Per introdurre
La Filosofia della mente rappresenta non soltanto un ambito specifico della ricerca filosofica, ma altresì il luogo teorico in cui si incontrano in forma esemplare scienza e filosofia. Precisamente per questa ragione, è considerata il fronte più avanzato tanto della ricerca filosofica quanto della ricerca psicologica, con importanti ricadute nel campo dell’etica, dell’antropologia, della sociologia, della giurisprudenza, per non parlare che dei più importanti ambiti di studio e di ricerca.
Ebbene, all’interno di tale contesto il programma naturalista, volto a negare ogni forma di “soprannaturalismo”, ha avuto un’influenza estremamente significativa. La naturalizzazione della mente, infatti, si è configurata in varie forme: alcune meno radicali, altre più radicali, le quali prospettano un riduzionismo che, se inteso nella sua modalità più estrema, genera quella concezione che viene definita “monismo materialistico”.
Il monismo materialistico, a sua volta, può venire inteso come una vera e propria assolutizzazione dell’oggetto, in modo tale che ciò che in tale concezione risulta eliminato è proprio il ruolo del soggetto. L’assolutizzazione dell’oggetto, d’altra parte, comporta l’assunzione di quest’ultimo come se fosse la realtà oggettiva, ossia la realtà che è in sé e per sé, totalmente indipendente dal soggetto, del quale si mette in discussione, appunto, la stessa esistenza.
Non a caso, Gilbert Ryle, intendendo riferirsi al ruolo della coscienza, parla a più riprese di “dogma cartesiano dello spettro nella macchina” (Ryle 1949), per sottolineare che la macchina, cioè il corpo, può benissimo procedere autonomamente e che il soggetto, cioè la coscienza o la mente, può venire considerato alla stregua di un fantasma.
In questo lavoro, muovendoci nel quadro teorico-concettuale rapidamente delineato, prenderemo in esame un aspetto specifico e cioè l’assunzione della realtà percepita come realtà oggettiva. Affinché il discorso risulti chiaro, porremo una distinzione, che a noi sembra molto feconda sul piano logico-teoretico e cioè quella che sussiste tra realtà oggettiva e realtà oggettuale.
La nostra ipotesi, che dovrà venire corroborata dagli argomenti che verranno offerti nel lavoro, è che la realtà percepita sia la realtà oggettuale e non la realtà oggettiva, come invece si tende a pensare. La realtà oggettiva, infatti, non può venire colta proprio perché è in sé e per sé. Nel momento in cui venisse colta, cesserebbe eo ipso di valere come oggettiva.
Gli assunti fondamentali operanti nella Filosofia della mente
Per contestualizzare adeguatamente il discorso che andremo a svolgere, ricordiamo che già la concezione comportamentista ha eliminato la mente dalla ricerca psicologica, perché ha affermato che si dà scienza solo di ciò che è direttamente osservabile. Il comportamentismo, pertanto, è perfettamente in linea con un naturalismo radicale.
Il cognitivismo classico o simbolico, invece, considera la risposta a uno stimolo funzione anche di “variabili nascoste”, ossia di processi interni non direttamente osservabili. Ebbene, tali processi interni sono i processi cognitivi, intrinsecamente legati alla componente cognitiva dello stimolo, l’informazione, e alle regole con cui tale informazione viene processata. I processi cognitivi sono processi meccanici, così che la mente, anche se viene riconosciuta come esistente, non di meno viene considerata per la sua componente inconscia, giacché solo le procedure regolate (che si svolgono in conformità a regole) sono descrivibili scientificamente e possono venire espresse in forma di algoritmi.
La psicologia scientifica naturalizzata, pertanto, si assume il compito di cogliere le leggi che stanno alla base dei processi mentali e la distinzione kantiana fra regno della natura e regno della libertà viene di fatto a cadere, perché anche la mente dell’uomo, nella prospettiva del naturalismo più radicale, viene fatta rientrare nel regno della natura e pensata secondo processi meccanici, dunque secondo un modello determinista.
La concezione di Goldman (Goldman 1967, 357-372; Goldman 1978, 509-523; Goldman 1986; Goldman 1993), che per primo ha coniugato il programma di naturalizzazione dell’epistemologia (Quine 1969) con quello di naturalizzazione della mente, viene definita affidabilismo esternista. Per i sostenitori di questa concezione, le credenze che l’uomo si forma intorno al mondo sono legittimate non dal rispetto di determinati principi teorici o dalla conformità a criteri stabiliti teoricamente (come accade nella concezione internista), ma dall’affidabilità del processo causale, ossia sono giustificati dal fatto che i processi causali, che danno luogo alla configurazione del campo percettivo, dunque del mondo con cui l’uomo ha a che fare, sono una garanzia sufficiente per la verità delle credenze che l’uomo si forma intorno ad esso.
