Nietzsche, o dell’amor fati

L’impatto generato dalla riflessione sul concetto di Postumano moderno elaborato da Leonardo Caffo e su cui ci siamo soffermati la scorsa settimana, è di straordinario interesse. Il superamento dell’antropocentrismo in direzione di un recupero della dimensione ontica (per dirlo con le parole di Heidegger), per risalire cioè alla primigenia condizione dell’essere enti o momenti all’interno di un Essere infinito che ci contiene e ci sovrasta, è uno spunto che apre interrogativi molto interessanti. Riscoprirsi parti del Tutto potrebbe svolgere una funzione fondamentale per affrontare sfide contemporanee come il cambiamento climatico o i flussi migratori. A ben vedere però, questo andare avanti, questo volersi muovere oltre l’uomo in direzione di una riscoperta della comunità, è un andare avanti e insieme un tornare indietro. È un rinunciare all’anelito, a quell’istinto di prevaricazione che nella volontà d’accrescimento individuale ha colto uno dei momenti di maggiore bellezza dell’esperienza umana. L’uomo è innegabilmente parte del Tutto, l’uomo è innegabilmente un ente al pari di tutti gli altri, eppure, allo stesso tempo l’uomo è qualcosa di diverso. Esso è monade, esso è per certi versi la personificazione di quel principium individuationis che tanti dibattiti ha generato all’interno della riflessione filosofica. Per questo pensare ad uno scenario di regressione dal piano individuale, pur nel suo fascino, ci spinge a una certa diffidenza, perché già sembra di sentir riecheggiare il monito di Zarathustra: «Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!» (Nietzsche 1968, 11). Sin da allora, infatti, l’esigenza di un superamento dell’umanità è rimasta viva, così come la tensione verso una dimensione superiore che per Nietzsche – a differenza di Caffo e Deleuze – proprio non può prescindere dalla dimensione “superiore” dell’individuo. Non solo, proprio nella vita comunitaria e soprattutto nella sua stratificazione egli coglie il momento di massimo annichilimento di questo sentire.

Era 1881 quando il filosofo tedesco pubblicava Aurora, un’opera che costituisce un punto di svolta del suo pensiero sotto diversi punti di vista, e sin da allora tutto era molto chiaro nella sua mente: solo al di fuori del contesto societario per l’uomo è possibile diventare più di un elemento all’interno di un gregge. Sia chiaro la differenza tra questa prospettiva e quella proposta dal lavoro di Caffo è immensa, tuttavia, una simile distanza non ci protegge dal rischio intrinseco portato dal ritornare all’interno di una comunità dalla portata più pervasiva. Perché come delinea chiaramente Nietzsche nell’aforisma 9, anche la società più virtuosa, cioè anche quella che fosse in grado di elevare l’etica al livello del nomos, non riuscirebbe in alcun modo a sottrarsi al giogo del proprio percorso storico. È la fedeltà ai costumi, massima espressione della tradizione, che determina il concetto stesso di eticità, è la devota sottomissione ad un’autorità che forte della sua capacità di sopravvivere nel tempo, che impone il passato al presente e lo vincola alla staticità. In questo si radica la battaglia nietzscheana per il superamento dell’uomo: nella speranza di liberare l’individuo dal dominio dei costumi. Dove l’etica esige il sacrificio del singolo in nome dell’imperium della tradizione infatti, chi, seguendo le orme socratiche (quel “conosci te stesso” che tanto scompiglio aveva portato all’interno della società ateniese) instilla nel cuore dell’individuo la morale dell’autosuperamento per il suo vantaggio e la sua felicità, gli apre il sentiero della malvagità e della solitudine. Perché la felicità individuale, l’autorealizzazione, è un percorso individuale rispetto al quale prescrizioni esterne come quelle morali possono essere solo d’intralcio. Dovrebbero avere tutti la stessa meta, affinché si possa parlare di una morale capace di condurre alla “suprema felicità” (Cfr. Nietzsche 1964, aforisma 108, 75-76).

Una simile deriva della società occidentale fine ottocentesca, per Nietzsche, era motivata dalla secolarizzazione del cristianesimo, che nella contrazione della sua portata veritativa ha trovato l’esasperazione della sua etica; al punto che il concetto stesso di bene è arrivato a coincidere con l’amore del prossimo. Questa negazione dell’ego in nome della comunità è un sostanziale invito alla soppressione dell’individualità a favore di una totalità; un atteggiamento che a ben vedere porta con sé il germe stesso del concetto di massa. Tale impianto altruistico però, secondo Nietzsche, si fonderebbe su di una convinzione profondamente errata: «Aiutare l’individuo è impossibile, perché non lo si può conoscere. L’inconoscibile  questo è il prossimo» (Nietzsche 1964, fr. 2[52], 299). Nulla di più lontano da quel “poter pensare in comunione” di Deleuze e Guattari.

