Una delle riflessioni filosofiche contemporanee più dibattute, per lo meno all’interno del panorama italiano, è quella di Emanuele Severino, secondo il quale l’intera tradizione metafisico-morale del pensiero occidentale è preda di una follia originaria. Nella sua interezza la critica severiniana mira al fondamento stesso della filosofia intesa come radicale riflessione intorno al principio dell’Essere. Ad un primo approccio la questione potrebbe apparire semplice: la follia dell’Occidente consiste nel riconoscimento del divenire quale evidenza incontrovertibile della realtà. Severino sostiene che l’affermazione della natura diveniente delle cose porta con sé tutta una serie di conseguenze – riassumibili nella concessione di uno statuto ontologico al non essere – che minano la possibilità stessa di giungere alla conoscenza della Verità. Tuttavia l’argomentazione non tarda a rivelare una complessità di fondo tale da rendere indispensabile un confronto più preciso e approfondito. Continue Reading
Tra avere ed essere: quando il soggetto psichiatrizzato diventa soggetto politico
Tra esigenze politiche ed esigenze teoriche
Mai come negli ultimi anni si è mostrato come la psichiatria e la psicologia siano territorio di incontro e scontro tra soggettività epistemiche con interessi, speranze e bisogni diversi. Le comunità di pazienti, survivors e persone psichiatrizzate esercitano una pressione crescente sulle istituzioni e i centri di ricerca, ottenendo in alcuni casi veri e propri cambiamenti di rotta nelle decisioni imposte dall’alto (Sanderson, 2021). In ambito accademico, il precipitato di queste rivendicazioni è un rinnovato interesse su cosa significhi l’incontro tra la persona e la psichiatria, restituendo nuova linfa agli storici studi di Foucault (1998) e Goffmann (1961). Questo incontro necessita di almeno due nodi – la persona e la psichiatria – oggi entrambi oggetto di profondi e accalorati scontri teorici e politici: cosa significa essere pazienti, avere un disturbo, essere diagnosticati, essere istituzionalizzati? Qual è il ruolo dell’istituzione psichiatrica nella società, come dobbiamo guardare alle sue categorizzazioni? Continue Reading
“Essere o Non Essere”: non è questo il problema
Nel mese di novembre del 2014, l’Università di Macerata ha organizzato un convegno interdisciplinare dal titolo “Assoluto e Relativo”. Molto apprezzabile mi è sembrato l’intento alla base dell’iniziativa: raccogliere tentativi di ragionamento in termini assoluti, e non assolutistici, per trovare risposte soddisfacenti alle derive relativiste della contemporaneità.
Fin dal primo intervento, si è proposta la domanda fondamentale: “che cosa compete all’assoluto, l’Essere o il Non Essere?” Come ha immediatamente fatto notare il professor Francesco Totaro nel suo intervento Assoluto, relativo, prospettiva, in Occidente è stato Parmenide a dettare la via, mettendo direttamente in bocca alla Verità queste parole:
Quale origine vuoi cercare? Come e donde il nascere? Dal Non Essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è
(Parmenide, Frammento 8) Continue Reading
La concretezza della metafisica
L’origine editoriale del termine metafisica (metà tà physiká, ovvero i libri di Aristotele che si trovavano dopo la Fisica) rappresenta da sempre anche una sfumatura che caratterizza e identifica quest’area di interesse della filosofia. Eppure, al giorno d’oggi, la metafisica non gode affatto di una stima nel discorso filosofico e sembra essere invisa ai più e dimenticata: nelle università, ad esempio, non ci sono cattedre di metafisica e pochissimi corsi la riguardano esplicitamente, se non nelle facoltà teologiche (e questo ci dice molto). La metafisica ha acquisito una certa familiarità con la mistica, con qualcosa di esoterico e che esce dal perimetro del discorso filosofico e, così facendo, essa si è eclissata, fin quasi a diventare qualcosa di laterale e indicibile. La metafisica è dunque nascosta, de-valorizzata, ritenuta una riflessione più vicina alla fede, ammantata di una certa oscurità. Continue Reading
La Filosofia come continua ricerca del fondamento
Come alcuni ebbero a notare, la filosofia nasce grande. Quasi subito emerge il nocciolo problematico che resterà il cuore pulsante di tutta la ricerca a venire: l’identità essere e pensiero. Le parole con cui questo “cuore teoretico” appare nella coscienza greca sono famose, le dice Parmenide. «È infatti la stessa cosa pensare ed essere». Questa identità, che Parmenide chiama semplicemente essere, è la definizione nominale della verità; ed è ciò che in altri sistemi di riferimenti troviamo con parole come “assoluto”, “fondamento”, “Dio”.
