Dove sta andando oggi il cinema? Da “cinema della crisi”, il cinema è entrato in crisi esso stesso. Con l’intento di descrivere il periodo di crisi che stiamo vivendo da decenni, il sistema stesso è entrato in crisi senza riuscire più a uscirne, ma innescando un processo di ricerca di soluzioni che stentano ad arrivare e giungendo così ad un semplicistico tentativo di cercare di perpetuare se stesso per non morire.
Soprattutto negli ultimi anni è diventato evidente un modus operandi per cui si cerca da un lato di andare sul sicuro, riproponendo modelli vincenti e che abbiano un sicuro riscontro economico, come ad esempio la proliferazione dei film sui supereroi, dall’altro lato la crisi sembra essere diventata anche creativa e ci si spinge sulla sponda sicura delle storie già scritte e raccontate in altri modi, come ad esempio la pratica del remake di pellicole di successo del passato o prodotte in altri paesi. Un esempio su tutti che sembra essere indicativo. Il film del 2016 Perfetti sconosciuti del regista italiano Paolo Genovese non solo è stato venduto in tutto il mondo e visto nella sua versione originale da milioni di spettatori sparsi in tutto il pianeta, ma è stato rifatto e adattato in tantissimi altri contesti. Si è preso insomma un prodotto di successo e lo si è innestato in una diversa realtà sociale e politica. Fino ad oggi, a sette anni dalla sua uscita nelle sale italiane, Perfetti sconosciuti ha avuto ben 25 adattamenti che vanno dal primo prodotto in Grecia nel 2016 fino agli ultimi prodotti realizzati in Azerbaigian, Islanda e Danimarca nel 2023.
Se Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica parlava della perdita dell’aura artistica delle opere d’arte, oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di forse peggiore, almeno per quanto riguarda l’arte cinematografica: la perdita di ogni aspetto creativo. Siamo all’intrattenimento puro e semplice. C’è una stanca ripetizione di stilemi nella costruzione delle storie. La tecnica che viene insegnata nelle scuole di sceneggiatura diventa fine a se stessa, senza più l’anima che prima la caratterizzava: l’obiettivo è soggiogare lo spettatore. Che però si fa soggiogare sempre meno.
Si potrebbe spiegare anche così il successo negli ultimi 10-15 anni delle serie televisive, rispetto al cinema vero e proprio.
Il cinema figlio dell’epoca della fabbrica
Il cinema, come abbiamo potuto constatato con i precedenti articoli, ha sempre cercato di riprodurre la parte fenomenologica del mondo. Il cinema è stato descrizione della realtà, fin dalla sua creazione. Anche un genere particolare come la fantascienza, fin dai suoi esordi, ha tentato di imporre una visione del futuro immaginando i possibili sviluppi a partire da una realtà data. Non dimentichiamo che Viaggio nella luna, il film di George Melies del 1902, è fondamentalmente un film di fantascienza. Il cinema è forse l’arte che meglio rappresenta l’epoca del lavoro, dell’industria e della fabbrica. Il cinema funziona attraverso una serie di macchine costruite dall’uomo e compie un passo in più rispetto alla fotografia, che alla fine trova supporto nella carta, mentre il cinema ha bisogno ancora una volta di una macchina per funzionare, di congegni tecnologici per rendere fruibile il suo lavoro. La fantascienza, già in Metropolis di Fritz Lang, capolavoro del 1927 e capostipite di tutto il genere fantascientifico e distopico, ha immaginato l’uomo sempre impegnato in una qualche attività lavorativa, spesso in maniera coatta. Anzi, di più, la stretta connessione tra lavoro e futuro, tra macchina e progresso ha portato gli autori a pensare all’essere umano sempre impegnato in qualche attività ma diverso dal punto di vista della percezione del mondo. Un futuro in cui l’essere umano si ergerà a dominatore del tutto proprio grazie alle sue capacità manipolative, in cui molte delle sue caratteristiche principali, come quelle sensibili, verranno via via abbandonate e sostituite da macchine costruite dall’uomo per svolgere quella attività. Ha descritto cioè un essere che progressivamente non avrebbe più avuto bisogno di vedere con gli occhi, sentire con le orecchie, ma avrebbe potuto svolgere queste attività peculiari sempre con dei macchinari costruiti per farlo al suo posto. Until the end of the world di Wim Wenders, ad esempio, racconta proprio la ricerca di una macchina per far vedere chi non vede più. L’uomo del futuro, insomma, sembrava agli occhi del cinema (e della fantascienza in particolare) in procinto di abbandonare per sempre la sua parte sensibile. L’homo laborans trova allora senso solo nella sua attività di trasformazione che è tanto performante da riuscire in imprese inimmaginabili e solleva il suo creatore dalla sua stessa attività fenomenologica.
