L’individuo eterno nella Volontà schopenhaueriana (II)

Pubblichiamo la seconda parte della lezione tenuta da Maurizio Morini al Museo Nazionale Goethe di Weimar lo scorso 29 settembre. Il filosofo del Wille nasconde un’insospettabile affermazione in merito al destino dell’individuo.

 

Un filosofo dalle mille fonti
Quali sono le fonti della concezione di Schopenhauer? Il suo pensiero su questo tema ha origine fin dagli anni giovanili. I riferimenti imprescindibili sono Hobbes, Giordano Bruno, Spinoza e Goethe. Non potendo analizzarli in profondità tutti e quattro, mi limito agli ultimi due non solo perché sono quelli che trovano più spazio nella scrittura di Schopenhauer ma anche perché la conoscenza di Spinoza gli viene fornita tramite Goethe. Proprio quest’ultimo, lo “Spinoza della poesia” (come lo ebbe a definire Heine), ha un ruolo decisivo per lo sviluppo intellettuale di Schopenhauer. Arthur Hübscher, curatore delle sue opere, sostiene che «Schopenhauer giunse a Weimar all’inizio di giugno del 1813, si mise a leggere Spinoza e inserì nella sua dissertazione una serie di passi dell’Etica. E la lettura di Spinoza gli rese palese per la prima volta il significato della concezione panteistica della natura di Goethe, la fede nell’unità della vita, che si dispiega in una molteplicità di forme e tuttavia ritorna sempre all’identità della sua essenza» ((confronta A. Hübscher, Un filosofo contro corrente, Mursia, Milano, 1990, pp.63 e ss.)). Secondo Hübscher, Schopenhauer finì per aderire alla dottrina monistica dell’Uno-Tutto, ma non con l’impronta ottimistica che assume in Goethe, bensì con un’accentuazione pessimistica che finisce per rovesciare lo spinozismo in una visione negativa del mondo.  Non si può dire che questo sia interamente vero come cercherò di mostrare.

Il tema del rapporto con Spinoza è tanto articolato e complesso, quanto poco studiato nella letteratura. I contributi più significativi risalgono ormai alla metà del secolo scorso. Recentemente, soltanto il sottoscritto nella mia tesi di laurea e un altro autore italiano se ne sono occupati in maniera approfondita ((Stefano Busellato, Schopenhauer lettore di Spinoza, EUM, Macerata, 2015)). Grazie ad essi è stata rimossa la tesi secondo cui Schopenhauer avrebbe conosciuto Spinoza tramite Schelling: questo non è vero se si tiene presente non solo la quantità di riferimenti che egli inserisce nelle sue opere ma anche del fatto che egli aveva una copia dell’Etica oggetto di molte annotazioni. In generale si deve dire che il filosofo tedesco è un autore dalla mille fonti che rielabora e fa proprie nelle sue opere. Riguardo a Spinoza, Schopenhauer ha nei suoi confronti una grande ambivalenza. Da una parte egli è pronto a riconoscere i suoi grandi meriti, a rielaborare ed integrare tacitamente parti della sua dottrina nella propria, fino addirittura ad identificarsi con la reincarnazione del filosofo olandese ((HN III, 241)) definito in una lettera del 1857 il suo antenato spirituale. Dall’altra però egli critica aspramente Spinoza, soprattutto per quanto riguarda il suo panteismo e l’ottimismo derivante dalle sue origini ebraiche.

