Virtù del popolo e altre aporie del machiavellismo radicale

In un interessante libro del 2011 (Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, 2011, pp 252) John McCormick propone una rilettura dei testi di Niccolò Machiavelli incentrata sul rapporto fra classi sociali nel governo della cosa pubblica. Al centro dell’analisi sta una distinzione: mentre i grandi sono intrinsecamente predisposti all’oppressione, la plebe ha come unico interesse quello di non essere oppressa. In particolare nei Discorsi, Machiavelli dimostra che il popolo è abbastanza passivo da non valutare preventivamente minacce alla libertà da parte dei grandi, ma quando la minaccia diventa evidente può reagire con forza e questa reazione può prevenire future oppressioni.  La libertà della repubblica si tutela dunque armando il popolo: giuridicamente, attraverso organi di governo di classe, come tribunato e assemblee popolari costituite in tribunali e legislatori e, operativamente, per mezzo del controllo popolare dell’apparato militare.

 

1.- La plebe “guardia della libertà”
Secondo McCormick sia il Principe sia i Discorsi sono libri scritti per attenuare la pressione esercitata sul popolo da parte dei due principali antagonisti politici: il tiranno per il Principe e le élite per i Discorsi.
Nel primo capitolo dei Discorsi Machiavelli aderisce sostanzialmente all’impostazione di Polibio e distingue il governo dei migliori dal semplice governo dei pochi, ossia dei più ricchi. Ma in contrasto con i classici, dal quinto capitolo in poi egli afferma che i grandi possono essere definiti semplicemente sulla base del loro appetito di sottomettere gli altri componenti della polis.
La storia della repubblica romana insegna che i plebei hanno conquistato il proprio diritto di partecipare al governo da un lato con le minacce di secessione e dall’altro con la riaffermazione della propria attitudine al governo in quanto classe. Le democrazie, infatti, non nascono dal nulla. I principi fondano gli stati organizzando il popolo in eserciti ma, una volta acquisita una coscienza di classe attraverso l’organizzazione militare, il popolo può trasformarsi in una forza politica creativa. Per tal via il popolo bilancia il potere aristocratico attraverso istituzioni specificatamente di classe e con un connotato spiccatamente assembleare, che si contrappongono (ecco la “guardia della libertà”) ad un attore politico (i grandi) potente ed insidioso.

2.- La necessità della scelta imperiale
Nel XVI capitolo dei Discorsi sembra che Machiavelli subordini la libertà della repubblica alla necessità di perseguire la grandezza imperiale. In realtà, secondo McCormick, Machiavelli evidenzia che i grandi, legati ad una definizione di libertà come esclusione del popolo dalla politica, finiscono per rendere la repubblica intrinsecamente debole e quindi in costante pericolo di aggressione dall’esterno. L’impossibilità di concepire una repubblica militarmente forte ma non espansiva determina una necessaria metamorfosi imperialista. McCormick suggerisce tuttavia che, nella prospettiva di Machiavelli, l’appetito di grandezza e di gloria, che pure è il motore che spinge i grandi a perseguire l’impero, finisce per favorire, invece che l’interesse della propria classe, una maggior partecipazione popolare in politica. In altre parole, la scelta “imperiale” di Machiavelli è puramente strumentale all’accettazione da parte dei grandi di una maggior partecipazione popolare nella gestione della repubblica. Con la carota della gloria e il bastone della necessità, Machiavelli spinge i grandi a perseguire l’impero e, in tale processo, ad adottare politiche interne maggiormente inclusive: appunto la democrazia machiavelliana che dà il titolo al libro. L’espansione della partecipazione popolare che ne discende innesca un circolo virtuoso che, contenendo l’appetito oppressivo dei grandi, consente la longevità del regime, pur irrevocabilmente destinato al principato.

