamente bello, giusto e vero, è epeikeina tes ousias, e ne possiamo scorgere la presenza attraverso la sua prole, la luce che risplende sugli oggetti. Il mito ha esattamente questa funzione suppletiva e ancillare per Derrida. Nel Fedro Platone è in grado di sperimentare questa proposta, in cui la filosofia riesce ad integrare il mito in funzione degli scopi argomentativi del filosofo. Infatti, di tutti i miti che Platone racconta, alcuni appartengono al repertorio condiviso della grecità, altri sono inventati dal filosofo ateniese, vere e proprie parabole pedagogiche (Edelstein 1949; Smith 1986; Speliotis 2007) che ricalcano la forma del mythos nella loro trasposizione letteraria, oculatamente posizionate per accompagnare il lettore verso il piano filosofico. Il culmine di questa mitopoietica platonica, si tocca, come nota Derrida, proprio nel mito di Theuth, racconto in cui la natura farmaceutica di mythos e scrittura (né veleno né cura) segna il pericolo d’allontanamento dal logos e dalla phoné come modi prediletti per la ricerca e la trasmissione del potere. In quanto copie senza discernimento ci allontanano dall’origine e dall’originale, depotenziano la facoltà mnemonica necessaria per intraprendere il progetto di un’autoscopia in cui l’anamnesi gioca un ruolo fondamentale:

La verità della scrittura, cioè, come vedremo, la non-verità, non possiamo scoprirla in noi da noi stessi. D’altra parte essa non è l’oggetto di una scienza, bensì solo di una storia recitata, di una favola ripetuta. Il legame della scrittura con il mito si precisa, così come la sua opposizione al sapere e in particolare al sapere che uno può attingere in sé da se stesso. Così in un colpo solo, con la scrittura o con il mito, vengono significate la rottura genealogica e l’allontanamento dell’origine. Si noterà soprattutto che ciò di cui la scrittura verrà accusata più avanti – cioè di ripetere senza sapere – definisce qui la ricerca che conduce all’enunciato e alla determinazione del suo statuto. Si comincia col ripetere senza sapere – con un mito – la definizione della scrittura: ripetere senza sapere. Questa parentela della scrittura con il mito, entrambi distinti dal logos e dalla dialettica, ormai, non farà altro che precisarsi. Dopo aver ripetuto senza sapere che la scrittura consisteva nel ripetere senza sapere, Socrate non farà altro che appoggiare la dimostrazione della sua requisitoria, del suo logos, sulle premesse dell’akoè, sulle strutture leggibili attraverso una favolosa genealogia della scrittura. Quando il mito avrà recato i primi colpi, il logos di Socrate abbatterà l’accusato. (Derrida 1972, 62-63)

Il mito di Theuth costituisce la mise en abyme del colpo fatale che il logos filosofico infligge al mito, poiché da un lato Socrate ne prescrive l’uso ortopedico per vigilare sull’ambivalenza della narrazione mitica, dall’altro, Platone è in grado di utilizzare il mythos nella funzione proposta nella Repubblica per mostrare una verità logica, ovvero un mythos per mostrare la superiorità gerarchica del logos rispetto a esso. Il giovane Fedro si esercita attraverso il mito a uscire dall’indifferenza epistemica della quotidianità.

Insomma, si presenterebbe – nella ricapitolazione delle tesi di Derrida – la storia di una contrapposizione e di una lotta tra queste due forme retoriche, che segna il presupposto della filosofia stessa, ne è il suo mito, l’evento originale e la separazione fondatrice dell’altro da sé, la sua presa di coscienza razionale. Tuttavia, il logos filosofico rimarrebbe abitato da questo dissidio: ogni filosofo in un certo senso, all’ombra dei suoi predecessori, necessita di ripercorrerne i passi per differenziarsi dai loro presupposti, per dire qualcosa in più sulla verità, qualcosa di più vero. Alcuni dei prolegomeni metodologici più celebri della filosofia moderna attestano questo bisogno nel momento in cui la filosofia si secolarizza, abbracciando una svolta epocale i cui cardini sono un nuovo concetto di scienza basata sull’esperienza che – si veda Bacone – ha bisogno di smantellare i falsi idoli della conoscenza; altresì con Cartesio, il soggetto deve arrivare a dubitare di tutto per scoprire la sua più intima e depurata natura di «sostanza che per esistere non ha bisogno di nessun luogo» (Descartes 1998, 45). Dalla modernità alla contemporaneità Kant si libera del vecchio mito razionalista; Husserl delle tendenze psicologiste, Heidegger tenta di oltrepassare il mito stesso della storia metafisica che ha obliato la nostra comunione con l’essere. Derrida, a suo modo, rientra in questo processo pur evitando in tutti i modi di dare una definizione del suo metodo, una mossa metafilosofica che costituisce un punto nevralgico per alcuni suoi critici, e che non lo libera da un altro grande mito/narrazione occidentale, ovvero la storicità come paradigma di lettura della filosofia, metro del reale per noi occidentali: il vero è il fatto storico.

