Abstract
This article is an attempt to establish a relationship between the decline of the traditional idea of law and the rise of values in the legal systems of continental Europe. In paragraph 1, the author affirms that the current legal system in continental Europe is based on a pyramidal conception of the law, according to the system designed by Hans Kelsen. This idea of law is marked by the dominance of the criterion of validity. In paragraph 2 he analyzes the emptying of the function of the law due to the rise of values. In paragraph 3 he defines the current concept of law. In paragraph 4, he examines other legal systems, which were marked by the dominance of the criterion of effectiveness and legal certainty. In paragraph 5 he argues that the current decline of the idea of law is a necessary consequence of a system that considers the law exclusively based on the criterion of validity. In paragraph 6 he claims that to restore the centrality of legal experience is probably necessary to leave the primacy of the criterion of validity.
La legge
In ambito giuridico, l’epoca moderna si è fondata sull’idea di fattispecie come strumento di previsione di eventi futuri incerti dai quali vien fatta scaturire una conseguenza giuridica. Al momento del suo massimo splendore la fattispecie consentiva di regolare more geometrico i rapporti tra gli uomini, arginando l’imprevedibilità del continuo divenire in cui è immersa l’esperienza umana.
Il tema viene trattato in un articolo del prof. Natalino Irti, apparso nell’ultimo numero della Rivista di diritto processuale, dal titolo La crisi della fattispecie (Irti 2014 [1], 36 e ss). A dire di Irti «proprio la tipizzazione semplificatrice permette alla norma di non consumarsi in un singolo giudizio applicativo, ma di prendere in sé un numero indefinito di eventi, riconducendoli, di volta in volta, entro date fattispecie e provvedendoli di precisa nomina iuris. La norma “ha pensato” la realtà in anticipo; il giudice torna a “pensarla”, giovandosi di quel predire originario e misurandolo sul fatto accaduto. Ambedue si collocano nella continuità di un processo di pensiero» (Irti 2014 [1], 39).
In tale universo concettuale, la legge è lo strumento attraverso il quale si definiscono le fattispecie: l’ordine è il meccanismo che estrapola dalla informe massa dei fatti e degli atti futuri alcuni di essi, cui attribuisce significato attraverso la previsione di conseguenze giuridiche, così innescando serie causali, a loro volta ordinate col medesimo criterio, che si dipanano nel futuro. La legge è uno strumento idoneo ad ordinare il futuro e quindi, in buona sostanza, a regolare il divenire ((Sul diritto positivo come forma della volontà di potenza dell’uomo, che «non riproduce né rispecchia dati della natura esterna, ma istituisce il proprio mondo» si veda ancora Irti 2014 [2], 167 nonché, e in precedenza, già Severino – Irti 2001). Si tratta di una strutturazione dell’universo giuridico in termini rigorosamente positivistici, in cui è forte l’eco del pensiero di Hans Kelsen. La chiave di volta del sistema è costituita dal momento di validità: la legge trova forza e fondamento nel meccanismo di formazione della legge, ossia nel complesso delle regole che soprintendono alla sua formazione, il che conferisce all’esperienza giuridica la forza di una razionalità apparentemente del tutto neutrale.
I valori
Il sistema tende ad incrinarsi nel momento in cui alla legge si affiancano e sovrappongono i valori, intesi come principî morali rilevati attraverso meccanismi del tutto diversi rispetto alla rigorosa e pre-ordinata procedura di formazione della legge: «mentre le norme — direi le «vecchie» norme ordinarie e costituzionali — si appagano della «validità», del loro essere emanate secondo le procedure proprie dell’elemento dell’ordinamento considerato, i valori valgono in sé e per sé, non hanno bisogno di altre norme o di tramiti, ma si appoggiano soltanto su se stessi» (Irti 2014 [1], 42).
Si affievolisce allora, fino a venir meno, il concetto di legge/fattispecie, così come rigorosamente costruito dalla modernità quale metro della valenza giuridica dell’evento futuro, e la legge diviene l’occasione, necessariamente estemporanea, e per questo asistematica ed imprevedibile, per inoculare un valore nell’ordinamento giuridico: «le norme si applicano; i valori si realizzano» (Irti 2014 [1], 43). La preminenza della legge, pilastro dell’intero universo giuridico moderno, viene minata alla radice ed è irrimediabilmente destinata a sbriciolarsi. Secondo Irti l’intromissione dei valori nell’alveo dell’esperienza giuridica minerebbe anche il sistema processuale, a causa del venir meno meno dell’obbligo delle parti di fissare causa petendi e petitum: insomma si definirebbe l’esperienza giuridica in maniera del tutto alogica e la tutela giurisdizionale, nel farsi esercizio di valori, non potrà più dirsi, al modo antico consueto, applicazione della legge, limitandosi a rimanere decisione del conflitto. Conclude dunque Irti affermando che «il concetto di fattispecie è proprio di società stabili, che permettono e agevolano il calcolo di eventi futuri. Dove codesto calcolo è incerto o insicuro, viene meno l’appoggio probabilistico per la costruzione delle fattispecie normative» (Irti 2014 [1], 44).
