È una specie di ironia del pensiero il fatto che l’annuncio della morte di Dio ne abbia occultato un altro che lo stesso Nietzsche ha più volte espresso nei suoi scritti: quello della morte della filosofia. Annuncio ben più inquietante che ha agito sottotraccia e forse in modo ancor più efficace dell’altro, più noto. La morte della filosofia ha prodotto le conseguenze che abbiamo oggi sotto gli occhi: lo scatenamento della razionalità, l’incapacità di porre un argine alla scienza, la servitù della cultura nei confronti della politica. Si tratta di un evento che è poi diventato un tema ripreso dalla stessa filosofia che lo ha trasformato a sua volta in un argomento filosofico, un gioco di prestigio che piace tanto a certi filosofi da esibizione, utile il più delle volte alla chiacchiera filosofica, oggi imperante.
Il pensiero, l’azione e il discorso. Forme dell’agire etico in Hannah Arendt
Il pubblico e il privato
In via preliminare consideriamo la trattazione arendtiana condotta su “discorso” e “azione”, soprattutto in riferimento alla macro-tematica che regge l’intera Vita Activa: la distinzione privato-pubblico. Di fatto, la visione etico-politica della Arendt è costruita sulla triade pensiero, azione e discorso; tre attività specificamente umane che oscillano tra quei due tòpoi dicotomizzati del privato (interno) e del pubblico (esterno). Per inquadrare la questione etica è dunque imprescindibile il riferimento al pensiero – un recupero arendtiano dal Teeteto e dal Sofista (Platone 2000) – così presentato dalla Arendt in un passaggio argomentativo densissimo:
«Il pensiero e il discorso pronunciato sono la stessa cosa – la sola differenza è che il pensiero è un dialogo senza suoni dell’anima con se medesima – e l’opinione è semplicemente la fine di questo dialogo. E che un malfattore non sia l’interlocutore ideale per questo dialogo silenzioso con se stessi sembra abbastanza ovvio» (Arendt 2010, 78). Continue Reading
Jan Patočka alla prova della contemporaneità
La polemica del nostro tempo
Vi è spazio per ritenere che la famigerata “instabilità” contemporanea (moderna o post-moderna che sia) (Hobsbawm 1994) abbia in fondo riservato una buona dose di clemenza nei confronti di un congruo numero di isole coerentistiche tutto sommato resistenti al turbamento dell’epoca. La nozione di crisi, bruciante centro gravitazionale di una temperie culturale ormai decisamente fuori moda, pare avere qua e là lasciato il posto alla possibilità di erigere forti strutturazioni concettuali a sostegno di rivendicazioni sempre più cogentemente tendenti ad una chiusura (apparentemente?) irrefutabile. Se è chiaro infatti che il diffondersi di tradizioni (gli antichi “usi e costumi”) (Remotti 2011) eteroclite lascia spazio all’impressione circa il quadro di un’età ormai preda di un dissenso “anti-” o “post-” veritativo, è parimenti chiaro che tale condizione di diffrazione si raggiunge soltanto in virtù di un criterio giustappositivo che presuppone una forte strutturazione interna degli elementi dissonanti.
Insomma, tempo variopinto, ma pugnacemente oppositivo, e dunque irrigidito nelle sue contraddizioni ferree e “a-dialogiche”. E, del resto, l’ingessatura (necessariamente retrograda) non esime le nostre punte di diamante, giacché «anche gli scienziati (…) sono dei conservatori e fanno di tutto per difendere le loro convinzioni» (Remotti 2008, 5-6), e «Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più» (Montaigne 1588).
S’intende dunque fissare nel merito della validità la rivendicazione scientifica (e scientista) per cui sarebbe funzione di una retta conduzione della razionalità umana fissare il nocciolo di verità implicito nella struttura di ciò che costituisce la realtà. Ancora recentemente si è infatti avuto modo di sostenere che «science constitutes our best chance at limning [“nel descrivere”, t.d.a.] the true structure of reality» e che «if any knowledge tells us the way the world is, it is scientific knowledge» (Kincaid 1996, 5); la filosofia, in questo senso, non può certo esimersi dal tentativo di comprendere.
Deduzione e petitio principii (II)
Il discorso, svolto nella prima parte del presente lavoro, ha inteso dimostrare che la deduzione si trova in una aporia. Ricapitoliamo il discorso svolto, per evidenziare di quale aporia si tratta.
