Il Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria

1. Premessa. —  2. Il Logos nel De migratione Abrahami. — 2.1. Le tappe della migrazione. — 2.2. Logos dell’uomo e Logos di Dio. —  2.3. Il Logos umano e la migrazione da esso.— 2.4. Logos di Dio e Logos dell’uomo.— 2.5. La funzione del linguaggio.— 2.6. Logos e vita etica.— 2.7. Il Logos  e Dio.—3. Conclusioni.— Bibliografia.

1. — Premessa.
Questo lavoro intende esaminare il concetto di Logos ((Nel De migratione Abrahami, la parola logos ricorre 82 volte (al riguardo si è consultato P. BORGEN, K. FUGLSETH, R. SKARSTEN, The Philo Index: a complete Greek word Index to the Writings of Philo of Alexandria, Grand Rapids – Leiden, 2000, 208), assumendo i seguenti principali significati: a. parola di Dio (theou logos): la parola di Dio è oggetto di percezione della facoltà della vista che è nell’anima (rispetto alla parola dell’uomo percepita dall’udito), è pura parola non mescolata (diversamente dalla parola umana che è percussione dell’aria a mezzo degli organi della fonazione), è eletta come guida dal Sapiente, è oggetto di derisione di maghi e stregoni, è legge che ordina ciò che si deve e che non si deve fare, è compagna di viaggio di chi segue Dio (vd. ad es.: par. 47, 49, 52, 67, 83, 129, 130, 173, 174); b. Sacra scrittura (ieros logos): nel senso specifico di Torah (vd. ad es.: par. 17, 85); c. Logos, nel senso specifico di Logos di Dio: è la casa dell’intelletto di Dio, è nato prima delle realtà generate, è la barra del timone con cui il Nocchiero dell’Universo dirige tutte le cose, strumento per la creazione del cosmo in un ordine irreprensibile, è rappresentato dal Sommo Sacerdote, sulla cui testa è presente una lamina d’oro recante l’iscrizione “oggetto sacro a Dio” e Idea delle Idee in conformità della quale Dio ha dato forma al Cosmo (vd. ad es.: par. 4, 6, 102); d. legge di natura (logos fyseos): intesa come volontà di Dio, manifestata all’atto della Creazione, legge di Dio (vd. ad es.: par. 105); e. retta ragione (orthos logos): se l’intelletto la segue, l’uomo riesce a vivere in conformità alla legge di natura (vd. ad es.: par. 60, 128); f. parola legislatrice (logos thesmothetes): è la parola legislatrice di Mosè (quale autore della Scrittura), dà alimento e nutrimento a nobili azioni, pensieri e proponimenti (vd. ad es.: par. 24) g. linguaggio interiore nell’uomo (logos endiathetos): è il pensiero, la fonte – che si trova nella mente – da cui esce la corrente (parola), riceve il dono della bene-dizione (eulogia) di Dio (vd. ad es.: par. 70, 71, 73); h. linguaggio proferito, parola (logos prophorikos): è la parola, casa del “padre” (intelletto), cioè è il luogo in cui l’intelletto si manifesta, in cui l’intelletto abita, vive, in cui l’intelletto si mostra mettendo in bell’ordine i pensieri, è la corrente che sgorga dalla fonte dell’intelletto, ha l’intelletto come suggeritore, va a vuoto se il pensiero non è chiaro, è interprete dell’intelletto, diversamente dalla parola di Dio ha natura sensibile, è percussione dell’aria attraverso gli organi della lingua e della bocca, va dalla bocca del parlante all’orecchio di chi ascolta, è inadeguato per parlare di Dio, può essere oggetto di un’arte (oratoria), occorre migrare dal linguaggio,  giacché le parole sono copie delle realtà più vere, e non bisogna correre il rischio che – sedotti dalla copia – si perda di vista l’archetipo, per colui che migra il linguaggio (al pari del pensiero) diventa oggetto di benedizione, è simboleggiato da Aronne che – abile a parlare – sostiene Mosè (impacciato nella parola) nella comunicazione – vd. ad es.: par. 2, 3, 4, 7, 12, 40, 48, 78, 79, 80, 81, 84, 85, 151, 171.))  nel De migratione Abrahami ((Ai fini della lettura ed analisi della problematica del Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria, ci si è avvalsi del testo contenuto in: FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005.)), opera dedicato da Filone di Alessandria alla interpretazione di Genesi 12, 1 – 4 e 12, 6. Prima di passare all’esame dell’argomento, si ritiene opportuno premettere una breve nota di contestualizzazione.