La preoccupazione è reale e concreta: la liquidità dell’esperienza giuridica contemporanea, caratterizzata da assoluta imprevedibilità, inconsistenza ed asistematicità è un dato della cronaca, da tempo uscito dall’alveo delle segrete preoccupazioni dei giuristi.
Il discorso di Irti potrebbe allora essere integrato con alcune osservazioni non marginali.
Una definizione
Prima di procedere oltre, è opportuno definire il concetto di legge. Per legge qui si intende il provvedimento normativo la cui produzione, minuziosamente regolata sotto il profilo procedurale, rientra nelle prerogative del detentore del potere politico. Per un verso la legge costituisce lo strumento principale di esercizio di quel potere; per altro verso essa stessa definisce l’orizzonte giuridico delle società umane che intende regolare, non tollerando (in linea di principio) fonti normative alternative o concorrenti.
Tale impianto concettuale è piuttosto recente: l’idea della legge come primo motore immobile dell’esperienza giuridica costituisce storicamente una delle caratteristiche tipizzanti l’universo concettuale (non solo giuridico) della tarda modernità continentale.

Altri universi
Le fonti del diritto: validità vs effettività
In epoca pre-moderna, non solo il concetto di legge non aveva alcuna affinità con quello poco sopra ricordato, ma anzi l’esperienza giuridica era imperniata su fonti normative del tutto indipendenti da norme rese vincolanti in ragione della loro promulgazione, secondo regole procedurali analiticamente prefissate, dal detentore del potere politico.
Durante l’epoca medievale, ad esempio, il diritto — quanto meno il diritto civile, che costituisce la parte principale dell’esperienza giuridica occidentale — era inscindibilmente ancorato a fenomeni che non avevano nulla a che vedere con le regole di formazione. Paolo Grossi ha precisamente individuato tale fenomeno quando ha notato che nell’ordinamento medievale «Il fatto non diventerà diritto perché una volontà politica se ne appropria dopo aver constatato la sua coerenza a determinati valori per essa rilevanti, ossia dopo un vaglio filtrante totalmente affidato a quella volontà. Il fatto qui è già diritto per una sua intrinseca forza nel momento in cui ha dimostrato la propria effettività, ossia la capacità trovata dentro di sé di incidere durevolmente sull’esperienza» (Grossi 2011, 57), così peraltro evidenziando la resistenza di tale sistema di produzione normativa rispetto all’infiltrazione valoriale.
Una secolare esperienza giuridica, omogenea nei fondamenti in tutta Europa, trovava il suo fuoco dunque non nel momento di validità, ma in quello di effettività. Il detentore del potere politico, durante questi secoli tutt’altro che bui, era visto come il supremo giudice, soggetto dotato di iurisdictio, cioè del potere di “dire” il diritto: il diritto, per ciò stesso, trovava la sua fonte principale altrove. Ancora Grossi osserva che «la chiave interpretativa essenziale di tutto l’ordine giuridico medievale (…) è che i detentori del potere costituiscono una fonte fra le molte chiamate alla edificazione di quell’ordine; senza dubbio, non la sola, e nemmeno la prevalente. Il problema delle fonti è risolto in una coralità di rapporti che rispecchia fedelmente la coralità di forze di cui il diritto è specchio e forma compiuta. E l’apporto dei prìncipi (siano essi monarchi o città libere) anche se c’è e può talora apparire anche quantitativamente cospicuo, sfiora appena i temi centrali della costruzione giuridica della società» (Grossi 2011, 55).
La certezza del diritto: i singoli e i molti
Per altro verso, neppure la certezza del diritto, anche per Irti uno degli elementi fondativi di qualunque esperienza giuridica, costituisce necessariamente un connotato tipico degli ordinamenti fondati sulla legge, intesa nei termini poc’anzi delineati. Anzi, potrebbe darsi che, sotto il riguardo della certezza del diritto, il dominio della legge e il correlativo imperio del momento di validità abbia costituito un vero e proprio sentiero interrotto della storia giuridica europea.
