Le aporie del realismo metafisico di Searle (II)

L’assolutizzazione dell’oggetto
Il monismo materialistico, come abbiamo cominciato a vedere nell’articolo scorso, sostanzialmente coincide con l’assolutizzazione dell’oggetto e implica che all’oggetto viene sottratto ciò su cui poggia che è l’altro da sé, il soggetto appunto.
In effetti, ciò che va messo in evidenza è proprio la correlatività di soggetto e oggetto, per lo meno del soggetto empirico, stante che quello che i filosofi chiamano “soggetto trascendentale” non può non emergere oltre la relazione all’oggetto, costituendosi come condizione oggettivante questa stessa relazione.
Ebbene, il monismo materialistico configura la più radicale negazione della soggettività, proprio perché vale come l’assolutizzazione dell’oggetto. Per comprendere il senso di questa assolutizzazione, che realizza una delle forme più significative di riduzionismo, si impone la necessità di proporre e spiegare quella distinzione, che a noi sembra essenziale anche per intendere adeguatamente il concetto di realtà: la distinzione che sussiste tra oggettivo e oggettuale.


Rileviamo che la stessa scienza, da un lato, è solita riferire la parola “oggetto” a una “realtà” che apparterrebbe all’ambiente esterno al soggetto; dall’altro, al “risultato” dell’attività cognitiva. Da un certo punto di vista, insomma, l’oggetto viene assunto come oggettivo; da un altro punto di vista, invece, esso viene considerato il “prodotto” dell’attività del soggetto: un “costrutto cognitivo”. Quale delle due concezioni scegliere? Questo è il dilemma di fronte al quale si trova la scienza!
Per approfondire la questione, che coincide proprio con il tema della nostra ricerca, utilizziamo un significativo passo di Searle, che indica cosa si debba intendere per “oggettivo”. Scrive Searle: “osservate ora gli oggetti che vi circondano, sedie, tavoli, case, alberi. Questi oggetti non sono in alcun senso ‘soggettivi’. Esistono del tutto indipendentemente dall’essere o non essere oggetto d’esperienza di qualcuno” (Searle 2004, 5). Ebbene, da quanto affermato da Searle emerge che con l’espressione “oggettivo” – che è contrapposta implicitamente a “soggettivo” – si intende ciò che esiste indipendentemente dal soggetto e dalle sue capacità percettive. E ciò implica che la realtà ordinaria, il mondo di cui facciamo comunemente esperienza, viene considerato come esistente a prescindere dal soggetto, il quale in tal modo non può non essere totalmente subordinato all’oggetto. In questo senso, parliamo di assolutizzazione dell’oggetto: il soggetto viene epochizzato perché l’oggetto si pone indipendentemente da esso.
Potremmo dire, per insistere su questo nodo, che la caratteristica fondamentale dell’oggettivo è che esso si si pone fuori dalla relazione al soggetto e per questa ragione vale come la realtà autentica, quella realtà che è in sé e per sé. La posizione espressa da Searle, pertanto, può venire fatta coincidere con quella di Hobbes e cioè con quel realismo metafisico, che potremmo definire anche materialistico, il quale assume come unica realtà quella fisico-materiale.
La questione, però, è assai complessa. Se non si può non concordare con l’idea di oggettività, per la quale l’oggettivo è autonomo e autosufficiente, cioè è assoluto, ci si deve chiedere, però, se la realtà ordinaria possa venire considerata effettivamente oggettiva. Il limite della riduzione dell’oggettivo all’oggettuale può venire evidenziato mediante la seguente domanda: quella realtà, che viene assunta come se fosse indipendente dal soggetto, permane la medesima allorché entra in rapporto con esso?
A tale domanda è possibile fornire due diverse risposte. Se si risponde che la realtà permane la stessa, allora si deve ammettere che la relazione al soggetto non produce alcuna trasformazione nell’oggetto. In questo caso, pertanto, oggetto-reale e oggetto-percepito debbono venire considerati un medesimo, con questa conseguenza: l’oggetto reale si risolve e si dissolve nell’oggetto percepito, l’unico di cui il soggetto possa fare esperienza.
Se, di contro, si risponde che l’oggetto reale non si risolve nell’oggetto percepito, dal momento che il primo è in sé e per sé laddove il secondo è per noi, ossia è il prodotto della trasformazione che la “dipendenza” dal soggetto impone all’oggetto reale, allora ci si trova nella necessità di dire che dell’oggetto reale nulla si può affermare, se non che non coincide con l’oggetto percepito né si risolve in esso.
L’oggetto reale vale, così, come la condizione incondizionata; l’oggetto percepito come il condizionato. Solo quest’ultimo può venire determinato, giacché la condizione incondizionata è il fondamento inoggettivabile dell’oggettivazione rappresentata dall’oggetto percepito.
Ebbene, è quanto mai significativo rilevare che proprio Searle, che pure è un fautore del recupero dell’ontologia in prima persona, mantiene un concetto di “oggettività” che appartiene a un realismo che, a nostro giudizio, non può non venire definito “ingenuo”. Egli, infatti, pretende di assumere come condizione incondizionata quegli oggetti di esperienza che sono condizionati proprio perché dipendenti dal sistema percettivo del soggetto.
Ci troviamo, quindi, di fronte a un punto cruciale dell’argomentazione che intendiamo svolgere: ciò che viene ordinariamente considerato come “oggettivo” in effetti non è che “intersoggettivo”, giacché indica soltanto “ciò che viene condiviso”. E questo ha un’importantissima conseguenza: poiché di una oggettività comunque si necessita, stante il fatto che solo l’oggettivo può valere come autentico fondamento, il realismo ingenuo finisce per risolvere l’oggettivo nell’intersoggettivo.
Che è come dire: il realismo ingenuo non sa porre la fondamentale distinzione tra oggettivo e (inter)soggettivo, così che non è in grado di configurare l’oggettivo in senso “forte”, cioè come un’oggettività ontologica, ma soltanto in senso “debole”, appunto come un’intersoggettività. Per esso, deve venire considerato come oggettivo solo ciò che viene condiviso da più soggetti e il linguaggio è la forma paradigmatica dell’oggettività intesa in questo senso.
Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che venga condiviso ciò che in sé è oggettivo, come il punto di vista ordinario tende a far valere. Di contro, si deve pensare che ciò che viene condiviso, magari dalla maggioranza delle persone, viene assunto come se fosse oggettivo, pur essendo, in effetti, non altro che soggettivo, ancorché intersoggettivo.
Il punto, come detto, è estremamente rilevante, perché impone che il “come se” non venga mai dimenticato. Il realismo ingenuo risulta tale precisamente per la ragione che, invece, tende a dimenticarlo. Se non che, è la natura stessa del dato, il quale è tale in quanto “è dato a un soggetto”, che lo ricorda e che impone di cogliere il dato per ciò che esso effettivamente è, ossia impone di coglierlo nella sua intrinseca valenza relazionale.