Questa esaltazione dell’individualismo e dell’istinto di prevaricazione da parte del singolo nei confronti della comunità è stata vista da molti come un inno alla sovversione cui nessun seguito sarebbe possibile fuorché l’affermazione di un feroce nichilismo (alimentato ulteriormente dal celebre annuncio della morte di Dio contenuto ne La gaia scienza) che ha fatto passare un’immagine di Nietzsche come del catalizzatore della decadenza di un’epoca. In realtà ciò è vero solo in minima parte, perché nel suo pensiero si annida una delle prospettive più interessanti per dare una risposta alternativa a quella complicatissima domanda Che cos’è la filosofia?

«In ogni piccolo istante vi è in noi una necessità assoluta dell’accadere» e dire “io voglio” nel momento in cui agisco è come «comandare al sole di sorgere mentre sta sorgendo»(Nietzsche 1964, fr. 6[119], 450). È in questo frammento che si annida quella prospettiva; è fra queste poche righe che si cela uno dei frutti più preziosi del filosofare di Nietzsche. Negare la libertà del volere umano come atto di emancipazione. Negare il libero arbitrio e tutte le sue implicazioni per sottrarre l’individuo al giogo della morale. Ma com’è possibile tutto questo? Com’è possibile riconoscere ancora uno spazio per l’individualità se l’Essere è l’espressione di un susseguirsi di eventi uniti dal vincolo della necessità e quindi già eternamente – poiché va da sé che se l’accadere è incontrovertibilmente destinato ad essere esattamente come è stato, è e sarà, ciò lo pone fuori dalla dimensione temporale (essa non è altro che la successione dell’apparire dei suoi momenti) – predeterminati? È possibile nella misura in cui – ma qui siamo già oltre Nietzsche – lo stesso prendere atto di un simile stato di cose è a sua volta un’espressione dell’Essere nel suo farsi, che si esplica all’interno e attraverso il percorso conoscitivo individuale. Per dirlo con le parole di Severino, è il percorso attraverso cui s’impone il destino della necessità grazie al suo darsi incontrovertibile. Ed è anche lo stesso Nietzsche che alla fine non trova soluzione alternativa all’appoggiarsi alla stessa nozione: «Se tutte le cose sono destino, anch’io sono destino per tutte le cose» (Nietzsche 1975, fr. 29[13], 10). Questa esprime una simile presa di coscienza attraverso la celebre formula dell’amor fati: un concetto che nasce come in forma di intellettualismo etico nel quale la consapevolezza della sterilità del volere e l’accettazione entusiasta di quanto capita in sorte, permettono di rovesciare il terrore dell’aver perso tutto (Dio, morale, libertà) nella gioia di aver guadagnato tutto (innocenza di fronte alla vita che è espressione di un destino). Superuomo chiama Nietzsche l’individuo capace di sopportare il peso di un mondo simile, è questo il grande momento in cui l’umanità riesce ad oltrepassare se stessa e a confluire in qualcosa di più. Un qualcosa che sicuramente non potrà mai esprimere una tendenza di massa o condivisa, ma che parimenti costituisce uno dei più grandi inni alla grandezza di cui l’umanità sia mai stata capace. Una grandezza che si costruisce sul piano degli individui, ma che poi si esplica fuori e oltre di loro, una grandezza che può essere solo la grandezza dell’Essere, ma che cionondimeno è indissolubilmente legata anche al nostro apparire che, come in Bergson, ci riporta nell’infinito, ma non più in virtù di una contrazione, bensì come suo momento di culmine.

Che cos’è dunque la filosofia per Nietzsche? Il coraggio di diventare ciò che si è, il coraggio di guardare il necessario svolgersi del cammino dell’Essere e di godersi lo spettacolo. Quale ne sarà l’esito non è più una questione di volontà, ma sicuramente, al di là del bene e del male, il suo farsi passerà anche attraverso le nostre mani. A questo punto però, siamo già ben oltre il pensiero di Nietzsche, ben oltre la costruzione di quel ponte a cui egli ha dedicato tutta la sua vita e che finalmente, almeno in parte, sembra davvero sia stato percorso.

 

Riferimenti bibliografici

  • Nietzsche, Friedrich. 1964. Aurora e Frammenti postumi (1979-1881). Milano: Adelphi.
  • Nietzsche, Friedrich. 1968. Così parlò Zarathustra. Milano: Adelphi.
  • Nietzsche, Friedrich. 1975. Frammenti postumi 1884-1885. Milano: Adelphi.

Foto di samsommer su Unsplash

Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su Ritiri Filosofici il 28 gennaio 2018.

Andrea Cimarelli è laureato in filosofia con una tesi su Emanuele Severino e la lettura dell'Eterno Ritorno nietzschiano. Si è occupato di Nietzsche e di Giorgio Colli.

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