In altre epoche ed in contesti territoriali eccentrici rispetto all’Europa continentale la sensibilità per la certezza del diritto sul lungo periodo era ben maggiore di quella assicurata da un meccanismo di produzione normativo ancorato esclusivamente al momento di validità e dunque, come tale, soggetto a variazioni coincidenti con le variazioni del potere politico, per definizione ben poco prevedibili.
Il pilastro dell’ordinamento romano classico era costituito da un’idea radicale di certezza del diritto, connotata come rifiuto di scarti improvvisi e imprevedibili nella soluzione delle questioni giuridiche: con la conseguenza che il diritto non poteva essere in alcun modo soggetto alla volontà individuale, intesa questa sia come volontà di una singola persona, sia come espressione di un soggetto collettivo, appunto perché la volontà individuale era correttamente vista come portatrice del massimo rischio di imprevedibilità.

I contemporanei erano ben consapevoli di tale dato strutturale, tanto da riferire ad esso la superiorità dell’ordinamento giuridico romano rispetto a quelli di origine greca: mentre questi ultimi — seppur mirabili — erano sorti per mezzo di leggi dettate dall’opinione personale di individui particolari, lo stato romano non era frutto della creazione personale di un singolo individuo, ma dell’attività, stratificata nella storia, di innumerevoli individui (M. T. Cicerone, De Republica, II, 1, 2.).
Sicché la legge, durante l’età classica del diritto romano, non monopolizzava la gerarchia delle fonti normative, trovando invece questa il suo fulcro in una costruzione del diritto tutta incentrata sull’accumulazione delle pronunce giudiziarie e sul dato sapienziale fornito dal ceto dei giuristi. Un profondo conoscitore del diritto romano ha affermato che la principale fonte di produzione normativa nel diritto romano classico era costituita dai giuristi (dagli avvocati, letteralmente) e non dal legislatore (Buckland 1952, 18).
D’altro canto, la natura cardinale della certezza in termini di prevedibilità del diritto è (o forse, purtroppo, era) il requisito fondativo della rule of law nell’esperienza giuridica anglosassone: «Secondo il principio inglese della rule of law, che è strettamente intrecciato con tutta la storia della common law, le norme non erano propriamente il risultato dell’esercizio della volontà arbitraria di uomini particolari. Esse sono oggetto di una indagine spassionata da parte delle corti di giustizia, proprio come le norme romane erano oggetto di una ricerca spassionata da parte dei giuristi romani cui le parti sottomettevano le loro cause» (Leoni 1994, 97).
La necessità della decadenza
Se dunque l’esperienza giuridica è esperienza storica — ed anzi, è l’esperienza storica per eccellenza, innervando in profondità i rapporti anche minuti fra gli uomini — il discorso di Irti evidenzia le grandi linee di uno sviluppo inevitabile: è l’idea stessa di legge, così come è venuta emergendo nel corso della modernità, a portare in sé i germi del suo svuotamento ad opera dei valori. Il fenomeno dello svuotamento della legge ad opera dei valori costituisce allora una sorta di passaggio obbligato, derivante dal contenuto stesso dell’idea di legge che ha portato alla diffusione incontrastata, quanto meno nell’esperienza dell’Europa continentale, di modelli giuridici connotati dal dominio del momento di validità.
Senza voler qui indulgere in operazioni di attualizzazione, che si risolvono poi — nella migliore delle ipotesi — nella costruzione di metafore anacronistiche, l’infiltrazione dei valori può ben essere paragonata al dilagare della superstizione che, generata dall’incontrollabile alternanza di paura e speranza, è stata individuata dai più acuti pensatori della prima modernità come il vero e proprio veleno che porta alla corruzione e alla disgregazione ogni società umana (si veda Spinoza 2009, 425 e seguenti).
È inevitabile che, laddove l’esperienza giuridica venga dominata dal momento di validità, il suo contenuto finisca indissolubilmente legato al reticolo di valori proposto/imposto da chi controlla la procedura di formazione della norma, cioè dal detentore del potere politico. Con l’ulteriore conseguenza per cui, laddove il detentore di tale potere sia costituito da soggetti, individuali o collettivi, dotati di omogeneità di vedute, la legge e il sistema su di esso costruito verrà a strutturarsi in forme sostanzialmente omogenee; laddove invece — come nel mondo contemporaneo esattamente rappresentato da Irti — il potere politico sia frammentato e disomogeneo, la legge rifletterà tale frammentarietà e disomogeneità, perdendo inesorabilmente la sua capacità di presentarsi come un sistema concettualmente coeso e perdendo dunque, in ultima analisi, la capacità di proiettare questo sul divenire, sistematizzandolo in maniera rassicurante.