L’evaporazione del tatto
Da uno dei nostri cinque sensi però nessun film di fantascienza è mai riuscito a staccarsi del tutto: il tatto. Anche in questi futuri immaginati tante volte avremmo continuato a toccare le cose. L’epoca della fabbrica, del lavoro che nobilita, erano imprescindibili dal tatto: solo toccando le cose si potevano costruire e modificare. Il lavoro trasformato da mezzo di sussistenza a obiettivo dell’esistenza, in ciò che dà senso e significato a tutte le nostre vite, in schiavitù scelta volontariamente come fondamento della società stessa, permea tutto il cinema sia quando descrive il presente, sia quando prova a raccontare il futuro. Obbligo oppressivo mascherato da libertà, anzi da massima espressione della propria libertà, il lavoro inteso in questo modo non poteva non riflettersi anche nei film di fantascienza più apocalittici. Film che immaginavano un futuro che non prescinde mai dal lavoro.
Oggi, nell’epoca del digitale, stiamo abbandonando anche il tatto. Il futuro non è più prevedibile come prima, sta cambiando il paradigma. Continuare a immaginare un certo tipo di avvenire ci sembra quasi contraddittorio. Per entrare in contatto con le cose, con gli oggetti, non usiamo più le mani, ma la voce: parliamo con le cose per averne il controllo. Diamo ordini al forno e al frigorifero, ad Alexa e Siri senza neppure sfiorarle. In molti casi a dare forma alle cose non siamo più nemmeno noi, ma macchine costruite per costruire altre macchine a loro volta guidate da sistemi matematici complessi. Ecco, le serie televisive sembrano rappresentare alla perfezione il paradigma di questa rivoluzione. Rispondono alla visione di questo futuro vocale. Narrativo.
Molti affermano che la serialità abbia attuato una trasformazione quasi letteraria. Un tempo ogni puntata era a sé stante, negli ultimi decenni si è invece inserita una doppia storia che viene raccontata: una che si svolge e si risolve nell’arco di un episodio e una che comprende invece tutti gli episodi. Storia e metastoria. Questa nuova possibilità di raccontare su tempi più lunghi ha creato una sorta di suddivisione in capitoli, come dentro un romanzo. Ciò ha consentito un livello di scrittura molto più accurato e profondo che non deve fare i conti con i tempi ristretti del film. Le sceneggiature delle serie televisive di oggi sono forse quanto di più strutturato ed efficace sia stato pensato e prodotto in questi ultimi anni. La fantasia e la creatività nel raccontare sembrano aver superato abbondantemente le storie dei film. La distribuzione in episodi, e non puntate, consente lo sviluppo di dinamiche più articolate e descrizioni più accurate dei personaggi e della loro profondità psicologica, cosa che vale anche per i personaggi secondari. Il termine “episodio”, infatti, deriva dalla tragedia greca dove stava ad indicare un’azione scenica tra i canti del coro e che significa venuta inaspettata, ma anche cosa che sopravvive. Come se legasse a sé il prima e il dopo in quello svolgimento dell’immagine-tempo di cui abbiamo parlato nel precedente articolo; la parola “puntata” invece deriva dal termine puntare, e sta ad indicare un colpo dato con la punta che si esaurisce nel gesto stesso. La serialità rappresenta un’unione perfetta tra il vecchio e il nuovo, ma capace di andare oltre. A livello mentale, le serie rappresentano alla perfezione il movimento, cioè la capacità di collegare il baricentro della storia dall’inizio e non dalla fine, come invece avviene nel cinema di oggi che è per così dire ridotto a gesto e non più a movimento, a puntata.
