Il pubblico e il privato
In via preliminare consideriamo la trattazione arendtiana condotta su “discorso” e “azione”, soprattutto in riferimento alla macro-tematica che regge l’intera Vita Activa: la distinzione privato-pubblico. Di fatto, la visione etico-politica della Arendt è costruita sulla triade pensiero, azione e discorso; tre attività specificamente umane che oscillano tra quei due tòpoi dicotomizzati del privato (interno) e del pubblico (esterno). Per inquadrare la questione etica è dunque imprescindibile il riferimento al pensiero – un recupero arendtiano dal Teeteto e dal Sofista (Platone 2000) – così presentato dalla Arendt in un passaggio argomentativo densissimo:
«Il pensiero e il discorso pronunciato sono la stessa cosa – la sola differenza è che il pensiero è un dialogo senza suoni dell’anima con se medesima – e l’opinione è semplicemente la fine di questo dialogo. E che un malfattore non sia l’interlocutore ideale per questo dialogo silenzioso con se stessi sembra abbastanza ovvio» (Arendt 2010, 78).
Qui emerge la coincidenza tra pensiero e dialogo, nei termini in cui il pensiero viene confinato alla sfera intimo-privata dell’io in quanto ancora “non espresso”. L’atto della verbalizzazione, dunque, è ciò che espone il pensiero all’altro, definendo il passaggio dal privato al pubblico. Questo passaggio – in riferimento al paradigma della grecità e latinità classica – fa sì che l’individuo viva, laddove “vivere” si rende con «inter homines esse» (Arendt 2014, 7).
Ora, questa considerazione dell’uomo come strettamente legato alla sua socialità, deriva da una concezione antropologica di matrice aristotelica, marcatamente presente nell’opera arendtiana che ripropone l’idea dello zōon politikon.
Il valore che assume il recupero di tale definizione è funzionale a rendere il dualismo io-mondo di cui è profondamente imbevuta l’antropologia arendtiana nel rapporto tra etica e politica. Nello specifico, la polis greca come dimensione politico-collettiva permette l’affermazione dell’individuo attraverso forme di agonismo esplicantesi, ancora, in discorsi e azioni.
Non a caso, privarsi dello spazio pubblico, non esprimersi, significa mancare di quell’incontro con l’alterità fondamentale alla costruzione della soggettività stessa, anche e soprattutto dal punto di vista morale. C’è una sorta di retro-implicazione in cui lo spazio politico-pubblico permette il potenziamento dello spazio etico-individuale, inteso anche come ritorno al theōrein che è privazione del pubblico. Per tale motivo il lemma “privacy” nella sua radice etimologica si riaggancia al concetto di “privazione”.
Da qui l’opposizione fra la vita activa e la vita contemplativa, fra bios politikos e bios theôrêtikos, fra negotium e otium, fra il proprio [gr. idion] e il comune [gr. koinon], fra io e mondo: un impianto fortemente dualistico che costituisce l’ossatura del pensiero arendtiano. I punti di sutura di tale dualismo – che in realtà rimane un’operazione epistemologica – sono posti dall’influenza della filosofia kantiana soprattutto in riferimento alla Critica della facoltà di giudizio (Kant 2011) e L’antropologia dal punto di vista pragmatico (Kant 2009); probabilmente, però, questo recupero dell’unità è garantito già dall’antropologia aristotelica mediante un operatore sintetico che è la continuità bio-sociale (Gatti 2015), da cui la classica definizione di “animale politico”.
La capacità dell’uomo di sganciarsi dal solipsimo del privato, di evadere dal cieco meccanismo ciclico del bisogno naturale, gli permette di contribuire alla costruzione del mondo come spazio socio-politico di relazione inter-soggettiva. Dunque, qui è rintracciabile già una delle forme della responsabilità: evadere dalla ciclicità naturale per individuarsi come uomo, per rinascere nella condizione umana fondamentale, quella politica e quindi inter homines esse.
In realtà questo svincolarsi dalla natura per entrare a far parte del meccanismo di costruzione della comunità umana, del suo interesse, della sua artificialità costituisce la forma principale della conditio humana: la socialità intesa come edificazione di sé e del sociale attraverso la relazione con gli altri.
Fare questo significa – secondo la Arendt – costruire narrazioni che rappresentino l’identità stessa del soggetto che si esprime esponendosi mediante l’azione, e che «“produce” storie, con o senza intenzione, con la stessa naturalezza con cui la fabbricazione produce cose tangibili. […] ognuno incominci[a] la propria vita inserendosi nel mondo umano attraverso l’azione e il discorso» (Arendt 2014, 134).
