La necessità non troppo fatale dello stoicismo

Non sono molti i temi della filosofia che riuniscono in modo stringente questioni di carattere teoretico e di ordine pratico. Così come non molti sono i temi che riescono ad incrociare le scienze umane con le scienze naturali. Il problema del rapporto tra libertà e necessità è uno di questi. Molti sono i termini coniati per designare quel rapporto, altrettante e più sono le domande per affrontarlo. Se la filosofia è liberazione dal fato mitico, cioè dal racconto religioso originario, ed in quanto tale gesto di libertà e di emancipazione (Platone e il mito della caverna), come si spiega che ad un certo punto la filosofia avverta il bisogno di dire che tutte le cose sono tra di loro collegate da un nesso talmente forte e inscindibile da negare la libertà umana? Annunciato da Anassimandro, il fato filosofico si realizza compiutamente con lo stoicismo grazie al concetto di heimarmene, la connessione causale degli eventi, a cui anche gli dèi sono sottoposti. Mito contro Logos. Perché la filosofia si libera da un fato per rivolgersi ad un altro fato?

La risposta è duplice: da una parte, la sostituzione del fato filosofico al fato mitico avviene  perché se il fato mitico è la volontà che il mondo abbia un certo senso e non un altro, il fato filosofico pone al centro la verità, la quale è più forte della volontà nell’assicurare il rimedio contro il dolore e la morte; d’altra parte, mentre nella religione il senso viene imposto in modo autoritario, nel caso della filosofia la verità si afferma da sé attraverso il riconoscimento razionale offerto ad ogni uomo: «Non dando ascolto a me ma al logos è saggio convenire che tutto è uno», diceva Eraclito. In questo modo, nel momento in cui  veniva a dipendere da un contesto esterno, era all’uomo riconosciuta una certa libertà, quella dello studio della sapienza.

Lo stoicismo e la distinzione delle cause per conciliare necessità e libertà

Il determinismo non è mai stato accettato in modo pacifico dal pensiero filosofico, anche per la pressione formidabile della teologia. Il De fato, opera che conclude la trilogia ciceroniana comprendente il De natura deorum e il De divinatione (trilogia teologica perché riflessione sugli dèi ma anche sommamente filosofica), lo mostra in modo evidente. Per giustificare l’esistenza della libertà e un residuo di potere nell’uomo, Cicerone è disposto pure ad allearsi con le tesi dei tanto odiati epicurei. Del resto, il filosofo romano mostra come gli stessi stoici hanno avuto delle forti esitazioni nell’accettare la tesi del determinismo assoluto. Crisippo, fondatore della scuola del Portico di Atene insieme a Zenone, nel tentativo di salvare la libertà,  aveva distinto le cause in prossime (o ausiliari) e remote (o principali) così da intendere il fato come riferito alle cause prossime e la necessità a quelle remote.

In questo modo l’uomo avrebbe almeno acquisito il controllo sulle cause prossime; se, al contrario, si dicesse che tutto accade per opera delle cause remote, allora ne seguirebbe che nemmeno l’appetito (cioè l’aver fame) è in nostro potere. Lo stesso per quanto riguarda la conoscenza: l’assenso libero segue alla sensazione necessaria, allo stesso modo in cui un cilindro, anziché un cubo, rotola una volta collocato su di un piano inclinato: per sua natura cioè, e non solo perché è spinto giù dalla pendenza del suolo. Questo tentativo di distinguere le cause appare però un inutile sofisma: Cicerone fa notare che quella distinzione salva la forma ma non la sostanza e Crisippo, che pretende di distinguere il fato dalla necessità, non riesce ad essere persuasivo. Anzi, quei tentativi non facevano altro che sospingerlo verso la tesi da cui intendeva fuggire, la ferrea e assoluta necessità dei megarici.

Il megarismo, ovvero l’eleatismo radicale

Diodoro Crono, il filosofo più importante della scuola megarica, era noto per il rifiuto della distinzione aristotelica di potenza e atto, a cui seguiva come corollario la coincidenza tra possibilità e necessità. Utilizzando un sillogismo composto da due proposizioni incompatibili «Fabio è nato al levarsi della canicola» e «Fabio morirà in mare», in quanto dipendenti dalla premessa maggiore secondo cui «Se uno è nato al levarsi della canicola non morirà in mare», Diodoro Crono considera possibile solo ciò che è vero. In questo modo possibilità e necessità vengono congiunte, determinismo logico e determinismo empirico si uniscono in modo che l’argomento vero è anche necessario che accada. Fabio dunque non morirà in mare e a saperlo non servono certo gli dèi con le loro divinazioni.