Il processo deduttivo, a differenza di quello induttivo, è strutturato in modo tale che le conclusioni cui mette capo presentano i caratteri dell’universalità e della necessità, ma, proprio per questo, esse non sono ampliative del contenuto informativo delle premesse. Il carattere tautologico della deduzione, come è noto, è stato prima affermato da Poincaré e poi ribadito con forza da Wittgenstein: ciò impone la necessità di riflettere sul concetto stesso di relazione di conseguenza logica (o di implicazione logica) che costituisce la struttura del processo deduttivo.
L’implicazione viene considerata, da un canto, come un nesso intrinseco, in quanto necessario, ma, dall’altro, come un nesso estrinseco, proprio per il suo vincolare due identità distinte e, quindi, autonome. Ciò equivale a dire che l’implicazione si trova a dover conciliare due aspetti che sono tra di loro inconciliabili: la necessità del vincolo, che, decretando il suo valore intrinseco, impone il carattere tautologico della deduzione (il conseguente è momento che costituisce intrinsecamente l’antecedente); la sua estrinsecità, giacché soltanto mediante essa è possibile differenziare l’antecedente dal conseguente, in modo tale che essi si presentano con una forma che li identifica come diversi.
L’ombra del diritto naturale
Il diritto naturale e il post storicismo
Come si è visto nel precedente articolo, lo storicismo non ha sepolto il diritto naturale, ma ne ha anzi messo in luce il carattere trascendente. Qual è stata dunque secondo Strauss la relazione fra il diritto naturale e le correnti filosofiche che si sono sviluppate dopo l’avvento dello storicismo (Strauss 2009, 63)?
Affrontando gli sviluppi dell’idea di diritto naturale sopravvissuta agli attacchi dello storicismo, Strauss premette ancora una volta che il diritto naturale è inscidibilmente collegato con la vera filosofia perché non può esserci vera filosofia senza un orizzonte assoluto: idea, si badi, perfettamente compatibile con la finitezza dell’uomo. Per afferrare difatti tale orizzonte assoluto è sufficiente che l’uomo, seppur per definizione incapace di giungere alla comprensione del tutto, sia almeno capace di riconoscere quello che non sa: è questa la condizione sufficiente per afferrare i problemi fondamentali che sorgono quando si ricercano i fondamenti immutabili del mondo che, va notato, hanno poi necessariamente riflessi politici.
Sulla passività nel pensiero di Bergson e Merleau-Ponty
L’ontologia si fa estetica. Un nuovo punto di partenza
In Evoluzione creatrice, la passività è raffigurata dalla «materia» (Bergson 1959, 603). Essa è quella «resistenza» che lo slancio vitale deve superare per prolungare la sua «spinta», ma è anche – e soprattutto – la «spazialità» che ne permette la manifestazione, come chiarito anche ne Le due fonti della morale e della religione (Bergson 1959, 1191-1194). Non solo: la materia è anche l’altro volto dell’attività creatrice dello slancio, è la ricaduta o la riconversione attuale di questa forza propulsiva. Essa è il nome del suo «affaticamento», del suo venire meno in quanto «tendenza prima» (Bergson 1959, 595-596; Valenti 2019, 283).
Come ho mostrato in alcuni studi pubblicati, quest’anfibolia non è risolvibile secondo il quadro concettuale offerto da questo testo (Valenti 2020, 268-287; Valenti 2019b). Non è chiaro, in ultimo, cosa esattamente sia questa “corrispondenza” alla virtualità dello slancio bergsoniano, il luogo che accoglie il suo farsi spazio. È il caso, per rispondere a questa domanda, di fare un passo indietro. Occorre prendere in considerazione altri documenti, allo scopo di suggerire una visione più ampia sulla questione della passività. Ecco perché, a mio avviso, è opportuno ripartire da Materia e memoria, uno studio che consente di porre la questione della relazione tra spirito e materia da un punto di vista specificamente estetico.
Una finestra al di là delle tenebre
What, exactly, is boredom? It is a deeply unpleasant state of unmet arousal: we are aroused rather than despondent, but, for one or more reasons, our arousal cannot be met or directed. These reasons can be internal – often a lack of imagination, motivation or concentration – or external, such as an absence of environmental stimuli or opportunities. We want to do something engaging, but find ourselves unable to do so and, more than that, are frustrated by the rising awareness of this inability.