La centralità del corpo e l’identità con la volontà
Una delle parti più simili tra le due filosofie è sicuramente la dottrina dei rapporti tra mente e corpo. Per entrambi, mente e corpo non sono uniti da un rapporto causale ma sono espressioni della medesima sostanza, che Spinoza chiama Dio o Natura e Schopenhauer chiama Volontà ((HN IV, I, 114)). Così «l’atto di volontà e l’azione del corpo non sono due stati oggettivamente conosciuti, che siano collegati dal vincolo della causalità ma sono una stessa ed unica cosa, solo data in due modi completamente diversi; una volta in modo del tutto immediato e una volta nell’intuizione per l’intelletto» ((WI, 119)). Nelle parole di Schopenhauer si tratta della verità filosofica Χατ’ εχοκεν, la verità per eccellenza che, in quanto tale, assume rilievo assoluto rispetto a tutte le altre. Di essa «se ne può atteggiare l’espressione in diversi modi e dire: il mio corpo e la mia volontà sono una cosa sola; (…) oppure il mio corpo è l’oggettità della volontà» ((WI, 122)). Tramite tale intuizione, Schopenhauer intende da una parte determinare la conoscibilità della cosa in sé che Kant aveva negato; dall’altra, evitare l’obiezione idealistica secondo la quale il concetto stesso di cosa in sé, proprio perché costituisce un pensato, sia di fatto una contraddizione e come tale da abolire.

La non esistenza di una connessione causale tra anima e corpo è discussa in dettaglio nella prima parte del suo lavoro principale. Schopenhauer inizia la sua esposizione sull’oggettivazione della volontà proprio con la nozione di individuo: l’identità di volontà e corpo in cui esso è costituito, cioè il miracolo Χατ’ εχοκεν, l’unità del soggetto del volere con quello del conoscere, è l’ idea primigenia della sua dottrina, il fenomeno originario nella quale essa consiste ((HN IV, I, pp. 91 e 113)). Da questo fondamento si stabilisce l’assenza di relazione tra l’atto volitivo e l’atto del corpo, «perché entrambi sono una sola e medesima cosa che si mostra simultaneamente in due modi radicalmente differenti: ne viene così alla luce l’identità in quanto due aspetti della medesima essenza» ((HN IV, I, p.114)).

Fin dalla Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente egli scriveva che tra volizione e azione del corpo non c’è nessuna connessione causale ((QR, 21, 169)). Anche nelle lezioni berlinesi Schopenhauer insegnava che l’atto volitivo e l’azione del corpo non sono affatto due stati differenti, conosciuti oggettivamente e collegati dal vincolo della causalità. Schopenhauer insiste particolarmente sull’inesistenza della relazione causale tra atto di volontà e corpo. A causa di questa concezione immediata del corpo, che precede l’intervento dell’intelletto ed è mera sensazione, non il corpo stesso esiste propriamente come oggetto, ma solo i corpi che agiscono su di esso. (…) Dunque il corpo viene conosciuto solo mediatamente attraverso la causalità ((WI, 24-25)) In questo modo, «l’atto di volontà e l’azione del corpo non sono due stati diversi oggettivamente conosciuti, che siano collegati dal vincolo della causalità, non stanno fra loro nel rapporto di causa ed effetto; ma sono una stessa ed unica cosa, solo data in due modi completamente diversi; una volta in modo del tutto immediato e una volta nell’intuizione per l’intelletto» ((WI, 121-122)). L’analogia con il linguaggio e la dottrina di Spinoza, per non dire addirittura l’identità con essi, ci appare qui particolarmente evidente.

 Alcuni ipotizzano un parallelismo con la proposizione spinozista di E2P7: «L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose». Con l’unione di volontà e corpo Schopenhauer risolve il problema della coincidenza di soggetto e oggetto senza che l’uno abbia a prevalere sull’altro. È questa propriamente la verità per eccellenza che, proprio in quanto tale, viene rappresentata in termini diversi da quelli dell’idealismo e del realismo. Per riassumere le similitudini sono almeno due:

  1. Se per Spinoza il corpo è il modo che esprime in maniera certa e determinata l’essenza di Dio in quanto è considerata come cosa estesa ((E2Def1)), per Schopenhauer il corpo è oggettivazione e obiettivazione della volontà. In entrambe le dottrine il corpo si configura in tal modo come determinazione di un principio assoluto e indeterminato.
  2. Se per Spinoza il corpo è manifestazione di un solo ordine che si rivela sub specie corporis, per Schopenhauer il corpo assume in generale il significato dell’oggettità della cosa in sé, la sua più semplice e pura apparizione. Esso, chiamato l’oggetto immediato, viene anche definito l’oggettità della volontà ((WI, 120)) Grazie a questa verità filosofica, «ci sta aperta una via da dentro, quasi un passaggio sotterraneo, un cunicolo segreto, che ci immette d’un tratto, come a tradimento, nella fortezza che era impossibile prendere d’assalto da fuori. La cosa in sé può, appunto, in quanto tale, entrare nella coscienza solo in modo assolutamente diretto, cioè solo divenendo essa stessa cosciente di sé» ((WII, 219)). Ecco allora la celebre metafora della grotta di Posillipo contenuta nella Volontà nella natura dove la conoscenza appare su due lati, quello della rappresentazione e quello della volontà. Giustamente è stato notato che la grotta di Posillipo rimanda alla celebre grotta platonica, inizio stesso della filosofia ((Cfr. A. Ridosso, La teoria della volontà razionale, Elison Publishing, 2017)). Come quest’ultima, anche la grotta di Schopenhauer segnala il rapporto tra essere e divenire, tra unità e molteplicità, che a loro volta rimandano al modo in cui debba correttamente essere pensata l’identità.

 

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Indistruttibilità ed eternità dell’individuo
Anche nel caso dell’eternità dell’individuo riferimento imprescindibile è Goethe al quale Schopenhauer contende il primato in merito al tema in oggetto: sarebbe stato Goethe infatti ad utilizzare una citazione tratta dalla sua opera principale e non il contrario. Il pensiero è quello contenuto nei Colloqui con Goethe di Eckermann in cui il poeta afferma che « il nostro spirito è di un’essenza e natura totalmente indistruttibile, forza attiva di eternità in eternità simile al solo, che solo ai nostri occhi sembra tramontare ma che in realtà non tramonta mai» ((WI, 332)).