3.- Benefici della partecipazione popolare al governo della repubblica
Secondo McCormick il favore di Machiavelli per un governo potenziato dalla partecipazione popolare riposa sull’idea che il popolo abbia un’adeguata capacità di giudizio politico. Machiavelli individua tre aree nelle quali il popolo esercita miglior discernimento rispetto agli altri attori politici: 1) nel giudicare in processi politici; 2) nel designare magistrati; 3) nel produrre legislazione.
Quanto al primo profilo, Machiavelli sostiene esplicitamente l’opportunità di conferire al popolo il potere processare per reati politici anche appartenenti alla élite attraverso assemblee formalmente costituite in tribunale popolare, composte del maggior numero di persone, considerato che le piccole assemblee sono più soggette delle grandi a subire interferenze o errori. Ciò evita la giustizia della folla e la degenerazione della politica cittadina in uno scontro fra fazioni. Anche il problema delle calunnie e delle accuse anonime trova miglior soluzione nell’istituzione di assemblee popolari con funzioni giudiziarie su reati politici: anche qui, sostanzialmente, lo strumento giudiziario popolare evita che la repubblica si dissolva in scontro fra fazioni.

Quanto alla assegnazione degli uffici di governo e per evitare la più volte denunciata infiltrazione aristocratica, a Roma l’assetto costituzionale si venne strutturando conflittualmente attraverso l’istituzione di magistrature di classe: e proprio il tribunato della plebe deve essere considerato l’antidoto contro una totalizzante intrusione aristocratica nel governo della repubblica. Il ridotto campo d’azione territoriale dei tribuni della plebe (limitato al territorio dell’urbe) ha accentuato l’espansionismo militare ispirato dal senato e il conseguente scivolamento verso il principato: il tribunato della plebe ha dunque soltanto potuto ritardare la distruzione finale delle libertà repubblicane.

Quanto alla funzione legislativa, McCormick osserva che tradizionalmente il popolo viene descritto come inaffidabile perché incostante. Machiavelli ribalta il concetto e sostiene che un popolo, spinto da desiderio di non essere oppresso e sotto il dominio della legge, esprime una saggezza superiore a quella delle élite e del principe. Se difatti tutti i cittadini hanno diritto a proporre una legge e ad esporre liberamente i pro e i contro, si generano così tanti punti di vista da non poter essere eguagliati né dal principe più saggio né dalla migliore élite. In altre parole, se canalizzato in appropriate forme costituzionali non straordinarie, tale meccanismo può determinare un risultato migliore del governo aristocratico, perché tende a minimizzare le irresponsabilità individuali. Come tutte le cose umane, anche la miglior saggezza popolare è imperfetta. In particolare, essa non può prevedere ciò che è positivo o negativo per il bene pubblico con la stessa rapidità con cui tale previsione può essere fatta dai grandi. Per tale motivo, la costituzione di una effettiva democrazia machiavelliana deve assicurare che la prolungata curva di apprendimento del popolo abbia tempo a sufficienza per produrre i suoi effetti benefici, e deve inoltre prevedere i mezzi per l’eventuale introduzione di modifiche della cornice istituzionale fondate sulla conoscenza così ottenuta.

4.- Repubbliche post elettorali e il redivivo tribunato della plebe
Portando lo sguardo sull’assetto istituzionale contemporaneo, McCormick osserva che l’idea di sovranità popolare, esercitata per mezzo di elezioni generali a suffragio universale, propria delle democrazie moderne, sarebbe sembrata una rischiosa forma di governo ai fautori premoderni del governo popolare, per la sua chiara attitudine a venir infiltrata dai componenti delle élite.
McCormick elabora dunque un modello costituzionale che assicura la più ampia partecipazione popolare al governo, sul presupposto che il pensiero di Machiavelli debba essere inquadrato in una prospettiva radicalmente popolare, e basato sulla commistione di lotterie ed elezioni sia per ciò che concerne la selezione dei candidati, sia per ciò che concerne l’espletamento degli incarichi.