Awareness, or consciousness, is key, and might explain why animals, if they do get bored, generally have higher thresholds for boredom. In the words of the British writer Colin Wilson: ‘most animals dislike boredom, but man is tormented by it’. In both man and animal, boredom is induced or exacerbated by a lack of control or freedom, which is why it is so common in children and adolescents, who, in addition to being chaperoned, lack the mind furnishings – the resources, experience and discipline – to mitigate their boredom.
Let’s look more closely at the anatomy of boredom. Why is it so damned boring to be stuck in a departure lounge while our flight is increasingly delayed? We are in a state of high arousal, anticipating our imminent arrival in a novel and stimulating environment. True, there are plenty of shops, screens and magazines around, but we’re not really interested in them and, by dividing our attention, they serve only to exacerbate our boredom. To make matters worse, the situation is out of our control, unpredictable (the flight could be further delayed, or even cancelled) and inescapable. As we check and re-check the monitor, we become painfully aware of all these factors and more. And so here we are, caught in transit, in a high state of arousal that we can neither engage nor escape.
If we really need to catch our flight, maybe because our livelihood or the love of our life depends on it, we will feel less bored (although more anxious and annoyed) than if it had been a toss-up between travelling and staying at home. In that much, boredom is an inverse function of perceived need or necessity. We might get bored at the funeral of an obscure relative but not at that of a parent or sibling.
So far so good, but why exactly is boredom so unpleasant? The 19th-century German philosopher Arthur Schopenhauer argued that, if life were intrinsically meaningful or fulfilling, there could be no such thing as boredom. Boredom, then, is evidence of the meaninglessness of life, opening the shutters on some very uncomfortable feelings that we normally block out with a flurry of activity or with the opposite feelings. This is the essence of the manic defence, which consists in preventing feelings of helplessness and despair from entering the conscious mind by occupying it with opposite feelings of euphoria, purposeful activity and omnipotent control – or, failing that, any feelings at all.
In Albert Camus’s novel The Fall (1956), Clamence reflects to a stranger:
I knew a man who gave 20 years of his life to a scatterbrained woman, sacrificing everything to her, his friendships, his work, the very respectability of his life, and who one evening recognised that he had never loved her. He had been bored, that’s all, bored like most people. Hence he had made himself out of whole cloth a life full of complications and drama. Something must happen – and that explains most human commitments. Something must happen, even loveless slavery, even war or death
People who suffer from chronic boredom are at higher risk of developing psychological problems such as depression, overeating, and alcohol and drug misuse. A study found that, when confronted with boredom in an experimental setting, many people chose to give themselves unpleasant electric shocks simply to distract from their own thoughts, or lack thereof. Out in the real world, we expend considerable resources on combatting boredom. The value of the global entertainment and media market is set to reach $2.6 trillion by 2023, and entertainers and athletes are afforded ludicrously high levels of pay and status. The technological advances of recent years have put an eternity of entertainment at our fingertips, but this has made matters only worse – in part, by removing us further from our here and now. Instead of feeling sated and satisfied, we are desensitised and in need of ever more stimulation – ever more war, ever more gore, and ever more hardcore.
The good news is that boredom can also have upsides. Boredom can be our way of telling ourselves that we are not spending our time as well as we could, that we should be doing something more enjoyable, more useful, or more fulfilling. From this point of view, boredom is an agent of change and progress, a driver of ambition, shepherding us out into larger, greener pastures.
But even if we are one of those rare people who feels fulfilled, it is worth cultivating some degree of boredom, insofar as it provides us with the preconditions to delve more deeply into ourselves, reconnect with the rhythms of nature, and begin and complete highly focused, long and difficult work. As the British philosopher Bertrand Russell put it in The Conquest of Happiness (1930):
A generation that cannot endure boredom will be a generation of little men, of men unduly divorced from the slow processes of nature, of men in whom every vital impulse slowly withers as though they were cut flowers in a vase
In 1918, Russell spent four and a half months in Brixton prison for ‘pacifist propaganda’, but found the bare conditions congenial and conducive to creativity:
I found prison in many ways quite agreeable … I had no engagements, no difficult decisions to make, no fear of callers, no interruptions to my work. I read enormously; I wrote a book, Introduction to Mathematical Philosophy … and began the work for Analysis of Mind … One time, when I was reading Strachey’s Eminent Victorians, I laughed so loud that the warder came round to stop me, saying I must remember that prison was a place of punishment.