Carattere empirico del dato
Quanto detto nel precedente paragrafo mette capo alla seguente conclusione: non si può mai dimenticare che la realtà di cui parliamo è empirica, non metafisica, cioè non trascende l’esperienza stessa. E le “cose” dell’esperienza si riferiscono reciprocamente le une alle altre, si vincolano intrinsecamente, per la ragione che nessuna di esse è autonoma e autosufficiente.
L’identità determinata, infatti, è tale proprio perché de-limitata, ossia perché segnata da un limite, il quale presenta due facce, tra di loro indisgiungibili: una che guarda il limitato, e cioè l’identità, l’altra che guarda il limitante, e cioè la differenza. Questo comporta che l’identità determinata non potrà mai venire effettivamente disgiunta dalla differenza, ancorché l’esperienza percettivo-sensibile mostri che questa operazione sia possibile.
Per contrario, l’oggettivo è proprio ciò che non può non essere in sé consistente e per sé sussistente: solo a questa condizione esso funge da effettivo fondamento del conoscere. Il fondamento – questo è il nodo più importante, da un punto di vista teoretico-concettuale – non si costituisce come un’identità determinata, cioè come qualcosa che, non essendo sufficiente a sé stesso, si pone solo perché si riferisce ad altro da sé, ma come l’assoluto stesso, giacché solo l’assoluto è sciolto da ogni forma di dipendenza e, quindi, vale veramente come autonomo e autosufficiente.
Potremmo dire che l’oggettivo configura ciò che viene esigito dall’universo del discorso, e dall’universo del discorso scientifico in particolare; se non che, esso permane sempre “esigito” e non si trasforma mai in “esatto”.
In effetti, il participio passato del verbo italiano “esigere”, che corrisponde al latino exigere, è “esatto” (exactus) e ciò induce a credere che qualunque esigenza, prima o poi, troverà adeguata soddisfazione.
Non così, però, per l’esigenza di fondamento. Tale esigenza è destinata a rimanere viva ed è precisamente questo suo rimanere viva che tiene in vita la ricerca.
Inoltre, l’irriducibilità dell’esigito all’esatto segna la distanza che sussiste con ogni forma di riduzionismo: quest’ultimo, infatti, assume l’esigito come se fosse l’esatto e, quindi, riduce il primo al secondo.
Ciò che di volta in volta viene assunto come oggettivo, allora, è a rigore solo intersoggettivo, inclusi gli “oggetti” della comune esperienza, i quali sono non altro che “prodotti” dell’attività del soggetto, anche se l’attività viene innescata da stimoli fisici che provengono dall’ambiente.
In quest’ultimo, non lo si dovrà mai dimenticare, si danno solo stimoli, i quali, inoltre, sono tali perché stimolano, ossia perché hanno una rilevanza per il soggetto. Questo spiega per quale ragione non tutti i ricercatori siano disposti a negare il mentale e l’ontologia soggettiva.
Orbene, l’aspetto veramente interessante è che anche coloro che riconoscono l’emergenza dell’esperienza in prima persona, e Searle è certamente uno di questi, tendono però a dimenticare che il “dato” è assunto “come se” fosse oggettivo e finiscono per considerarlo come la realtà stessa, l’oggettivo simpliciter, così che quello stesso soggetto, che per un verso emergerebbe sull’oggetto, per altro verso si subordinerebbe a quest’ultimo.
Ciò che costoro non riescono a vedere è proprio la reciprocità e la complanarità dell’uno e dell’altro, per lo meno – va ripetuto – se il soggetto viene inteso come “soggetto empirico” e non come “soggetto trascendentale”.
Si potrebbe anzi affermare che, se Searle recupera la soggettività, ma la subordina all’oggetto, assunto come “oggettivo”, di contro l’impossibilità di confondere “oggettivo” e “oggettuale” è presente ad altri studiosi, che si occupano della mente e che però non sempre accettano questo recupero dell’ontologia in prima persona, come lo propone Searle.

Riferimenti bibliografici

  • Searle, John Rogers. 2004. Mind. A Brief Introduction Oxford: Oxford University Press (trad. it. di Nizzo 2005. La mente. Milano: Raffaello Cortina).

 

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Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

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