Uno dei concetti più utilizzati nel dibattito odierno, soprattutto quello che intende commentare o valutare scelte e direzioni politiche (nel senso più ampio del termine), è quello di sostenibilità. Sempre più spesso è considerato “un tema centrale”, “una questione irrinunciabile”. Questo articolo non vuole minimamente sminuirne l’importanza, semmai approfondire quale schema c’è alle spalle di questo concetto e provare a offrire uno sguardo più aereo sulla tematica. Tale scavo ci permetterà forse di vedere il concetto di sostenibilità secondo un’ottica diversa, la quale non reitera alcuni dei problemi che le pratiche di sostenibilità intendono invece risolvere.
Questo articolo, quindi, è una primissima bozza di una genealogia della sostenibilità; proveremo a rispondere a domande come: cos’è la sostenibilità? O meglio, cosa presupponiamo alla base di questo concetto? Su quale visione della natura, del mondo e dei rapporti che regolano forze ed enti naturali, ci appoggiamo nel momento in cui facciamo della sostenibilità un mantra delle nostre scelte?
Una definizione
Nella sua accezione ecologica – che è quella che ci interessa di più in questa sede – è sostenibile un processo che, nonostante intervenga attivamente sulla natura, ha lo scopo anche di mantenere l’equilibrio precedente, o comunque mette in campo azioni che garantiscano una continuità. In altre parole, la sostenibilità di un’azione si misura sulla riduzione delle conseguenze nei confronti dell’ordine precedente.
Equilibrio e ordine sono pertanto i due pilastri intorno ai quali si dipana la questione e che vengono assunti come due concetti evidenti, scontati, che non hanno bisogno di un chiarimento. Eppure, vedremo, essi a loro volta sottendono una visione del mondo tutt’altro che scontata e imparziale.
Per ora potremmo dire che la sostenibilità, ovvero l’idea secondo la quale l’impatto delle nostre azioni (sostenibili) è ridotto rispetto a prima, presuppone; a) un equilibrio naturale, che rimanda direttamente a un’idea di staticità; b) la possibilità di compensare il calco delle nostre impronte; c) un ruolo attivo e determinante dell’uomo, sia nella fase attiva del processo, sia in quella – potremmo dire – riparativa.
L’equilibrio naturale
Tra tutti i sistemi che possiamo prendere in esame, forse quello meno statico e “in equilibrio” è la natura. La natura, infatti, nonostante quel che pensiamo, non è immobile: è un complesso di relazioni costantemente in movimento, all’interno delle quali costanti rivoluzioni modificano lo stato delle cose e lo rendono un sistema dinamico. La definizione migliore di natura è quella offertaci da Alfred North Whitehead, che scrive: «La Natura è un teatro di mutue relazioni fra attività. Tutto muta: le attività e le loro relazioni reciproche. E la nozione dello spazio con le sue relazioni geometriche sistematiche passive è del tutto inappropriata a questa nuova concezione» (Whitehead 1951, 71). Whitehead, quindi, ci propone uno scarto decisivo nel modo in cui intendiamo la natura (che lui scrive, spinozianamente, con la maiuscola). Questa è un processo, un continuo assestamento dei rapporti che la tengono in piedi; in sostanza la natura è rapporto. Tutto quello che noi consideriamo come regola, legge, statuto, in realtà non è altro che una cristallizzazione geometrica di un attimo. Scrive ancora Whitehead: «Per la nuova concezione i dati di fatto sono processo, attività e mutamento. Nell’istante non vi è nulla: ogni istante non è che un modo di raggruppare i dati di fatto» (Whitehead 1951, 79).
Eppure a noi la natura appare come una cosa fissa, statica, che risponde a delle logiche che si ripetono. Questo modo di intendere la natura è quello del senso comune, dice Whitehead, secondo il quale essa è «costituita da cose permanenti: cioè di pezzi di materia che si aggirano nello spazio» (Whitehead 1951, 56), ovvero sorretta da un equilibrio che noi uomini – attraverso le nostre azioni – andiamo a modificare. L’equilibrio in realtà non è altro che una forma umanamente codificata come tale, la quale risponde alle esigenze proprie di chi la riconosce. In definitiva, il concetto di equilibrio non è nelle cose naturali, bensì nell’interpretazione umana di queste.
Le nostre impronte
Chiarito ciò è dunque evidente come le attività di “riparazione”, che sono sempre più il cuore delle scelte eco-friendly, siano tentativi fallaci di approcciarsi a un tema serio e decisivo come quello del cambiamento climatico e dell’impatto antropico sulla Terra. Ancora una volta, l’idea che gli uomini possano rimediare ai disastri causati dalle proprie azioni, presuppone che la natura, il mondo, le cose, siano un oggetto esterno a disposizione dell’uomo. Che egli, in altre parole, ne sia il destinatario e utilizzatore ultimo; che quindi a lui spetti l’onere di garantirne o meno la sopravvivenza. In termini più filosofici: Natura e Vita sono separati. La prima è considerata un oggetto, un elemento di cui noi facciamo solo parzialmente parte. Nella netta divisione fra natura e vita, fra corpo e mente, risiede il cuore del problema, anche di quello della sostenibilità come concetto attraverso cui governare le nostre azioni. Come scrive ancora il filosofo inglese: «né la Natura fisica né la vita possono esser comprese se non vengono fuse assieme quali fattori essenziali delle cose “realmente reali” le cui interconnessioni e le cui proprietà individuali costituiscono l’universo» (Whitehead 1951, 83).
Antropocentrismo e sostenibilità
Il centro di questa visione fallace, quindi, risiede tutta nel rapporto antropocentrico attraverso cui l’uomo gestisce le dinamiche naturali. Il senso comune, infatti, applica strategie sulla natura, imponendo un sottile ma decisivo gradino fra sé e la Natura, fra ciò che egli ritiene “suo” e quello che è al suo esterno. Come sostiene Whitehead «è alla nefasta separazione di corpo e mente radicatasi nel pensiero europeo per opera di Descartes che devesi imputare questa cecità della scienza» (Whitehead 1951, 89).
La sostenibilità, in quest’ottica, è – come già detto – anch’essa un’azione umana, risponde all’idea secondo la quale l’uomo può indirizzare il processo che la Natura sta compiendo. Senza dubbio l’impatto delle nostre azioni ha ripercussioni sull’intero sistema, ma quel che qui si vuole far notare è che è necessario – tanto per l’ecologismo, quanto per la ricerca scientifica – uscire dallo schema secondo cui Natura e Vita sono percorsi separati. Noi siamo il mondo, e il mondo è noi – per parafrasare ancora Whitehead che criptocita Bergson. Se la sostenibilità vuole essere al centro delle nostre azioni, è necessario che noi umani ci si tolga dal centro del mondo. Il nostro rapporto con la natura deve tornare ad essere rizomatico, orizzontale, non verticale e impositivo. Solo mediante questo ribaltamento dello sguardo il termine sostenibilità – e la sua azione pratica – tornerà ad essere inserita all’interno di un processo e non considerata un elemento da aggiungere, come un ingrediente in una ricetta.
Bibliografia
Whitehead 1951; A. N. Whitehead, Natura e Vita, Fratelli Bocca, Milano, 1951.