La sua tesi ci è nota grazie al cosiddetto “argomento dominatore” (o “argomento sovrano”) nel quale Diodoro Crono definiva il possibile «ciò che è o sarà vero» facendolo così coincidere con la necessità. Di fatto, il vero di Diodoro è l’essere di Parmenide: tutto ciò che sarà, è necessario, mentre ciò che non sarà, è impossibile. In questo modo, così come osservava Plutarco «non esiste cosa possibile che sia anche vera o che lo debba diventare». Tutto ciò che è vero quindi sarà anche necessario e ogni menzogna sarà cosa impossibile perché chi ha il destino di morire sul mare (cosa vera) non può morire sulla terraferma (cosa falsa) allo stesso modo che «a uno di Megara  sarà impossibile recarsi ad Atene se il fato non lo consente». L’argomento dominatore faceva leva anche su una osservazione non di poco conto: se infatti il passato è evidente che sia cosa necessaria, perché non altrettanto deve esserlo il futuro? Cicerone risponderebbe: perché deve ancora verificarsi. Ma, obietterebbe Diodoro, si verifica ciò che è vero e non ciò che è falso, perché il vero è vero sempre, sia che sia ieri, oggi o domani.

Cicerone e Carneade, la volontà come ultima spiaggia

Le penetranti quanto impegnative riflessioni di Diodoro Crono venivano rifiutate da Cicerone per il quale il fondamento da combattere è la tesi secondo cui a tutti gli enunciati o veri o falsi corrisponde un accadimento: dottrina centrale nel sistema diodoreo, perché assicurava che tutto avesse una causa, anche in eterno, e che tutto fosse sottoposto al fato. Cicerone, al contrario, sostiene che si può «concedere che ogni enunciato sia o vero o falso senza temere che per questo sia necessario che tutto accada a causa del fato».

Facendo riferimento ad Epicuro, il quale aveva negato che ogni enunciato fosse vero o falso proprio per evitare la legge di fatalità, Cicerone ricorre sostanzialmente alla distinzione di Carneade (capo della Terza Accademia) per il quale non tutte le cose sono legate dal nesso di causalità: nel caso delle inclinazioni naturali ad esempio, esse possono essere dominate grazie alla volontà e alla disciplina fornita dalla filosofia. Così come gli atomi hanno un peso, così anche l’anima ha una sua volontà che giustifica i suoi movimenti naturali. Il problema quindi risiede nel linguaggio che richiede di distinguere tra causa esterna e causa interna: sicché «per i moti volontari dell’animo non è da ricercarsi una causa esterna: infatti il moto volontario possiede in sé una natura tale per cui è in nostro potere e ci ubbidisce, e non per questo è senza causa; infatti ne è causa la nostra stessa natura». In questo modo, grazie al ricorso a quell’ultima spiaggia costituita dalla volontà (e insieme ad una ulteriore quanto diversa distinzione delle cause) Cicerone tentava di aggirare la strada senza uscita del determinismo assoluto di Diodoro Crono.

Ripensare fatalismo e libertà nella civiltà della tecnica

Fin dalla sua nascita, la contrapposizione tra fatalismo e libertà è stata una storia di percorsi intrecciati tra religione e filosofia. La religione, inizialmente fato mitico, con il cristianesimo diventa religione filosofica perché, come dice Gesù, la verità vi farà liberi e la libertà diventa il motivo essenziale dell’annuncio. Poi, con l’età moderna, il cristianesimo conoscerà la reviviscenza del fatalismo grazie a Lutero il quale negherà il libero arbitrio per ristabilire i diritti della potenza di Dio: Leibniz giungerà a teorizzare un fato cristiano, concatenatio causarum che origina da un intelletto divino il cui volere è sub ratione boni, migliore dei mondi possibili. Ciò avviene nello stesso momento in cui la filosofia intende riaffermare i diritti del determinismo classico: Kant, sempre timoroso di dire la sua sull’argomento, dirà che la libertà è la pietra dello scandalo della filosofia.

Poi però l’uomo si accorge che la verità su cui la filosofia aveva costruito la liberazione dal mito è un altro immutabile da cui liberarsi. La morte di Dio è anche morte della filosofia perché distruzione dell’immutabile: il volere libera e «lontano da dio e dagli dèi mi attrasse questa volontà: che ci sarebbe da creare se ci fossero gli dèi!». Questa sentenza di Nietzsche si applica a buon diritto anche alla verità filosofica intesa come epistème, sapere stabile e immutabile. Ma così facendo, come spiegava Severino nella sua lectio magistralis tenuta nel 2010 al Festival della Filosofia, o si ritorna al mito originario o si ha coscienza che «ci stiamo portando verso una dimensione in cui non si tratta di scegliere tra fato e libertà, ma di rilevare che sia il fato sia la libertà sono due modi diversi di gestire l’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla». Si tratta del problema della civiltà della tecnica che promette sicurezza e felicità senza verità. Ma, siccome non può esistere sicurezza e felicità senza verità, ecco che, non potendo quest’ultima essere la verità dell’epistème, dovrà essere un’altra verità, sulla quale «il pensiero è chiamato primariamente a lavorare». Per Severino, il nuovo epistème è il Destino, cioè lo stare che questa volta non si lascia smuovere. In che cosa consista lo vedremo. Per ora quell’appello significa per noi ripercorrere e studiare il modo in cui il rapporto tra fatalità e libertà è stato impostato nel corso della storia della filosofia. Forse, almeno, saremo in grado di riattivare il pensiero, unica risorsa per cercare nuove strade nello smarrimento dell’odierna civiltà della tecnica.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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