Tuttavia, ciò che del lavoro decostruzionista ci interessa, nella sua capacità di portare alla luce quanto rimosso, è l’impossibilità di poter opporre staticamente, nell’immobilismo di una dicotomia, mythos e logos. In primis perché la catacresi rende indecidibile la loro compenetrazione; in secondo luogo, perché stiamo iniziando a intravedere un dinamismo più profondo tra questi due termini: il mythos può essere de-mitizzato e razionalizzato dal logos, il logos a sua volta può diventare un mythos e fare la fine di ciò che ha tentato di rimpiazzare.

La prospettiva (quasi)trascendentale: oltre la dialettica?
Torniamo per un momento al Fedro, nel momento in cui Socrate e il suo interlocutore trovano il topos adeguato al loro confronto al di fuori delle mura cittadine, presso l’Illisso, precisamente all’istante in cui uno dei miti della tradizione (non di Platone il mitopoieta) viene richiamato nel testo, ovvero quello di Borea e Orizia. Fedro chiede a Socrate se lui credesse al mito, e questi risponde:

Ma se io non ci credessi, così come non ci credono i sapienti, non sarei lo strano uomo che sono. E in questo modo, facendo il sapiente, potrei sostenere che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi lì vicino, mentre stava giocando con Farmacea, e che, dal momento che era morta in tal modo, si sparse la voce del suo rapimento da parte di Borea. (Platone, Phaedr. 229c-d)

Socrate aggiunge che, per quanto ingegnose siano queste interpretazioni, egli non ha tempo di trovare una spiegazione realistica per tutte le creature fantastiche che abitano i mythoi, perché deve occuparsi dell’indagine su se stesso e liquida così il discorso: «[…] salutando e dando addio a tali cose e mantenendo fede alle credenze che si hanno di esse, come dicevo prima, vado esaminando non tali cose, ma me stesso» (Platone, Phaedr. 230a). Di nuovo, la neonata indagine filosofica si distacca da un paradigma (quello degli eristi e dei sofisti) per definire il proprio campo di ricerca; ma quello che è interessante è il modo in cui Socrate definisce il suo rapporto con i miti che costituiscono l’ethos tradizionale del suo popolo e del suo tempo: «peithòmenos dè to nomizomeno perì auton» (Platone, Phaedr. 230a). Alla ricerca del significato dei participi impiegati da Platone, notiamo che la contrapposizione semantica che costituisce il passaggio dal mythos al logos si gioca tra la dimensione parasoggettiva del participio passivo di due verbi che implicano l’adeguazione a un orizzonte condiviso collettivamente (peitho al medio-passivo indica il “dar retta” e “obbedire”, mentre nomizo indica l’adeguazione a un nomos, una legge consuetudinaria) e il verbo skopo, alla prima persona singolare nella diatesi attiva. La differenza tra il mito tradizionale e quello platonico sembrerebbe vivere tra l’adesione a una ritualità collettiva e anonima e un autore letterario circoscritto, che parla attraverso gli attori che mette in scena.