Le democrazie rappresentative moderne soffrono infatti di almeno due difetti: (1) l’assenza di mezzi extra-elettorali che consentano alla cittadinanza di controllare gli incaricati di uffici governativi; (2) l’assenza di distinzioni formali fra élite socio-economiche e cittadini comuni.
In sostanza, secondo McCormick, i teorici repubblicani contemporanei hanno sposato acriticamente l’idea moderna di sovranità assoluta, indivisibile e unitaria e, correlativamente, di uguaglianza giuridica formale, scoraggiando dunque l’imposizione di distinzioni legali fra cittadini, specialmente per quel che riguarda lo status socio-economico. Ma questa nozione di sovranità popolare e il modello istituzionale strettamente elettorale/rappresentativo che le corrisponde può, al contrario, incentivare la insularità delle élite e il sonno politico del demos.

Per destare il popolo, McCormick propone allora di rifondare gli assetti costituzionali su una sorta di scambio fra membri delle élite e classe popolare che consenta la costituzione di magistrature di classe, ad esempio con la rinuncia degli appartenenti alla élite a ogni forma di carica pubblica in cambio di esenzione da ogni carico fiscale. McCormick propone inoltre, da un lato, l’istituzione di un restaurato tribunato della plebe, modellato sul calco dell’ufficio romano e, d’altro lato, la costituzione di piccoli corpi assembleari di cittadini comuni, estratti a sorte dalle aree socio-economiche più svantaggiate, come equivalenti contemporanei delle assemblee popolari pre-moderne, in cui cittadini “incatenati dalla legge” hanno lo specifico compito di decidere su ben definite questioni politiche di interesse settoriale.

5.- Alcune osservazioni in ordine sparso
Il libro di McCormick fonde ammirevolmente conoscenza dei testi e militanza politica e getta un sasso nello stagno quieto (per modo di dire) degli studi su Machiavelli degli ultimi anni, in particolare sfidando la c.d. scuola di Cambridge (Pocock, Skinner, Petitt), che inquadra il pensiero del fiorentino in quello che è stato definito un generico republicanesimo civico. Su questo piano, McCormick estrae dai testi di Machiavelli una particolare idea di governo popolare e ne esplora la ramificazione nel dibattito contemporaneo sul rapporto fra responsabilità delle élite e teoria generale delle forme di governo. Se nella visione tradizionale del repubblicanesimo fiorentino la migliore repubblica è fondata su una costituzione mista, implicante la commistione fra elementi aristocratici e democratici, con prevalenza tuttavia dei primi, McCormick legge invece Machiavelli come sostenitore radicale di una costituzione fondata su un robusto dominio del popolo. Le élite, in questo quadro, sono viste come una minaccia permanente per la democrazia, non tanto nel senso scontato che esse cercano di occupare tutti i posti di comando, quanto nel senso che esse sono sistematicamente in grado di influenzare, per via sotterranea e nel proprio interesse di classe, l’esito del processo governativo.

La lettura delle opere di Machiavelli (e, in particolare, dei Discorsi) sembra tuttavia, quanto meno in alcuni  passaggi critici, piuttosto discutibile. Machiavelli è uno scrittore particolarmente complesso e il cannocchiale rovesciato dell’attualità può alle volte implicare conclusioni frettolose. Nell’intricato contesto fiorentino dell’epoca, dal quale Machiavelli trae gran parte del proprio vocabolario, il termine “governo largo” denota, al contrario di quanto sembra assumere McCormick, un sistema repubblicano ampiamente misto e non una forma radicale di democrazia popolare. La tesi di McCormick secondo cui Machiavelli considera governo largo e governo stretto come alternative mutuamente escludentesi è ad esempio smentita dal fatto che sia nei Discorsi, sia nella proposta di riforma costituzionale del 1519-1520, accanto al consiglio grande Machiavelli adombra anche l’istituzione di un’assemblea composta da un numero ristretto di componenti con incarico a vita.

