È difficile, per un amante della conoscenza, resistere al fascino dell’Antica Grecia, alle suggestioni legate a quella civiltà che, dando alla luce la filosofia, ha aperto le porte alla razionalità e all’utilizzo sistematico del pensiero. Ma quali sono state le condizioni che hanno favorito l’emersione di un fenomeno tanto straordinario e decisivo per la storia dell’Occidente? Cosa c’era nella civiltà greca prima del pensiero filosofico e qual è il suo rapporto con quest’ultimo? Uno dei tentativi di risposta in assoluto più interessanti a simili quesiti, è quello contenuto in Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci del filologo tedesco Erwin Rohde, che tra il 1890 e il 1894, calcando l’intuizione dell’amico di giovinezza Friedrich Nietzsche, gettò una nuova luce sulla cultura greca degli albori. Con La nascita della tragedia (1872) infatti, Nietzsche aveva letteralmente sconvolto il mondo filologico europeo del tempo (impietoso fu l’attacco che gli rivolse Wilamowitz), incalzando l’immagine tradizionale di una società votata alla serena e solare compostezza propria della religione olimpica, svelò l’esistenza di una sua dimensione“notturna”, profondamente passionale e irrazionale: lo spirito dionisiaco. Scuotendo la civiltà greca fin nelle sue fondamenta, questa esperienza riuscì ad aprire una breccia nel muro che lo spirito apollineo (il baluardo difensivo del kosmos olimpico dall’infuriare del kaos originario e dalla sua istintualità) aveva eretto fra l’uomo e la divinità, così da riportare nella sfera umana quell’immortalità che aveva perso con la fine delle fedi arcaiche e che renderà indispensabile la nascita della filosofia per trovare un nuovo fondamento capace di resistere ad ogni secolarizzazione.
È all’interno di questo fermento culturale dunque, che si muove lo studio di Rohde; nettamente più completo e articolato sul piano storiografico dell’analisi nietzscheana sulla nascita della tragedia. Lo dimostrano inequivocabilmente lo sterminato apparato di note (quasi 1500) e le oltre 600 pagine di trattazione – tradotte in italiano da E. Cordignola e A. Oberdorfer – a testimonianza di un lavoro filologico di grande attenzione e precisione; l’unico che avrebbe potuto consegnarci un’opera di tale spessore.
Il culto delle anime da Omero ad Eleusi
Come anticipa già il titolo, il fulcro dell’intera trattazione ruota intorno alla psiche e alle sue oscillazioni semantiche lungo la storia della civiltà greca. Rohde infatti, divide la sua opera in una prima parte, dedicata all’emersione e all’affermazione di questo concetto sul piano religioso-culturale, e in una seconda destinata ad analizzarne gli sviluppi filosofici dopo l’irruzione del dionisiaco. Il punto d’inizio di un simile lavoro, non poteva che essere Omero. Di questo personaggio non si vuole sottolineare solo il ruolo di canone della cultura popolare successiva, ma anche e soprattutto quello di catalizzatore, a volte perfino inconsapevole, delle tendenze culturali e religiose anteriori al suo tempo. Per Omero infatti, la ψυχή (psiché) non aveva nulla a che fare con quello che noi potremmo chiamare oggi “anima” o “spirito”, essa era piuttosto un vero e proprio alter ego, un altro io che risiede nell’intimo dell’io visibile, coessenziale a questo per la vita del corpo e che gli subentra nel mondo del sogno. Con la morte essa se ne esce dal corpo e piomba nell’Ade cessando definitivamente ogni rapporto col regno dei vivi; nessuno spettro, nessun demone inficia il dominio degli dei sul mondo. Eppure anche nella sua poesia sono presenti tracce di un antico culto delle anime che pur depotenziato della sua portata escatologica persiste sul piano pratico come nei roghi funebri presenti all’interno dell’Iliade. Qui, per Rohde si gioca una partita molto più importante di quanto il poeta lasci trasparire, perché nelle parole pronunciate da Achille sulla pira di Patroclo si celano tracce di un culto che impone l’arsione del corpo per scongiurare il persistere della psiche a minacciare l’armonia del mondo dei vivi. Malgrado le sue intenzioni dunque, Omero si fa testimone della persuasione, profondamente radicata nei popoli antichi, di una sorta di continuità fra il regno dei vivi e quello dei morti che esige la nascita di pratiche cultuali in grado di proteggere i primi dalla grande potenza di cui erano ritenuti capaci i secondi. Balza subito agli occhi, la coesistenza contraddittoria di un piano macroscopico votato all’ordinamento politico, con uno microscopico fatto di una religiosità intrisa di superstizione; e per Rohde lo svolgersi della storia della cultura greca esprime proprio l’articolarsi di questa contraddizione. Il porsi in un movimento dialettico dell’idea di un cosmo ordinato all’interno del quale perfino gli dei sono limitati dal potere della μοῖρα (moira) e di una dimensione popolare fortemente votata al culto delle anime, intese come entità incorporee in grado di esercitare un influsso attivo sul mondo, da ingraziarsi con offerte, sacrifici, festività e giochi. Fu questo secondo aspetto in particolare, a favorire l’affermarsi della persuasione che lo stato dell’anima dopo la morte, non solo è ben diverso dal mondo di ombre descritto nell’Ade omerico, ma anzi, assume sempre più le tonalità di una vera e propria seconda vita. Così, rapidamente, all’adorazione degli dei e degli eroi, si affianca quella per i defunti della propria gente (termine da intendere in senso analogo a quello della gens romana), che in quanto espressione di un legame diretto col territorio da essi abitato riporta in Grecia il fenomeno della sepoltura, totalmente estraneo al mondo omerico. La convinzione dell’importanza della vita dopo la morte raggiunse il culmine attraverso le fedi misteriche, di cui la massima espressione sono senz’altro i misteri eleusini (dalla città di Eleusi in cui sorsero), ossia vere e proprie cerimonie religiose destinate alle divinità dell’oltretomba per ottenere la possibilità di avere un trattamento speciale dopo il trapasso.