Of course, not everyone is a Bertrand Russell. How might we, mere mortals, best cope with boredom? If it is, as we have established, an awareness of unmet arousal, we can minimise boredom by: avoiding situations over which we have little control; eliminating distractions; motivating ourselves; expecting less; putting things into their proper perspective (realising how lucky we really are); and so on.
But rather than fighting a constant battle against boredom, it is easier and much more productive to actually embrace it. If boredom is a window on to the fundamental nature of reality and, by extension, on to the human condition, then fighting boredom amounts to pulling back the curtains. Yes, the night is pitch-black, but the stars shine all the more brightly for it.
For just these reasons, many Eastern traditions encourage boredom, seeing it as the path to a higher consciousness. Here’s one of my favourite Zen jokes:
A Zen student asked how long it would take to gain enlightenment if he joined the temple.
‘Ten years,’ said the Zen master.
‘Well, how about if I work really hard and double my effort?’
‘Twenty years.’
So instead of fighting boredom, go along with it, entertain it, make something out of it. In short, be yourself less boring. Schopenhauer said that boredom is but the reverse side of fascination, since both depend on being outside rather than inside a situation, and one leads to the other.
Next time you find yourself in a boring situation, throw yourself fully into it – instead of doing what we normally do, which is to step further and further back. If this feels like too much of an ask, the Zen master Thich Nhat Hanh advocates simply appending the word ‘meditation’ to whatever activity it is that you find boring, for example, ‘standing-in-line meditation’.
In the words of the 18th-century English writer Samuel Johnson: ‘It is by studying little things that we attain the great art of having as little misery and as much happiness as possible.’
Neel Burton
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La semplicità filosofica in quattro capanne
«Qual è il senso della vita umana?», si chiede a un certo punto il filosofo Leonardo Caffo nel suo Quattro capanne, o della semplicità, edito da nottetempo. Essere-nel-mondo o Essere-a-causa-del-mondo? Far valere a tutti i costi la propria esperienza di vita, la propria esistenza libera e incondizionata, o lasciarsi guidare (e un po’ sottomettere) dalle opportunità che la tecnica, l’innovazione e il progresso ci mettono a disposizione? Per rispondere a queste domande, dice Caffo, è necessario ricostruire una filosofia pratica, che è la vera essenza del filosofare. La filosofia va vissuta («se non vivi e resti seduto a leggere e a scrivere hai la stessa possibilità di diventare filosofo di una pietra in fondo al mare», p. 171); non basta saper elaborare discorsi plausibili utili a destreggiarsi nella logica, se poi ciò non serve a migliorare la vita di tutti i giorni, come afferma Wittgenstein (uno dei must read di Caffo). La filosofia, in sostanza, deve tradursi in una vita che fa cose al di là del contesto che ci viene offerto: solo così potremmo recuperare, heideggerianamente, l’autenticità della nostra esistenza.
Il lato oscuro dello storicismo
Il diritto naturale
La distinzione fra diritto naturale e diritto positivo è uno degli elementi fondativi della riflessione giuridica ed è legata a filo doppio alla costituzione del pensiero politico. Il concetto di diritto naturale nasce dalla constatazione che oltre alla cose certamente naturali (un albero, una montagna) e a quelle certamente artificiali (un abito, una spada) ve ne sono alcune, come il diritto, che possono indifferentemente essere classificate in una o nell’altra categoria. In tale ambito, il diritto consuetudinario, forma giuridica predominante in ogni esperienza antica, è inquadrato come fenomeno prettamente naturale, mentre le regole poste dal legislatore umano appartengono inequivocabilmente al mondo della produzione umana, dunque artificiale.
Il cristianesimo assume a sua volta come fondamentale la distinzione e, ponendo la natura come prodotto della potenza creatrice di Dio, conferisce al diritto naturale lo status di paradigma giuridico dell’azione umana, pur con diverse e sostanziali differenze, tutte in ogni caso regolate dalla ragione, strumento che Dio ha elargito all’uomo per consentirgli di esplorare le concrete declinazioni terrene del diritto naturale.
Con l’età moderna, l’indagine delle scienze naturali porta con sé una nuova prospettiva del diritto naturale, che viene parametrato alle regole di condotta deducibili dalle leggi naturali che regolano il funzionamento dell’intero universo-macchina.