La filosofia – Platone lo ribadisce nella metafora della linea nella Repubblica – può avanzare solo oltre l’adesione cieca alla dimensione della conoscenza transeunte dell’opinione e della credenza, a cui – parole di Socrate – appartiene il mito a cui lui vuole continuare a prestar fede. Per quieto vivere? Come l’accettazione cartesiana dei costumi del suo tempo per potersi dedicare all’elaborazione di una filosofia attraverso una morale provvisoria? No. Socrate polemizza con l’orizzonte di razionalità dei “sapienti”, e propone un’alternativa; stando a quanto ci dice Derrida, l’operazione platonico-socratica nel momento in cui rende il mito funzionale a una pedagogia filosofica sembrerebbe de-mitizzare il mythos orientandolo verso un logos. In entrambi i casi il mythos verrebbe privato della propria voce; in entrambi i casi costretto, seppur in maniera diversa, in una mito-logia: nel caso dei sophoi diventa un discorso orientato alla verosimiglianza degli eventi narrati, nel caso del filosofo, diventa un preambolo didascalico. C’è un passaggio fondamentale dalla dimensione parasoggettiva (la normatività tacita e anonima del mito) a quella inter-soggettiva in cui l’elemento minimo è costituito dalla vivacità operativa e intenzionale del nous di un parlante che necessita di trovare una spiegazione per quello che è narrato nel mito. Non è difficile però capire che ciò che è narrato da un mito (che sia il suo contenuto razionalmente parafrasato o la sua morale) non è il mito in sé. Oltre la polemica di Socrate e di Platone, affiora un impensato: laddove inizia il logos del mito, il mito cessa. Esso sussiste solo nel momento in cui trascende il singolo soggetto e la sua intenzionalità in una forma collettiva impersonale.

Platone diventa mythos filosofico quando inizia a vivere come insieme di riferimenti impliciti che costituiscono alcune assi della nostra forma mentis. Allo stesso modo funziona per Aristotele, Kant, Newton, o – per chiamare in soccorso gli studi genealogici e antropologici – la nozione stessa di natura umana, i dualismi che abitano le nostre categorie, o la nostra stessa scrittura alfabetica. Mito, risemantizzazione nel logos, opacizzazione del logos ed emersione di un nuovo mito: sembrerebbe che la relazione che stiamo cercando di inquadrare sia di tipo dialettico e preveda nel corso della storia la continua sussunzione sintetica dell’altro nell’uno. Ma questo tipo di dialettica storica nasconde a sua volta un’insidia che si può ravvisare in Hegel ed è l’obiettivo polemico del pensiero della differenza francese a cui per ora, attraverso Derrida, ci siamo rifatti. È nel suo pensiero – o quantomeno in una sua interpretazione come sistema chiuso – che la tentazione della sintesi irretirebbe il dinamismo tra mythos e logos. All’apogeo della metafisica si troverebbe lo stesso meccanismo di rimozione dell’alterità con cui inizia la nostra storia come mitologia bianca. Hegel decreta il sorpasso dialettico della forma artistica e religiosa all’interno dell’ultima tappa dello spirito assoluto, ovvero la filosofia che supera le rappresentazioni parziali dello spirito per unificarsi come libertà in sé e per sé. La lettura fenomenologica e la sistemazione enciclopedica di Hegel sono due dei punti cardinali per la metafisica in cui si mostra – a distanza di duemila anni – l’efficacia del sapere filosofico di sussumere al suo interno l’alterità; difficile stabilire quanto Hegel – nella prosa del suo romanzo di formazione dello spirito – sia meno incline a un’operazione mitopoietica di Platone. Di nuovo dobbiamo situarci su un doppio livello: nell’approccio dialettico di Hegel le forme figurative del discorso lasciano progressivamente spazio a forme di consapevolezza più propriamente razionali e, a partire da Hegel, siamo in grado di gerarchizzare finalisticamente al percorso storico dello spirito (Hegel 2000, 917) – il mito al logos; resta il fatto che un approccio dialettico con questi presupposti rimane sbilanciato a favore del logos, e probabilmente non ci dice molto sulla natura del mito. Come ricorda Descola, il secolo di Hegel anche per l’antropologia, si dischiude a partire da un orizzonte – oggigiorno decostruito – in cui il concetto di cultura o dello spirito di una cultura traggono la loro linfa dagli influssi dell’universalismo umanistico dell’illuminismo: l’antropologia filosofica di fine settecento vive del mito del buon selvaggio da cui ci siamo evoluti (differenziandoci dalla natura) e culmina a fine ottocento con la concezione dell’antropologia evoluzionista, quello di un’umanità infantilizzata per non aver sviluppato le nostre stesse attitudini scientifiche:

La cultura qui non è distinta dalla civiltà in quanto attitudine alla creazione collettiva sottomessa ad un movimento progressivo di perfezionamento; è la prospettiva che adottano gli antropologi evoluzionisti degli ultimi decenni del XIX secolo. Essa ammette come possibile e necessaria la comparazione di società ordinate in funzione del grado di adempimento delle istituzioni culturali, espressioni più o meno elaborate di una tendenza universale dell’umanità a dominare i vincoli naturali e gli istinti. (Descola 2021, 96)

Per Hegel, l’universale non è raggiunto nell’indifferenziata sostanza di Cina o India ancora al di fuori della storia, tutte immerse nel mito (Hegel 2003, 97-146), non nelle forme simboliche dell’arte, bensì nella forma-stato liberale e borghese della Prussia ottocentesca. L’approccio dialettico, interpretato in questo senso, da Lévinas a Derrida, ci espone a questo rischio che riguarda l’approccio all’alterità in senso teoretico: come si conserva la trascendenza dell’alterità in un sistema che ammette (o che potrebbe ammettere) una sintesi storica chiusa? Non si presuppone un concetto di universale (quindi il più generale e valido per tutti) che rimane estremamente figlio del proprio tempo e delle proprie categorie culturali? È un paradosso che Hegel, conscio che la filosofia sia il proprio tempo appreso sotto forma di pensiero, ben esemplifica e alimenta, rinforzandone la narrazione, semplicemente sovrascrivendo il palinsesto mitico delle categorie metafisiche. È un problema che ha anche ripercussioni sull’etica del discorso filosofico: da un lato riguarda i decorsi storici dell’ethos della lexis filosofica, un aspetto di etica descrittiva; dall’altro ci invita a riflettere, in maniera normativa, su un’alternativa circa le nostre possibilità di pensare l’altro, le sue categorie e i suoi schemi mentali senza cedere alla tentazione della sintesi sussuntiva.

Sembra andare in tale direzione l’indagine di Panikkar, che, all’insegna dell’esigenza di pensare un dialogo interculturale, ci offre una nuova prospettiva al di fuori di questo tipo di dialettica. In particolare, sembra d’uopo riportare il passaggio di un dialogo, in cui al filosofo indo-catalano viene chiesto del rapporto che sussiste tra mythos, fede e logos:

Il mito, che è essenziale alla struttura umana, dev’essere considerato come il veicolo della fede. Il mito in effetti si affianca al logos. […] In particolare, per me il mito – termine evidentemente polisemico – designa la base, lo strato di partenza nella elaborazione di un sapere, quello che si impone spontaneamente come cosa di per sé evidente e va poi a sfociare in una formulazione quale che sia. Il mito è una realtà prossima a quella che Kant chiamerebbe una «condizione di possibilità». Ciò a cui si crede così profondamente che non si crede nemmeno che ci si creda. […] In termini più filosofici, il mito designa un orizzonte di intelligibilità. Un orizzonte, cioè qualcosa verso cui si cammina, senza che tuttavia sia possa mai raggiungerlo; è la precondizione di fondo che ci permette di comprendere qualunque cosa. Il moto non si esaurisce nel racconto, in ciò che di esso si dice o nella spiegazione che se ne ricava; questo, è il mythologùmenon, l’esplicitazione del mito. Ma nel momento in cui il mito si esplicita, cessa immediatamente di essere mito. In questo senso, la mitologia, se la si intende come il logos del mythos, è una contraddizione in termini. Ed è questa, d’altronde, la ragione per la quale si arriva a ridicolizzare il mito, senza sapere che ciascuno di noi ha il suo proprio mito. […] Il mito è irriducibile al logos, ma permette al logos di esprimersi, di divenire logos. È attraverso il logos che noi parliamo del mito. (Panikkar 1998, tr. it.: 17)

Attraverso le incrinature prodotte dalla decostruzione abbiamo ipotizzato che la dimensione del mythos non abbia una relazione di natura oppositiva con il logos, come è stato spesso presupposto. Questo, tuttavia, non significa che dobbiamo cedere alla tentazione di farla rientrare in una relazione dialettica che ne sussuma l’esorbitanza; non solo: nell’avanzare queste ipotesi, abbiamo anche notato che la struttura del mito si apre a un carattere parasoggettivo che non si esaurisce nelle singole esplicitazioni e razionalizzazioni autoriali, pena la scomparsa della sua trascendenza. È in questo senso che dunque le parole di Panikkar ci possono condurre verso una nuova e plausibile comprensione del rapporto tra i due termini.