Per Omero infatti, la ψυχή (psiché) non aveva nulla a che fare con quello che noi potremmo chiamare oggi “anima” o “spirito”: essa era piuttosto un vero e proprio alter ego, un altro io che risiede nell’intimo dell’io visibile, coessenziale a questo per la vita del corpo e che gli subentra nel mondo del sogno.
Il dionisiaco irrompe in Grecia
Un culto delle anime così concepito però, secondo Rohde, non avrebbe potuto evolversi in una concezione dell’anima come ente eterno; il suo legame con la devozione da parte delle generazioni successive infatti, era tale che solo attraverso la memoria dei posteri essa sarebbe continuata ad esistere nell’al di là. Inoltre, « chi, in Grecia, dice immortale, dice dio: sono idee equivalenti» (Rohde 2006, 277-278), quindi occorreva l’insorgere di qualcosa che mutasse profondamente il modo di concepire l’anima stessa. Tale rivoluzione, per Rohde, fu portata in Grecia dal culto di Dioniso, una dottrina mistica che sostenendo la sostanziale unione dello spirito divino con quello umano, fu la prima affermazione di una “immortale vita eterna dell’anima”. Il punto di contatto si celava nella μανία (mania), un’alterazione dello stato psichico individuale indotta attraverso una ritualità votata alla danza, all’orgasmo, al consumo di vino come di narcotici, che permetteva di dilatare l’essere individuale fino a farlo sentire parte del mondo superiore della divinità. Man mano che questa esaltazione degli istinti vitali più reconditi prendeva piede, ad essa si accompagnava una sempre più forte persuasione nelle straordinarie potenzialità dell’anima separata dal corpo. Così Rohde finisce per cogliere nel fenomeno del dionisiaco la chiave di volta per comprendere la nascita della filosofia, perché per lui è proprio in relazione all’esigenza di giustificare il concetto di immortalità dell’anima che emerge il pensare filosofico. Dapprima sotto forma della teosofia orfica, che partendo dal culto dionisiaco rilesse il divenire del mondo come il processo di animazione del Tutto da parte delle divinità, ma come dimostrano i suoi legami con la dimensione mitica e l’incapacità di elaborare concetti astratti, resta ancora molto radicata nella sfera religiosa. Successivamente, con l’emergere delle prime indagini sull’ἀρχή (archè), cioè sull’origine del gran Tutto all’interno del quale l’anima umana è compresa, come vera e propria analisi filosofica.
A questo punto a dir la verità, il testo perde molto dello slancio iniziale e ad eccezione di qualche interessante digressione intorno a quei personaggi che Rohde definisce “i profani”, ossia Pindaro e i giganti della tragedia attica (tra i quali egli include anche Euripide, che invece per Nietzsche segnava l’inizio della decadenza di questo straordinario fenomeno) si riduce ad una sostanziale e sommaria ricostruzione della storia della filosofia incentrata sulle diverse concezioni di anima emerse fino alla tarda grecità del mondo ellenico. Ciononostante, Psiche resta un’opera di grandissimo valore perché grazie anche ad un livello d’erudizione straordinario, riesce a portare un po’ di luce all’interno della fitta nebbia che avvolge la nascita del pensiero filosofico. Egli infatti, analizzando la nascita del concetto di anima e l’instaurarsi di un legame tra questa e l’immortalità propria della sfera divina grazie al culti di Dioniso, di fatto getta le basi per pensare la nascita della filosofia come la risposta all’esigenza – emersa in seno al movimento religioso stesso – di trovare un nuovo approccio per giustificare la verità. L’esigenza di trovare un sapere in grado di fondare la verità in modo tale che fosse capace di resistere alle insidie tese dall’emotività e dalla superstizione. Così, se Nietzsche è il genio che per primo ha intravisto la portata rivoluzionaria del fenomeno dionisiaco per l’intera storia dell’Occidente, Rohde è senz’altro colui che ha permesso a tale intuizione di evolversi in conoscenza.
Riferimenti bibliografici
- Rohde Erwin. 2006. Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci. Roma-Bari: Laterza.
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Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Ritiri Filosofici l’8 novembre 2015.