«In conclusione, dopo il diritto naturale-consuetudinario, la cui origine si perde nella notte dei tempi, degli antichi; dopo il diritto naturale-divino degli scrittori medievali, nell’età moderna il diritto naturale-razionale rappresenta la nuova raffigurazione di un diritto non prodotto dall’uomo, e che, proprio per la pretesa di essere sottratto ai mutamenti della storia, pretende anch’esso di avere validità universale e quindi maggiore dignità del diritto positivo» (Bobbio 1994).
Durante l’era moderna l’intera esperienza giuridica viene via via restringendosi al concetto di norma-comando posta dall’autorità politica, il cui unico meccanismo di controllo risiede nella corretta osservanza della procedura adottata per l’emanazione della norma stessa. Il diritto naturale diventa una sorta di fossile storico, cui non è possibile pensare in forma laica, e viene predicato di irrilevanza, incongruenza e forse anche ingenuità dalle dominanti correnti storiciste e positiviste.
In pieno XX secolo Hans Kelsen erige il monumentale edificio della dottrina pura del diritto, che espunge totalmente dall’esperienza giuridica qualunque forma di diritto non coincidente con la norma positiva emessa a conclusione di un procedimento legislativo proceduralmente corretto. E ancora oggi, un fine giurista liquida la questione del diritto naturale come una specie di miraggio, compatendo «i giuristi ancora smarriti tra le nebbie del diritto naturale o tranquilli nella ingenua credenza del diritto come realtà oggettiva, indipendente dalla nostra volontà e dal nostro pensiero» (Irti 2020, 641).
Pure, in pieno XX secolo, contro il predominio della scuola storica e di quella positivista, giganteggia solitaria la figura di Leo Strauss, con il suo fondamentale “Diritto naturale e storia”, dato alle stampe nel 1953, tradotto in Italia, con insolita tempestività, dato il clima culturale dell’epoca, nel 1957, e più volte ristampato (1990, 2009).
Deduzione e petitio principii (I)
La forma logica della relazione necessaria: la deduzione
Si è soliti contrappore il processo deduttivo a quello induttivo. Si tratta bensì, in entrambi i casi, di procedimenti logici, ma le conclusioni dei due processi hanno caratteristiche molto diverse. La conclusione del processo induttivo è ampliativa del contenuto informativo delle premesse. Essa è tratta per generalizzazione da casi particolari e, pertanto, non può esibire il carattere dell’universalità e della necessità, proprio perché estendere a tutti i membri di una classe (insieme) le proprietà riscontrate in uno o in alcuni membri di quella classe (insieme) costituisce un saltus logico.
Il quantificatore universale affermativo “tutti”, che pure è essenziale per formulare una legge o per configurare una categoria, non trova effettiva legittimazione dal processo generalizzante, così che la conclusione può avere solo una valenza statistica-probabilistica. Come direbbe Popper, per affermare che “tutti i cigni sono bianchi” o “tutti i corvi sono neri”, bisognerebbe osservare veramente tutti i cigni o i corvi, e questo è impossibile. Precisamente per questa ragione, Hans Reichenbach colloca l’induzione nell’ambito della “scoperta scientifica”, perché è solo mediante questo processo logico che la scienza accresce le proprie conoscenze e, quindi, va avanti, nonostante le sue conquiste siano sempre passibili di revisione.
Di contro, il processo deduttivo è strutturato in modo tale che le conclusioni cui mette capo presentano i caratteri dell’universalità e della necessità, anche se esse non sono ampliative del contenuto informativo delle premesse. Per questa ragione, Reichenbach lo considera centrale nel “contesto della giustificazione” della scoperta scientifica. Tale giustificazione si configura nel dedurre da ipotesi di leggi generali, ottenute mediante generalizzazioni induttive, asserti osservativi che vengono confrontati con l’esperienza, giacché solo il confronto empirico può “corroborare” tali ipotesi di leggi (non “verificarle”, come ci ricorda Popper) oppure “confutarle”. La deduzione degli asserti osservativi si ottiene mediante un processo che, proprio per la ragione che non è ampliativo, non fa che esplicitare ciò che è contenuto nelle premesse, così che gli asserti empirici vengono dedotti da asserti universali o, meglio, generali.