“Come un serpente muta la pelle”: adualità ed ermeneutica
Per Panikkar il rapporto tra mythos e logos si caratterizza entro una visione aduale (Barotti 2007; Palma 2015) e processuale in cui prende forma il paradigma etico ed epistemico di una società e di un individuo definendone il limite di apertura nei confronti dell’alterità: gli orizzonti mitici non si susseguono in maniera lineare una volta esplicitati, ma si sovrappongono creando un mosaico complesso attraverso processi di inculturazione, conservando la loro trascendenza fintanto che la loro eco dà forma a delle credenze. L’occidente e la filosofia non si sono liberati del mito attraverso il logos, ma, come sostiene anche Derrida, l’hanno esteriorizzato per fare del discorso-ragione il cardine che definisce l’essenza dell’uomo, così come è successo per il concetto di storia, entro cui ricade il criterio del verum factum, del mito del progresso o del messianesimo in un bacino di risorse trasversali ai vari campi del sapere e dell’autorappresentazione dell’umano. In altre culture, estranee al paradigma del logos, questo non esaurisce l’esperienza culturale ed esistenziale dell’uomo, né è motivo di universalizzazione; allo stesso modo la realtà storica non esaurisce la verità di un fenomeno (come avrebbero voluto i sophoi con la razionalizzazione del mito) ma la sua valenza simbolica ed extra-storica vi conferisce addirittura un valore assiologicamente maggiore. La trascendenza del mito consiste proprio nel non poterne osservare direttamente la fonte di luce, ma «bisogna voltarle le spalle, così da poter vedere non la luce, ma gli oggetti illuminati» (Panikkar 1979, 20), in questo caso le produzioni culturali nei loro scarti e nelle loro analogie per poter decostruire il nostro immaginario sia da dentro la cultura occidentale, sia da fuori. La differenza tra logos e mythos è già a sua volta una narrazione che abbiamo imparato a dare per scontata e a universalizzare, quando – allargando la prospettiva – si rivela essere uno dei miti filosofici per eccellenza, una prescrizione del nostro ethos.

Si sollevano due problemi fondamentali: da una parte quello della tolleranza nei confronti del mito altrui, dall’altra il problema di una componente secolare del mito, l’ideologia. Mentre quest’ultima si rivela essere una componente de-mitizzata e dogmatica della prospettiva dell’individuo che forma la sua Weltanschauung, la tolleranza rischia oggigiorno di dipanarsi come scacco (più o meno provvisorio) a una vera comprensione dell’alterità, a una sua ermeneutica profonda: si tollera ciò che non si può (ancora) sussumere all’interno del proprio, ne si sopporta il peso, come sforzo libertario minimo. S’incorre nell’atrofizzazione del mythos proprio e altrui, e nell’atrofizzazione del logos che richiederebbe invece la ricerca di ragioni profonde sviluppate in maniera dialogica. D’altra parte, come scrive Panikkar, «più un’ideologia è perfetta meno è tollerante» (Ivi: 40), può e deve fare a meno dell’apertura nei confronti dell’altro ridotto a eccezione. Pertanto, sembra legittima la preoccupazione di chi mette in guardia dal dogmatismo rinunciando allo slancio del logos che opera per metterlo in discussione; logos che, come abbiamo visto, è in primis un lavoro su di sé, l’attivazione delle risorse emergenti dall’esame autoptico delle proprie convinzioni. Per Panikkar, tuttavia, l’ideologia non esaurisce le risorse del mythos in quanto orizzonte di senso, precondizione di un ascolto dialogico tra culture, religioni e filosofie. Al centro della riflessione di Panikkar c’è la necessità di collocarsi sul piano simbolico e non stagnare all’interno del proprio immaginario: infatti, distinguendo mythos e logos senza opporli emerge una prospettiva ermeneutica, in cui gli orizzonti si fondono.