Anche la pretesa di assegnare alla milizia fiorentina la funzione di esercito di classe e di scuola di cittadinanza democratica trova ben poco riscontro nei testi di Machiavelli, che sembrano invece orientati a conferire alla milizia lo scopo di di legare i soggetti dei distretti periferici (e, ad uno stadio successivo, gli stessi cittadini di Firenze) al governo centrale della repubblica.
Quanto poi agli antichi, il riferimento alle democrazie mediterranee lascia in ombra la circostanza che dalla popolazione politicamente attiva gli antichi escludevano radicalmente (e quanto meno) schiavi e donne e lo stesso concetto di demos ha connotati del tutto particolari. Né ancora si tiene conto del fatto che, nelle repubbliche pre-rinascimentali italiane, i meccanismi lotteristici e la frequente rotazione degli uffici furono proprio un elemento di estrema debolezza nel confronto con i nascenti stati nazionali.

McCormick propone un patto costituzionale in forza del quale gli appartenenti alla élite dovrebbero rinunciare all’assunzione di uffici governativi in cambio di esenzione da ogni carico fiscale, ma la proposta pare ben poco realistica e anzi decisamente naif: come evitare infatti che il rinunciatario non influenzi occultamente il non rinunciatario appartenente alla medesima classe? Oltre alla difficoltà pratica di segmentare in classi una società multiforme come quella contemporanea, la proposta trova poi un ostacolo concettuale insormontabile: se si discute di solidarietà di classe, l’improvviso spostamento dell’attenzione, in sede propositiva, sulla rinuncia agli incarichi da parte di singoli appartenenti all’élite pare operazione che contraddice la premessa.

Ad un primo livello, dunque, l’analisi di McCormick è affascinante, ma la proposta è palesemente utopica e probabilmente impossibile da trasformare in effettivi meccanismi istituzionali. Ad un secondo livello, poi, va rilevato che il punto centrale della tesi di McCormick risiede in una definizione di bene comune fondata sull’idea che esso sgorghi naturalmente dal popolo. Il tentativo di depotenziare la parte “umorale” delle decisioni rimesse al demos non trova tuttavia una soluzione chiara nel pensiero dell’autore, a meno che non si voglia far coincidere, senza altre distinzioni, il bene comune con la decisione della maggioranza. Ma l’idea per la quale il popolo, in quanto maggioranza, rappresenti il depositario del bene comune, distillato di un’infinita letteratura rawlesiana, trova ben poco fondamento e resta, per così dire, a livello di mero a-priori ideologico, considerato che il sistema maggioritario esprime nulla più che il dominio del più forte sul più debole.

Se è vero difatti (come Machiavelli ha chiarito una volta per tutte) che esistono leggi naturali dotate di validità universale e che una di queste è proprio quella per cui il più forte domina il più debole e, in virtù della sua forza, ha il diritto di governarlo, il principio di maggioranza trae la sua fascinazione non già da una garanzia di miglior governo o di più alta capacità politica, ma dalla lapidaria considerazione che la maggioranza è più forte della minoranza. Il che, evidentemente, elimina ogni possibilità di considerare in principio “migliore” il governo della maggioranza.

Riferimenti bibliografici
– Del Lucchese, Filippo, Machiavellian Democracy, in Historical Materialism, VOl. 20 – Issue 2, 01.01.2012;
– Hörnqvis, Mikael, Machiavellian Democracy, in Renaissance Quarterly, Vol. 64, n. 4 (Winter 2011);
– McCormick, John, Machiavellian Democracy: Controlling Elites with Ferocius Populism in American Political Science Review, Vol. 95, n. 2, June 2001;
– Mignini, Filippo, Europa e Cina, Quodlibet, Macerata 2020;
– Strauss, Leo, Thoughts on Machiavelli, University of Chicago Press, 1978;
– Vermeule, Adrian, Power to the People, in The New Republic, August 8th, 2011 (link qui).

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