Di contro, la credenza non sarà giustificata se il suo processo di formazione non procede, o procede in modo non affidabile, dall’oggetto o dall’evento cui il contenuto della credenza si riferisce. Ciò implica che la giustificazione consiste nella determinazione delle leggi causali che conducono, in una percentuale di casi molto alta, a credenze vere. Anche le credenze che derivano da fonti diverse dai canali sensoriali – per esempio, da ragionamenti o da catene di inferenze tra credenze, ma anche da processi non inferenziali – in tanto sono affidabili, in quanto si fondano su processi causali, giacché per l’affidabilista un’inferenza è una relazione causale tra enunciati.
Ci troviamo così di fronte a una serie di assunti che caratterizzano la Filosofia della mente e che meritano di venire discussi. Il primo e fondamentale assunto concerne il concetto di verità. Rileviamo che una parte significativa del dibattito in corso (cfr Appendice) si svolge muovendo dall’assunto che il concetto di verità debba venire interpretato nel senso dell’adaequatio rei et intellectus, ossia in senso corrispondentista.
Tale nozione di verità non viene discussa, come se fosse l’unica possibile e come se non implicasse seri problemi, almeno dal punto di vista teoretico. Essa, infatti, presume che possa esservi un luogo privilegiato in cui ci si dispone per poter svolgere un confronto tra la realtà (res), come è in sé, e la realtà, che viene conosciuta ed espressa (intellectus).
Se non che, un tale confronto postula un soggetto conoscente che possa cogliere la realtà oggettiva indipendentemente dal proprio conoscerla e, precisamente per questa sua capacità, possa poi effettuare un confronto con la realtà che gli è possibile conoscere (la realtà percepita). Il soggetto, insomma, dovrebbe uscire da sé stesso e cogliere la realtà indipendentemente dai suoi modi di coglierla: solo così sarebbe possibile stabilire se c’è effettiva corrispondenza.
Questo, a nostro giudizio, è il punto cruciale: si dà per scontata la determinazione della vera realtà, quando è esattamente questo il problema della verità. Del resto, se si affermasse che la corrispondenza si pone con la realtà che viene comunemente percepita, allora ciò implicherebbe, da un lato, la rinuncia a una fondazione “forte” della corrispondenza e, dall’altro, l’assunzione di ciò che è solo intersoggettivo (la realtà percepita) come se fosse oggettivo (autonomo e autosufficiente).
Il secondo assunto è il seguente: l’affidabilista – lo abbiamo visto – postula che la sua teoria si fondi solo su leggi causali. Se non che, nel momento in cui va in cerca di ragioni che siano in grado di legittimare la stessa teoria di cui si fa portavoce, egli non può non ammettere, almeno implicitamente, che la credenza espressa dalla sua teoria non si fonda soltanto su un processo causale.
A questa eventuale obiezione l’affidabilista non risponde mediante una contro-argomentazione, bensì facendo valere un nuovo assunto, quello per il quale la naturalizzazione dell’epistemologia non prevede una meta-epistemologia, cioè un livello ulteriore sul quale si disponga la riflessione critica concernente il primo livello.
Per l’affidabilista, che noi assumiamo come l’interprete più fedele della concezione naturalista e del programma di naturalizzazione della mente, vi sarebbe un unico livello, quello in cui si dispone la ricerca scientifica, perché un livello propriamente teorico, o meglio teoretico, dove si decide della natura della giustificazione e della conoscenza, non può esistere, se distinto da quello nel quale effettivamente conosciamo attraverso la scienza.
Si potrebbe dire che, secondo la prospettiva naturalista, la realtà è composta da un unico tipo di cose, fondamentalmente dalle entità indagate dalla fisica, e per questa ragione si parla di naturalismo fisicalista. Che si dia un unico livello conoscitivo costituisce, dunque, l’assunto fondamentale della concezione naturalista. Se non che, facciamo notare che si tratta di un assunto che viene clamorosamente smentito proprio dalla riflessione critica, che necessariamente dispone l’oggetto su cui riflette su un diverso livello rispetto a sé stessa.
Chi sostiene un naturalismo radicale, però, non si pone tale problema e non considera l’importanza del pensiero riflessivo. Il naturalista radicale rifiuta l’idea che il pensiero possa sdoppiarsi in un pensiero pensante e in un pensiero pensato, perché, come sostenuto da Comte, ciò appare una contraddizione.