Tra mythos, logos e sforzo etico-normativo Panikkar intravede un rapporto metabolico aperto: da un lato dobbiamo evitare di demitizzare artificiosamente la morale attraverso una razionalizzazione strumentale, dall’altro riconoscere l’adualità tra mito e logos, giacché qualsiasi morale si ri-mitizza da sé «come un serpente muta la pelle» (Ivi: 53). Il metabolismo mythoslogos non si limita a cancellare la netta opposizione tra i due termini ma apre alla possibilità pluralistica di un’interazione ermeneutico-simbolica in grado di rispondere all’esigenza platonica con la consapevolezza dei processi di rimozione che hanno attraversato la storia della filosofia su cui Derrida ci chiede di vigilare. L’ermeneutica di cui Panikkar parla non mira solo a conoscere morfologicamente gli elementi di un testo o il contesto in maniera diacronica (momenti metodologicamente imprescindibili) ma anche il pre-testo sotteso tra due interlocutori di fede o cultura diversa, con mythoi differenti. L’ermeneutica diatopica, così chiamata dal filosofo indo-catalano, si colloca tra due topoi, due luoghi dell’esperienza umana non riducibili dialetticamente ma comprensibili pluralisticamente una volta aperti al dialogo: «διά-λόγος che trapassa il logos al fine di raggiungere quel regno dialogico e translogico del cuore (conformemente alla maggior parte delle tradizioni), consentendo l’emergere di un mito in cui possiamo essere in comunione e che alla fine porterà alla comprensione, a condividere lo stesso orizzonte di intelligibilità» (Ivi: 24-25). Il metabolismo tra i due termini può funzionare a condizione che una membrana ermeneutico-dialogica impedisca da un lato l’asfissia di uno dei due poli, e che garantisca dall’altro l’emergere di qualcosa che trascenda l’opposizione, pur rimanendo zona aperta, senza irretirsi in una sintesi chiusa. Non si tratta di un dialogo dialettico, tra due persone che smaniano per asservire l’altro al proprio orizzonte di intellegibilità, tra due persone che si considerano reciprocamente fanatiche, bensì tra due persone che reciprocamente sono testimoni e ascoltatori in grado di stimolare la vitalità dei propri mythoi attraverso il logos. Poco importa se si tratta di una fede religiosa o di un equivalente scientista, ciò che andrebbe evitato è la moralizzazione de-mitazzante, che congela e arresta il «magma informe e indiscriminato del mito» (Ivi: 55) impedendo di confrontarci dialogicamente sul piano del pensiero simbolico. La sfida del pluralismo e del dialogo tra scienza e religioni, tra religioni o tra culture tout court si colloca sul piano relazionale entro cui si prende atto della propria fede (del modo epistemico della credenza) in un mythos di cui è possibile mantenere attive le potenzialità in uno spazio discorsivo aperto verso l’altro (Arenhart 2007), che non si esaurisca dialetticamente.

Considerazioni finali
Abbiamo cercato di illustrare come il rapporto tra due termini così scontatamente opposti nasconda oltre la facciata un problema interno alla genesi della razionalità occidentale e dunque anche della filosofia stessa. Grazie al lavoro decostruttivo di Derrida abbiamo potuto sollecitare alcuni dei presupposti della formazione del pensiero filosofico, al cuore della riflessione platonica e il suo processo di esteriorizzazione del mito alla ricerca di un’identità definita per la disciplina filosofica, la cui essenza risiede nell’esercizio del logos come strumento autoptico e dove il mito sembrerebbe ridotto a un ruolo ancillare, prendendo posizione all’interno della gerarchizzazione delle forme retorico-figurative.