Nella seconda edizione dell’opera principale Schopenhauer dedica un intero capitolo all’indistruttibilità dell’individuo con un numero di pagine triplicate rispetto alla precedente. L’inizio del cap. 41, a somiglianza del terzo libro del De Rerum Natura di Lucrezio (che Schopenhauer conosceva bene e cita nei suoi testi), è incentrato a dissolvere le paure e i terrori della morte sul fondamento del principio Ex nihilo nihil che apre e chiude l’elenco degli argomenti. Come il pensatore latino, Schopenhauer elenca una serie di argomenti che possono scacciare quell’impulso ((Sulla vicinanza degli argomenti di Schopenhauer con quelli di Lucrezio, vedi Ken Jones, Schopenhauer and the desire to die, in Schopenhauer Jahrbuch, 79, 1998, 127-135)). Il capitolo, oggetto di numerose aggiunte nella terza edizione, è diviso in due parti: nella prima Schopenhauer presenta la morte nella sua nullità; nella seconda, gli argomenti positivi a favore dell’eternità del soggetto umano. Il tema centrale è ancora quello della materia, stavolta equiparata al pleroma, cioè l’eterna completezza del presente a cui si contrappone il tempo che è esattamente l’impossibilità di conoscerlo, in quanto semplice immagine di quell’eternità. L’Io è il punto oscuro della coscienza da cui segue l’idea per cui l’individuo può conoscersi soltanto esternamente, senza ricorrere ad inutili introspezioni.
È in questo contesto che Schopenhauer ripete per ben due volte la celebre frase di Spinoza secondo cui Sentimus experimurque nos aeternos esse (Sentiamo e sperimentiamo il nostro essere eterni). Si tratta di una frase in cui si riconosce nella volontà la necessità di ogni esistenza individuale, sul fondamento della prova immanente della non caducità del nostro vero essere. Essa ricorda quella di Spinoza che, nella prima parte dell’Etica ((E1def1 e 8)), aveva posto la definizione di eternità come ciò che si intende come necessariamente esistente. Schopenhauer, allo stesso modo, sostiene che ognuno deve intendere se stesso come necessario in quanto dalla definizione segue la sua esistenza. Il riconoscimento necessario dell’eternità della propria esistenza viene posta in questo caso sul fondamento dell’infinità del tempo: questo «garantisce infatti che ciò che esiste, esiste necessariamente. Pertanto ognuno deve intendere se stesso come un essere necessario, ossia come un essere tale, dalla cui definizione vera ed esauriente, se soltanto la si possedesse, seguirebbe la sua esistenza» ((WII, 559)).
Schopenhauer ritorna sul medesimo argomento anche nei Parerga: innanzitutto in modo esplicito, «noi vediamo, come si esprime Spinoza, tutte le cose e le persone sub specie aeternitatis» ((PP1, 646)) successivamente in maniera implicita utilizzando il medesimo linguaggio: «Ognuno sente di essere qualcosa di diverso da un essere che una volta è stato creato dal nulla per opera di un altro essere. Di qui deriva per lui la fiducia che la morte può porre fine alla sua vita, ma non alla sua esistenza» ((PP2, 355)) nella sicurezza che nel più profondo recesso della nostra essenza vi è la coscienza che ci appartiene la sorgente inesauribile dell’eternità ((PP2, 372)).
Sempre prodigo di immagini utilizzate per spiegare e rendere più penetrante la sua dottrina, Schopenhauer affina tale verità con una variante aggiunta nella terza edizione nella quale introduce la metafora del castello di Diderot sul frontespizio del quale si poteva leggere: “Je n’appartiens à personne, et j’appartiens à tout le monde: vous y étiez avant que d’y entrer, vous y serez encore, quand vous en sortirez” ((La traduzione suona: “Non appartengo a nessuno e appartengo a tutti: c’eravate prima di entrarvi, ci sarete ancora quando ne uscirete” WII, 551)). Il che vuole dire che l’evidenza della verità filosofica per eccellenza è tale da sfuggire alla vista di tutti in modo che essa, anziché operare come rivelazione, funge piuttosto da nascondimento della verità. Come scrive in un’annotazione degli Handexemplare, l’argomento a favore dell’indistruttibilità del nostro essere si dà anche attraverso un argomento ex concessis o per assurdo. Se si suppone un momento in cui non siamo stati, scrive Schopenhauer: «Non saremmo in realtà più niente, quindi un fenomeno fugace, senza apparire – una semplice, banale apparenza dell’esistenza: le buone azioni, le grandi azioni, le opere uniche che ci siamo lasciati alle spalle, non avrebbero nulla a che fare con ciò da cui hanno origine» ((Hb 604,8, 885-886)). Tutto ciò indica una cosa importante dal punto di vista del metodo: l’idea cioè che l’uomo è sempre nella verità non essendoci un percorso a cui egli può accedere dall’esterno. Veritas index sui et falsi, dirà Schopenhauer (così come aveva fatto Spinoza): il sentire l’eternità è fondamento della sua eternità.

Conclusioni
Se tutto questo è vero, Schopenhauer può ancora essere definito un filosofo pessimista? Il pessimismo è quella concezione negativa del divenire secondo cui l’essere, dopo essere stato tratto dal nulla, finisce di nuovo ed irrimediabilmente nel nulla. In questo senso il pessimismo è il naturale corollario del nichilismo, quell’anima nera dell’occidente che considera essenzialmente le cose, in quanto oscillanti tra l’essere e il niente, come niente. Sulla base di quanto si è detto Schopenhauer non può essere definito un filosofo pessimista e tantomeno nichilista: se correttamente inteso, il pessimismo riguarda l’Io e l’egoismo ma non l’autentica essenza dell’uomo.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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