Il pensiero, il discorso, l’azione
Le attività del discorso e dell’azione, dunque, sono ciò che pongono il soggetto in inter-comunicazione con gli altri uomini, garantendo l’uscita dal domestico come spazio confinante ai meri bisogni fisiologico-naturali:
«La privazione implicita nella privacy consiste nell’assenza degli altri; in questo caso, ai loro occhi, l’uomo privato non appare, e quindi è come se non esistesse. Qualunque cosa faccia rimane senza significato e senza conseguenza per le altre persone, e ciò che a lui importa privo di interesse per loro» (Arendt 2014, 44).
L’azione e il discorso – in quanto attività auto-espositive o etico-pubbliche – attualizzano lo stato più squisitamente umano dell’individuo invitandolo alla responsabilità storico-sociale di costruzione del mondo comune. È chiaro, però, che non tutti i discorsi e tutte le azioni possono garantire l’attualizzazione dello status di essere umano, ma solo quelle responsabilmente consapevoli. È bene sottolineare che questa tipologia di discorsi e azioni permettono – utilizzando una terminologia nietzschiana – la fuoriuscita dall’orgiastico dionisiaco (natura) attuando il principiuum individuationis (Nietzsche 1977), inteso come esposizione e definizione dell’identità del soggetto nella comunicazione agli altri mediante parole e atti.
Questa rottura con l’originaria dimora naturale implica inevitabilmente un rischio, e laddove vi è rischio vi è anche responsabilità: «e i fattori da cui è la nascita per le cose che sono, sono anche quelli in cui si risolve la loro estinzione, secondo il dovuto, perché pagano l’una all’altra, esse, giusta pena ed ammenda della loro ingiustizia secondo la disposizione del tempo» (Diels-Kranz 2012, 139).
L’atto di separazione dall’essere-semplicemente-natura corrisponde, dunque, a una scissione dall’indistinto e alla conseguente creazione di individualità distinte. Non a caso l’ápeiron anassimandreo è ciò che è “privo di confini” non solo come ciò che è illimitato, ma appunto non-limitato, non-definito o indistinto:
«Solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa – sete o fame, affetto, ostilità o timore. Nell’uomo l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di essere unici» (Arendt 2014, 128).
Proprio nell’atto del separarsi, di farsi altro dalla mera natura sta il senso della responsabilità: è questo l’inizio della libertà:
«Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita […]. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare […]. Il suo impulso scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita […]. Con la creazione dell’uomo il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo ma non prima» (Arendt 2014, 128-9).
L’azione e il discorso sono ciò che “cominciano”, sono un atto di affermazione della libertà che rievoca automaticamente la possibilità del rischio. Tale rischio implicato dall’azione e dal discorso è legato alla responsabilità morale come misurazione delle conseguenze, e questo tipo di attitudine richiede “coraggio”, una virtù che «è praticamente già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di iniziare una propria storia. E questo coraggio non è unicamente o anche principalmente legato al proposito di accettare le conseguenze dell’agire; il coraggio e anche l’audacia sono già presenti nel lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è, svelando ed esponendo se stessi» (Arendt 2014, 136).
Atti e discorsi etici
Il punto sta nel capire che tipo di atti e discorsi implicano delle responsabilità etiche. In riferimento al discorso, già con Aristotele, nel De Interpretatione (Aristotele 2016, 207-271), si scorge la differenza fra semplici emissioni fonetiche e quelle che invece possiedono un valore simbolico: «Il discorso è un suono dotato di significato […]. Ogni discorso è dotato di significato, non come uno strumento naturale del significare, ma come si è detto per convenzione» (Aristotele 2016, 217).
Non a caso la stessa Arendt restituisce una seconda definizione aristotelica di uomo in quanto «zōon logon ekhon», ossia un essere vivente capace di discorso (Politica 1252 b27-1253 a39). Proprio la capacità dell’individuo di produrre un discorso, ossia di comunicare, implica l’emergere di un’intenzionalità e di una responsabilità annessa: «Dire qualcosa produrrà spesso, o anche normalmente, certi effetti consecutivi sui sentimenti, i pensieri, o le azioni di chi sente, o di chi parla, o di altre persone: e può essere fatto con lo scopo, l’intenzione o il proposito di produrre questi effetti» (Austin 1987, 76).