C’è chi sostiene che il successo delle serie televisive derivi dalla brevità degli episodi, che risponderebbe ai limiti sempre più bassi dei livelli di attenzione. In effetti i livelli di attenzione si sono ridotti drasticamente (si pensi a scansioni di 15 secondi come i reel di Instagram o i video su TikTok) ma una serie televisiva e i suoi episodi impegnano molto di più e più a lungo rispetto a un film. Necessariamente e in apparente controtendenza i livelli di attenzione bassi non sembrano un limite per le serie. Il successo allora sta forse nella familiarità, nel sentire i personaggi che si ripetono per diverse stagioni come familiari, componenti di un ambito narrativo e vocale che ci coinvolge tutti. Le serie annullano il tempo, trasformandolo in un tutto, proprio come suggeriva Deleuze. Non esiste più prossimità come nella realtà, è annullata dall’evaporazione progressiva del senso del tatto. O forse è una prossimità amplificata da un tatto che è diventato vocale e narrativo.
Non è un caso che registi cinematografici di calibro si siano cimentati nelle serie. Quentin Tarantino è stato uno dei primi a dirigere e scrivere episodi di ER o di CSI, ma il capostipite di tutto è senza dubbio David Lynch con quel Twin Peaks che ha realmente cambiato tutto. Anche attori di primo piano, che un tempo non avrebbero mai accettato di prendere parte ad una serie televisiva oggi sono diventati protagonisti di questo successo.
Conclusione
Viviamo probabilmente un’epoca di mezzo, di passaggio verso una interpretazione paradigmatica della realtà del tutto nuova. Le serie che sembrano oggi descrivere così bene il mondo complesso in cui viviamo, tra poco risulteranno incapaci di assolvere completamente a questo compito. Forse allora si tornerà al cinema o forse ci troveremo di fronte un modello totalmente inedito. Come spesso è accaduto all’essere umano nel corso della sua storia, si va avanti, si cambia, ma le dinamiche, i sentimenti, le emozioni sono sempre le stesse da millenni e le vogliamo raccontare. Abbandoniamo pratiche che fino a ieri sembravano indispensabili per poi ritornare a quelle stesse attività. Siamo una specie in grado di modellare il mondo che la circonda senza spesso riuscire a comprendere fino in fondo quello che abbiamo creato, ma lo viviamo come in una sorta di trance imitativa e inconsapevole. L’unica cosa certa è che continueremo a raccontare come vediamo il mondo, come lo percepiamo, come ci aspettiamo che sarà domani. Il cinema, figlio della società capitalistica, è stato un veicolo formidabile di descrizione delle disfunzionalità di questo mondo, in una sorta di scontro generazionale padri-figli senza vincitori né vinti, in cui il figlio scapestrato che criticava e si opponeva al padre è diventato egli stesso un padre rigido e conservatore. Ma il cinema è ancora in grado di dire la sua, proprio come il capitalismo è stato in grado più volte di riprendersi anche nei momenti in cui sembrava sul punto di cadere definitivamente. Il fascino che caratterizza il mezzo cinematografico e la carta vincente che possiede stanno proprio nell’intuizione primigenia dei Lumière: una visione comune, d’insieme e non individuale, solipsistica. La fine che torna all’inizio della storia, il tempo che si annulla in una unità. Il più grande limite delle serie televisive è proprio il solipsismo, nonostante le community e i forum di discussione. Il cinema deve tornare a procedere in modo univoco, rizomatico, circolare perché questa è la sua più grande virtù. Questo anche perché in questo cambio di archetipo, sta cambiando anche il modo in cui ci rapportiamo a strutture e comportamenti che fino a poco tempo fa ritenevamo normali. Si sta ad esempio sviluppando un nuovo modo di intendere il lavoro e la vita fuori dal lavoro. Se c’è una cosa positiva che la pandemia da Covid19 ha prodotto è stata proprio farci vedere che era possibile un modo diverso di avvicinarsi al quotidiano. Il recupero di una vita intima ma comunitaria, personale ma condivisa può portare il cinema a riprendersi, o almeno a condividere con le serie televisive, il tentativo di tornare a spiegare la realtà.
Riferimenti bibliografici
- Benjamin, Walter. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa. Torino: Einaudi.
Articoli di questa serie già pubblicati
- Cinema: filosofia in movimento (18 dicembre 2022);
- Il senso della frattura (15 gennaio 2023);
- Fenomenologia della nuova onda (19 febbraio 2023);
- La luce del proiettore (19 marzo 2023).
Foto di Diego González su Unsplash