Il terzo assunto può venire così sintetizzato: da un lato, si fa valere la naturalizzazione del metodo del conoscere; dall’altro, la naturalizzazione dell’oggetto stesso del conoscere, cioè la mente dell’uomo. Ma la naturalizzazione dell’oggetto qui coincide con la naturalizzazione stessa del soggetto che mette in atto il processo conoscitivo.
In tal modo, il soggetto viene ridotto a un qualunque altro oggetto e perde quell’emergenza che dovrebbe connotarlo in quanto soggetto. Proprio perché non accettano tale emergenza, coloro che si propongono la radicale naturalizzazione della mente finiscono per negare il soggetto in quanto tale.
La conseguenza di tali assunti è questa: se la mente, analogamente a quanto accade nella biologia, nella fisica e nella psicologia sperimentale, viene indagata a qualsiasi livello con lo stesso metodo con cui le scienze naturali studiano i propri oggetti, allora la naturalizzazione del metodo determina inevitabilmente anche la naturalizzazione dell’oggetto dello studio e, in ultima istanza, anche la naturalizzazione del soggetto conoscente, ossia la sua negazione come soggetto.
Per procedere, dunque, ci proponiamo di riflettere, da un lato, sull’assolutizzazione dell’oggetto e, dall’altro, sulla distinzione di oggettivo e oggettuale che, come vedremo, risulta essenziale per intendere il presupposto fondamentale sul quale poggia l’intera Filosofia della mente, in tutte le sue molteplici versioni, e cioè che la vera realtà, la realtà oggettiva, coincida e si risolva nella realtà percepita, come se il percepire non avesse un ruolo costitutivo del percepito e come se la realtà oggettiva non fosse tale solo a condizione di valere come assolutamente indipendente dal soggetto e, dunque, anche dal suo percepire.
Appendice
Il dibattito che vige nell’ambito della Filosofia della mente fa riferimento a teorie gnoseologiche che si differenziano essenzialmente per il modo in cui ciascuna di esse risponde alla formulazione dei “problemi scettici”. Quello scettico, infatti, è il punto di vista che mette in dubbio, attraverso svariati argomenti, la possibilità che si dia effettiva conoscenza. Per lo scettico non solo la giustificazione deve essere distinta da ciò che intende giustificare, ma soprattutto non deve presupporre la verità di quanto vuole giustificare; se non che, sempre per lo scettico, la giustificazione non esce mai dal circolo vizioso del presupporre, cioè dal diallele. Ebbene, i modi in cui le varie teorie gnoseologiche cercano di rispondere alla sfida scettica (il cosiddetto “scenario scettico”) definiscono i diversi modi di spiegare la natura dell’attività epistemica come tale, stante che il punto cruciale è proprio lo stabilire quando si è giustificati nel credere qualcosa, ossia quando si può affermare che si crede in essa sulla base di buone ragioni. Il rapporto con la realtà, che il “realismo ingenuo” considera oggettiva, diventa dunque decisivo, dal momento che una credenza, cioè un enunciato che può essere vero o falso, non può essere casualmente vero, ma deve “rintracciare” il contenuto della sua verità. A nostro modo di vedere, come emergerà nel corso della trattazione, il centro teoretico dell’intero dibattito consiste nella duplice impossibilità: da un lato, non si può non richiedere il riferimento a una realtà oggettiva, l’unica che è in grado di legittimare il concetto di verità autentica, stante che “verità” e “realtà oggettiva” risultano un medesimo; dall’altro, non si può non riconoscere che tale realtà oggettiva (dunque, la verità autentica) non può venire determinata, senza trasformarsi in una realtà “per noi” (in una “verità relativa”).
Riferimenti bibliografici
- Goldman, Alvin I. 1967. «A Causal Theory of Knowing», in The Journal of Philosophy, LXIV (12).
- Goldman, Alvin I. 1978. «Epistemics: The Regulative Theory of Cognition», in Journal of Philosophy, LXXV (10).
- Goldman, Alvin I. 1986. Epistemology and Cognition. Cambridge (Ma): Harvard University Press.
- Goldman, Alvin I. 1993. Readings in Philosophy and Cognitive Science. Cambridge (Ma): Mit Press.
- Quine, Willard V. 1969. «Epistemology Naturalized», in Ontological Relativity and Other Essays. New York: Columbia University Press (trad. it. di Leonelli 1986. Relatività ontologica e altri saggi, Roma: Armando).
- Ryle, Gilbert. 1949. The concept of mind. London: Hutchinson (trad. it. di Pellegrino. 2007. Il concetto di mente. Roma-Bari: Laterza).
Photo by Daniel Öberg on Unsplash