Come si evince dalla formulazione di Austin, gli atti linguistici hanno una evidente funzione performativa. Esiste una sopita formula che permette di trasformare un flatus voci in un discorso performativo o un gesto in un’azione performativa, quindi cariche di un significato tale che abbia un’influenza sul mondo, sugli altri e su se stessi.
Rimanendo sull’etimo greco e andando a ritroso verso i presocratici, si trova già una prima differenziazione nel frammento 73 di Eraclito che recita: «non si deve come dormienti fare e dire; e in effetti anche allora ci pare di fare e dire» (Diels-Kranz 2012, 223). A proposito di questo passaggio una delle più lucide e accurate analisi è offerta da Jaeger, secondo il quale «Il Logos d’Eraclito è una conoscenza dalla quale sgorgano del pari “parola e azione” […].Vi si parla di parole e azioni che gli uomini tentano senza intendere il Logos, che solo insegna «a fare da svegli» ciò che coloro che non lo possiedono «fanno dormendo». Il Logos deve dunque dare una nuova vita consapevole» (Jaeger 1978, 335).
Nella nota a piè di pagina, Jaeger propone le due forme verbali del dire e del fare utilizzate da Eraclito, con specifica attenzione a quelle che si caricano di un valore performativo in virtù del Logos: “poieîn” e “légein”. Tuttavia, come spiega Jaeger: «ποιείν non ha in Eraclito il significato aristotelico, ma è vicino al πράττειν», quindi alla praxis, sì intesa come un produrre ma auto-telico, ossia che ha il prorio fine nel soggetto stesso, il che ne rinconduce il valore sulla sfera dell’etica, in quanto implica il rimando a una serie di concetti operativi sul piano morale quali responsabiltà, intenzione, coscienza e libertà.
Il légein e il poieîn, dunque, sono le modalità del dire e del fare cariche di un significato etico che supera il semplice valore descrittivo. E affinché il dire e il fare possano essere caricati di tale significato è necessario che lo siano alla luce del Lógos, ossia del pensiero come attività razionale, lucida e riflessiva.
Dunque, il pensiero come «attività vera e propria, nella quale sono insieme colui che domanda e colui che risponde» (Arendt 2009, 280) si riconnette al discorso, o meglio, al linguaggio modulato come “dialogo silenzioso”.
Perché abbiano la loro implicazione performativa diventando azione e discorso, è necessario che il dire e il fare siano rivistati alla luce della razionalità, quindi che vengano valutati in quanto gravidi di possibili conseguenze etiche. E perché vengano valutati o “pesati” è necessario che siano pensati. Ed è proprio l’attività del pensiero (attitudine così cara alla Arendt) che – in quanto dialogo interiore o auto-riflessione – è ciò che riveste di valore etico il parlare e l’agire.
Riferimenti blbliografici
- Nietzsche, Friedrich. 1977. La nascita della tragedia. Milano: Adelphi (a cura di S. Giametta).
- Jaeger, Wemer. 1978. Paideia. La formazione dell’uomo greco. L’età arcaica. Apogeo e crisi dello spirito attico. Vol. 1. Firenze: La nuova Italia.
- Austin, John Langshaw. 1987. Come fare cose con le parole.Genova: Marietti (a cura di C. Penco e M. Sbisà).
- Arendt, Hannah. 2009. La vita della mente. Bologna: Il Mulino (cura di Alessandro Dal Lago- 2a ed.).
- Kant, Immanuel. 2009. Antropologia dal punto di vista pragmatico. Roma-Bari: Laterza (a cura di G. Vidari – 7a ed.).
- Arendt, Hannah. 2010. Responsabilità e giudizio. Torino: Einaudi (a cura di D. Tarizzo – 2a ed.).
- Kant, Immanuel. 2011. Critica del giudizio. Roma-Bari: Laterza (a cura di A. Gargiuolo, – 6a ed.).
- Diels, Hermann – Kranz, Walther. 2012. I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle. Milano: BUR (a cura di A. Lami -8a ed.).
- Arendt, Hannah. 2014. Vita Activa. La condizione umana. Milano: Bompiani (a cura di Sergio Finzi – 18a ed.).
- Gatti, Roberto. 2015. Filosofia politica. Brescia: La scuola.
- Aristotele. 2106. Organon. Milano: Bompiani(a cura di M. Migliori).
- Platone. 2016. Tutti gli scritti. Milano: Bompiani (tr. it. G. Reale – 8a ed.)