Poco dopo Parmenide dice anche: «Composero infatti i mortali le loro opinioni nel nominare due forme, senza credere necessaria la loro unità». Dopo aver nominato la verità, indicandola nell’identità di essere e pensiero, Parmenide introduce la negazione stessa della verità, la dòxa, l’opinione che i mortali si formano. L’opinione dei mortali è la negazione della verità in quanto non vede la necessità dell’unità di pensiero ed essere, ma crede piuttosto nella loro separatezza, e vive in questa opinione separante l’identità. In queste due frasi fondamentali di Parmenide si concentra tutto il senso della storia della filosofia, fino ad oggi. Il non intendere l’identità essere-pensiero, che Parmenide invece garantisce come verità assoluta, anzi, la Dea stessa garantisce, conduce il mortale, cioè l’uomo, a pensare essere e pensiero separati, e considerare come compito fondamentale per se stesso una loro unificazione attraverso l’istituzione di una relazione. Ma il tema della relazione fra essere e pensiero, nel momento stesso in cui è posto nei termini suddetti, cioè quando viene inteso appunto come “relazione”, è già avviato a conclusioni necessariamente aporetiche. Infatti, quando si dice relazione, si dice separazione e unificazione. Se pensiero ed essere sono in relazione, e se questa relazione è fondamentale per entrambi, ché altrimenti se fosse estrinseca il problema si sposterebbe sul fondamento esterno della relazione, ovvero su un qualcosa che fonda la relazione essere e pensiero senza essere né essere né pensiero – se appunto la relazione di cui si tratta è essenziale, diventa impossibile pensare i termini separati. Se essere e pensiero fossero separabili, se ci fosse anche solo un punto in cui sono separati, non lo potremmo mai sapere: è il pensiero che sa, come potrebbe mai sapere l’essere laddove esso è separato dal pensiero stesso? È il pensiero che sa: ma se il pensiero è separato dall’essere vuol dire che non è, e quindi un non essere non sa. E ugualmente, se ci fosse un essere distaccato dal pensare, questo essere stesso non saprebbe di essere, e quindi non sarebbe per alcunché, tanto meno per se stesso.
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Il pensiero che dimentica la necessità del pensare
Nell’articolo “I sentieri e la palude” abbiamo cercato di mettere in evidenza che una questione dell’essere, che non sia al tempo stesso una questione della coscienza, conduce ad aporie inevitabili. Quando un’aporia non viene vista, e quindi viene subìta dal pensante, si producono pensieri e visioni del mondo che portano inevitabilmente a posizioni che non solo risultano contraddittorie, ma riverberano negativamente nell’esperienza vissuta degli uomini.
Nell’articolo “La macchinazione e l’inganno dell’esperienza vissuta” viene posto in evidenza come il pensiero moderno, cadendo nell’oggettivazione dell’essere nell’ente, giunga a ciò che Heidegger chiama “macchinazione”, che è il pensiero dominante l’attualità. Anche la coscienza cade in questa oggettivazione, con la conseguenza che le filosofie della coscienza che risultano da questa impostazione immettono anche la coscienza stessa nella macchinazione, riducendola a mera funzione coscienziale, e dunque a semplice presenza.
Obiettivo di questo articolo è mostrare, con l’ausilio del testo dei Quaderni Neri 1938/1939, che la critica di Heidegger alle filosofie della coscienza non riguarda l’Idealismo tedesco. Nei confronti di questa filosofia, entro la quale intendiamo quel movimento di pensiero che va da Kant a Hegel, da un lato Heidegger prende le distanze, da un altro lato ne cattura un valore che non è, come quello del pensiero moderno, oggettivistico, e quindi nel caso specifico “coscienzialistico”, ma metafisico, nel senso heideggeriano della storia dell’essere. Continue Reading
I sentieri e la palude
Nell’articolo pubblicato un paio di settimane fa (“Quando l’essere è più della presenza”) siamo portati subito, senza preamboli, nel cuore della filosofia heideggeriana con una tesi, espressa nel titolo, sulla quale intendiamo continuare la riflessione. Continue Reading
Percezione e coscienza (II)
Dicevamo, nello scorso saggio, che la domanda intorno alla realtà si converte nella domanda intorno alle cose che si presentano nell’esperienza ordinaria. La caratteristica fondamentale delle cose è che esistono. Con l’espressione “cosa”, del resto, è possibile indicare un qualunque oggetto, proprio in quanto “gettato di fronte” (ob-iectum) al soggetto. Certamente, può variare il campo dell’esistenza delle cose, nel senso che alcune si collocano nell’esperienza sensibile e altre nell’universo dei pensieri o delle fantasie. Tuttavia, il tratto distintivo di ciò che esiste (dell’esistente o ente) è che si presenta sempre come dotato di una propria forma determinata, una forma, cioè, che consente di riconoscerlo e di distinguerlo da ogni altro esistente (ente). Continue Reading
Dopo la Gloria e la Gioia è tempo della Grazia?
Il tema della possibilità e dell’impossibilità è al centro della filosofia di Emanuele Severino. Possiamo distinguere una prima e una seconda posizione dell’autore relativamente al senso della possibilità. Scopo di questo scritto è considerare queste due posizioni e vedere come esse influiscano sulla risposta alla domanda se siamo destinati al superamento dell’isolamento della terra dal destino, cioè alla Gloria della Gioia.
La riflessione di Severino parte da uno scritto di Jules Lequier:«Se la determinazione A è in potenza, la determinazione non-A è anch’essa in potenza. A e non-A, il sì e il no, cioè i contraddittori, in qualche senso coesistono dunque in potenza» (Lequier 1936, 80).
Severino si interroga sul senso di questa coesistenza dei contraddittori nell’essere in potenza.
Il risolvimento dell’aporia del nulla (IV)
Eravamo pervenuti non soltanto al punto per il quale il nulla «come significato autocontraddittorio» si costituisce di due momenti: «l’incontraddittorio nulla» (o «l’assoluta negatività») e «il positivo significare del nulla», ma anche alla precisazione ulteriore, che consiste nel fatto che «si potrà comunque usare il termine essere per indicare l’intera struttura del positivo significare del nulla (per indicare cioè l’intera struttura di ciò che vale come momento semantico [«il positivo significare del nulla»] del significato autocontraddittorio “nulla”)» (Severino 1981, 214).
In tal modo, non solo il «termine “essere”», valendo come sintesi di essere formale e di significati determinati, esprime una sintesi, dunque una struttura, ma anche il «nulla», nella misura in cui il suo positivo significare può venire espresso con il «termine essere», esprime, esso stesso, una struttura. Tutto il discorso di Severino è funzionale a questo approdo: attribuire una struttura all’assoluta negatività, individuando in essa una positività. Continue Reading