La trasformazione dell’esperienza giuridica da esperienza fondata sulla positività della legge ad esperienza centrata sulla ricerca di valori (ricerca per definizione imprevedibile, legata com’è alla percezione del singolo o di minoranze organizzate) può allora essere vista in realtà come un fenomeno degenerativo intrinseco al modello stesso di ordinamento giuridico rigidamente fondato sulla legge e sul momento di validità. Un fenomeno di decadenza i cui germi possono essere rinvenuti nel modello di riferimento, del quale erano ab origine parte integrante ed ineliminabile.
Il dominio dei valori emerge con la forza obiettiva della necessità e la sua potenzialità è certamente migliore della sua attualità: se difatti la potenzialità dei valori coincide con la piena attualità della legge, la sua attualità coincide invece con la decadenza di quel sistema ordinamentale. Per dirla icasticamente, l’impero della legge è la premessa del dominio dei valori, ma il dominio dei valori è la tomba della legge (traggo alla lettera questa dimensione del concetto di decadenza dalle serrate riflessioni di Sasso 1980, 494. Ma si veda anche Sasso 1993, 54-55 e 115, dove il tema della decadenza è sviluppato magistralmente nell’analisi del pensiero di Machiavelli rispetto al trapasso dalla repubblica romana all’impero).
Una conclusione
Se la legge è destinata alla decadenza, svuotandosi fino a trasformarsi in un mero contenitore di valori, ciò non significa predicare una decadenza tout court dell’esperienza giuridica. Il diritto è una dimensione essenziale dell’esperienza umana e la sua intrinseca storicità evidenzia come ogni epoca rinvenga la via per appagare le esigenze più sentite nell’elaborazione dei rapporti all’interno delle società umane. Come si è visto, le necessità chiaramente segnalate da Irti (prevedibilità delle conseguenze giuridiche, certezza del diritto) hanno determinato l’emersione, in altri ambiti territoriali ed in altre epoche storiche, di sistemi normativi che prescindono dal concetto di legge nei termini tratteggiati poco sopra.
Forse, separando l’esperienza giuridica dall’abbraccio mortale del momento di validità si può contrastare la decadenza implicata dalla incontrollabile moltiplicazione dei valori e dalla conseguente incertezza/imprevedibilità delle conseguenze giuridiche da associare ai fatti e agli atti del divenire. Come nota saggiamente Irti «la crisi della fattispecie non è crisi della decisione. Il diritto sente orrore del vuoto; e le società umane hanno sempre bisogno del giudizio, ossia di quelle decisioni che, troncando il conflitto in uno o altro modo, consentono di archiviare il passato e di proseguire nel cammino. La necessità storica della decisione potrebbe pur spogliarsi di un vecchio utensile, che ci era caro per educazione mentale e tradizione di studi. Il nostro lavoro non si interrompe, ma continua in un nuovo orizzonte» (Irti 2014 [1], 44).
Si tratta, all’evidenza, di un cambio epocale di paradigma: l’immergersi in un orizzonte nuovo che pure è, come si è visto, antico.
Riferimenti bibliografici
- Buckland, William Warwick. 1952. Roman Law & Common Law: A Comparison in Outline. Cambridge: Cambridge University Press.
- Grossi, Paolo. 2011. L’ordine giuridico medievale. Roma-Bari: Laterza.
- Irti, Natalino. 2014 [1]. “La crisi della fattispecie” in Rivista di diritto processuale. Padova: Cedam.
- Irti, Natalino. 2014 [2]. “Diritto positivo e normatività della tecnica” in Il destino dell’essere. Dialoghi con Emanuele Severino (a cura di D. Spanio). Brescia: Morcelliana.
- Leoni, Bruno. 1994. La libertà e la legge, Macerata: Liberilibri.
- Sasso, Gennaro. 1980. Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico. Bologna: Il Mulino.
- Sasso, Gennaro. 1993. Niccolò Machiavelli. Volume II. La storiografia, Bologna: Il Mulino.
- Severino, Emanuele – Irti, Natalino. 2001. Dialoghi su diritto e tecnica. Roma-Bari: Laterza.
- Spinoza, Baruch. 2009. “Trattato teologico-politico” in Opere, a cura di Filippo Mignini e Omero Proietti, Milano: Mondadori.