D’altro canto, la lettura decostruttiva, collocandosi in maniera antiplatonica ci mette in guardia nei confronti di approcci dialettico-sintetici che impediscono di far affiorare la complementarità aperta dei due termini, anche se non dà voce ad alcuni tra gli slanci più salienti del percorso socratico-platonico, in cui viene ribadita la dimensione misterica e trascendente del mythos. Esso rappresenta in maniera ambivalente l’orizzonte di senso entro cui può svilupparsi il logos e un indirizzo concreto normativo-pedagogico della sua applicazione. Bisogna comunque puntualizzare che il filosofo francese non rende giustizia del tutto a Platone, lasciando aperte letture che possono vedere nel mythos platonico un modo di accogliere la supplementarietà esistenziale concreta dell’esame autoptico, senza lasciare che il logos irretisca il mistero della realtà verso cui il filosofo ateniese sembra riservare una particolare attenzione.

Al di là dei rischi di sterile opposizione o della subordinazione dialettica del mito, convocando il pensiero di Panikkar, abbiamo potuto mostrare che il rapporto mythos-logos risponde anche all’esigenza di senso all’interno del dialogo interreligioso e interculturale necessaria nel mondo globalizzato: il mito si caratterizza come l’orizzonte entro cui si basa l’accettazione pre-testuale dei presupposti etici in cui si dà l’intellegibilità di un logos, in maniera aduale e non nettamente oppositiva. Un vero e proprio metabolismo che può costantemente essere aperto a un tipo di lavoro ermeneutico in grado di esplicitare gli orizzonti di senso dei sistemi di razionalità, la loro coerenza interna, senza però tentare una moralizzazione improduttiva del contenuto mitico. L’approccio che Panikkar descrive, differenziando i tre tipi di ermeneutica, si caratterizza per definire un nuovo spazio di ascolto tra topoi culturali in maniera dialogica e non dialettica. Tra i due topoi può emergere un prodotto metabolico che consente di trovare un orizzonte comune attraverso le differenze, senza limitarsi a una vacua tolleranza senza comprensione e senza stagnare nell’ideologia del medesimo entro cui non esiste spazio per l’alterità. Inoltre, credo che il punto teoretico di un approccio di questo genere sia (oltre la normatività etica che ne consegue) in grado di rispondere del rapporto filosofico e antropologico tra i nostri termini chiamati in causa in maniera più strutturale rispetto a vetuste dicotomie sia filosofiche sia dell’antropologia evoluzionistica tardo-ottocentesca.

La polisemia del mythos non chiama in causa solamente l’analisi mitografica di antichi racconti tribali in cui pragmaticamente vengono delineate e diluite le appartenenze socio-antropologiche (noi/loro); si tratta piuttosto della mise en abyme delle nostre narrazioni in cui prendono posto gli oggetti che ci circondano secondo un processo di catacresi e palinsesto, la muta di un serpente, in cui possiamo osservare in atto la complessità di questa forma retorica impossibile da ridurre, in cui convivono funzioni identitarie, pedagogico-strumentali e risorse simbolico-dialogiche. Tra l’altro, contrapporre e subordinare il mito al logos (in senso evoluzionista o speculativo) comporterebbe ignorare il modo in cui questa particolare forma di autorappresentazione si sia mitizzata a sua volta in forme di secolarismo, riduzionismo e scientismo, istituendosi come nuovo orizzonte di senso. Altresì, sostenere la coerenza interna di un determinato palinsesto mitico non significa necessariamente abbandonarsi al relativismo; piuttosto ci invita a ridiscutere attraverso il logos il nostro modello di universalità al di là della violenza metafisica ed epistemica che rischiamo di operare sull’altro, decentrando la nostra prospettiva verso quelle che Panikkar chiama equivalenze omeomorfiche, le funzioni comuni alla formazione di domande e organizzazioni di senso tra culture e fedi diverse, senza per forza cedere a facili quietismi o reiterando la dicotomia di partenza.

 

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Foto di Josh Boaz su Unsplash

Nato nel 1996, studi classici, laurea triennale all’Università degli studi di Padova con una tesi sul rapporto tra immagine e silenzio nel Buddhismo Zen. Laurea magistrale conseguita con una tesi sugli immaginari dell’alterità tra Derrida e Jullien. Nel 2023 completa il Corso di perfezionamento in bioetica presso l’Università degli studi di Padova. Interessi di ricerca: fenomenologia, postrutturalismo francese e filosofia interculturale.

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