Filone nasce intorno al 20 a. C. ad Alessandria da una importante famiglia ebrea della diaspora (( Per approfondimenti sulla vita di Filone, sulla sua famiglia e sul suo ambiente, si rinvia a J. DANIELOU, Filone d’Alessandria, Edizioni Arkeios, Roma 1991, 15 – 44; D. R. SCHWARTZ, Philo, hisfamiliy and his time, in A. KAMESAR (a cura di), The Cambridge Companion to Philo, Cambridge University Press, New York 2010, 9 – 31.)) e, dopo avere ricevuto una approfondita educazione religiosa (tradizione ebraica) ed umanistica (tradizione filosofica greca), consacrò la propria vita allo studio ed alla interpretazione della Scrittura (nella versione in greco dei Settanta), sulla base di un approccio che, senza mai prescindere dall’accostamento letterale dei testi (e dal conseguente ossequio alle pratiche dagli stessi richiesti) ((Anche nel De migratione Abrahami (89 – 94), Filone osserva come la ricerca dei significati occulti della Scrittura tramite l’interpretazione allegorica non debba costituire un possibile pretesto per sottrarsi alla osservanza degli obblighi prescritti dalla lettera della Scrittura stessa. Ed anzi ricorda come il puntuale rispetto delle leggi stabilite consenta di acquisire maggiore consapevolezza anche del contenuto simbolico della lettera.)), lo superava (specialmente nel caso dei racconti genesiaci delle origini o nelle storie dei Patriarchi), mediante una lettura allegorica finalizzata alla ricerca di livelli di senso più profondi: facendo ricorso, nel suo studio, alle etimologie dei nomi, ai significati dei numeri, nonché, in particolare, al linguaggio e ai concetti della filosofia greca (con evidenti echi platonici, aristotelici e stoici) ((Per approfondimenti sulle modalità della esegesi biblica filoniana, si rinvia a DANIELOU, ibid., 133 – 159 (in cui l’autore distingue esegesi letterale e allegorica, e nell’ambito di quest’ultima, esegesi cosmologica, antropologica e mistica); A. KAMESAR, Biblical interpretation in Philo, in A. KAMESAR (a cura di), ibid., 65 – 91; F. CALABI, Filone di Alessandria, Carocci Editore, Roma 2013,  33 – 49.)). Estremamente sollecito del bene della comunità ebraica di Alessandria e figura di  spicco all’interno di essa, Filone non si sottrasse, quando fu necessario, alla assunzione di incarichi di natura pubblica: si ricorda al riguardo la sua partecipazione, come capo, ad una delegazione inviata a Roma, nel 38/39 d. C., per protestare contro alcune imposizioni imperiali (le statue dell’Imperatore nelle sinagoghe) contrastanti  con la fede giudaica. Nondimeno, il centro dei suoi interessi fu sempre costituito dalla dimensione speculativa, dalla riflessione e dal commento della  Scrittura (in particolare il Pentateuco), intesa quale Parola di Dio, e come tale – ove adeguatamente compresa – fonte di verità e saggezza, chiave da un lato per la lettura e la conoscenza della realtà (sensibile e intelligibile) e, dall’altro, guida sicura per una condotta di vita virtuosa e felice.
Il lavoro di esegesi biblica di Filone, al quale può ricondursi la parte prevalente delle sue opere (con l’eccezione di alcuni scritti di carattere storico, apologetico e filosofico), è racchiuso in tre grandi serie esegetiche – Esposizione della legge, Allegoria delle leggi e Quaestiones – che si differenziano tra loro per pubblico di destinazione e modalità interpretative. ((Per un approfondimento generale sugli scritti di Filone si rinvia a J. R. ROYSE, The works of Philo, in A. KAMESAR (a cura di), Ibid., 32 – 64.))
L’importanza di Filone nella storia del pensiero è sinteticamente espressa da Mondin:

L’operazione geniale portata a compimento da Filone nella antropologia e nella metafisica è stata quella di tradurre sistematicamente le vicende narrate dalla Scrittura e dai suoi protagonisti nelle categorie filosofiche proprie del pensiero greco. Fornendo a eventi storici e a persone singole razionalità e universalità, Filone ha compiuto per primo quella operazione che si chiama ellenizzazione della Sacra Scrittura o anche ellenizzazione del Giudaismo. Così facendo, egli ha aperto una strada che sarà imboccata e percorsa sino in fondo dai Padri della Chiesa, realizzando la ellenizzazione del Cristianesimo. E’ una ellenizzazione che non riguarda soltanto il linguaggio ma anche i contenuti. Filone infatti non si accontenta di trascrivere nel linguaggio filosofico greco le verità della Scrittura, ma si sforza anche di dare agli stessi termini mutuati da Platone, Aristotele e gli Stoici un contenuto e un significato nuovi, tanto da far nascere un nuovo lessico filosofico oltre che un nuovo tipo di filosofia: la filosofia mosaica, madre della filosofia cristiana. ((B. MONDIN, Storia della antropologia Filosofica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001, Vol. I,  153.))

Nei secoli successivi, la filosofia cristiana e lo stesso Magistero – da ultimo con la lettera enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II – confermeranno l’intuizione filoniana circa l’esigenza di una proficua alleanza tra le due ali della ragione naturale e della  Rivelazione – nel tentativo dello spirito umano di attingere una sempre più profonda comprensione della verità.
Nell’opera di Filone si registra una stretta connessione tra la dimensione speculativa e quella spirituale: quanto alla dimensione speculativa, il nucleo fondamentale è costituito dalla assoluta trascendenza di Dio – del quale è possibile affermare l’esistenza ma non conoscerne la natura ed il nome – e dalla dottrina del Logos – sede degli archetipi incorporei ed intelligibili delle realtà sensibili –  di cui Dio si avvale, quale mediatore, per la creazione e per il governo del cosmo. All’interno del cosmo, un ruolo particolare compete all’uomo (essere methorios, realtà di confine tra sensibile e intelligibile, materia e spirito, virtù e vizio, ecc.) ((Per approfondimenti sulla concezione antropologica di Filone, si rinvia a B. MONDIN, Ibid., 140 – 154; A.M. MAZZANTI, Creazione dell’uomo e Rivelazione in Filone di Alessandria, in A.M. MAZZANTI e F. CALABI (a cura di), La rivelazione in Filone di Alessandria: natura, legge storia, Pazzini Stampatore Editore, Villa Verrucchio 2004, 75 – 103; F. ALESSE, Il luogo del nous: alcuni aspetti dell’antropologia di Filone alessandrino, in A.M. MAZZANTI e F. CALABI (a cura di), Ibid., 105 – 122.)), il quale – e qui si innesta la dimensione mistica – ha come suo fine quello di ricongiungersi a Dio, seguendo un itinerario spirituale di migrazione (ritmata simbolicamente da Filone mediante la triade dei Patriarchi Abramo, Giacobbe ed Isacco, con la figura di Mosè, quale vertice di perfezione), nel cui percorso l’uomo (l’iniziato), sostenuto dalla Grazia, si eleva – per tappe successive – al di sopra del mondo sensibile per essere restituito a quello intelligibile del Logos e dei modelli archetipi. ((Per un approfondimento sulla dimensione spirituale nell’opera di Filone, si rinvia a J. DANIELOU, Filone,  153 – 159 e 209 – 226.)).
Una sintesi dell’itinerario mistico ma anche etico e conoscitivo dell’anima — che può introdurci all’esame del De migratione Abrahami — la troviamo nel De Somniis I, quando Filone commenta il verso della Genesi 28, 11 «si imbatté in un luogo, perché il sole era tramontato»:

Certuni supponendo che qui “sole” indichi simbolicamente la sensazione e l’intelligenza […] e che “luogo” sia la Parola divina, danno questa interpretazione: l’asceta incontra la Parola divina una volta tramontata la luce mortale umana. Di fatto, fintantoché l’intelligenza crede di avere salda nozione dell’intelligibile e la sensazione del sensibile  […] la Parola divina è molto lontana. Ma non appena ciascuna di esse riconosce la propria impotenza e scompare, sommersa da una specie di tramonto, subito si presenta, tenendole la mano la retta ragione, pronta a soccorrere l’anima dell’asceta, quando essa dispera di se stessa e attende colei che viene a soccorrerla dall’esterno, senza essere vista ((FILONE DI ALESSANDRIA, De somniis I, in ID., Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005,  1643 -1849, 1705.)).

2. Il Logos nel De migratione Abrahami.
2.1. Le tappe della migrazione.
Si è sopra ricordato che Filone, quali figure allegoriche di differenti livelli di perfezione e percorsi spirituali, propone la triade costituita dai Patriarchi Abramo, Giacobbe e Isacco: se Isacco è il perfetto, modello di perfezione innata, di possesso naturale – dunque, senza sforzo – della sapienza (scienza infusa) e della virtù, Abramo e Giacobbe sono invece figure di progredienti, uomini animati, cioè, da vero desiderio di bene ed in marcia verso di esso. In particolare, poi, Abramo è allegoria della virtù acquisita mediante un faticoso processo migratorio di apprendimento, mentre Giacobbe è il simbolo della virtù ottenuta grazie all’esercizio ascetico ed al combattimento spirituale, di cui la lotta con l’Angelo è immagine (( Per un approfondimento sulla triade Abramo, Giacobbe e Isacco, si rinvia a F. CALABI, Filone di Alessandria, Carocci Editore, Roma 2013, 127 – 156. Circa le figure dei tre Patriarchi, è interessante notare come alla stabilità nella connaturata perfezione – propria della figura di Isacco – corrisponda altresì la stabilità del nome, laddove il percorso faticoso verso la virtù che caratterizza i progredienti sia segnato da una modificazione del nome, e ciò sia in Abramo (che diventa Abraamo) sia in Giacobbe (che, dopo la lotta con l’Angelo, diventa Israele, cioè, secondo Filone, colui che vede Dio). Alla base, è la concezione filoniana (espressa in particolare nel De mutatione nominum) circa la stretta connessione tra il nome e la realtà che esso esprime, per cui al cambiamento morale del Patriarca si associa quello del suo nome. Con specifico riferimento ad Abramo, Filone nel De mutatione nominum (66 e ss.), spiega etimologicamente il mutamento di nome, sostenendo che il primo nome (Abramo) significa padre elevato, cioè che da terra si erge verso l’alto a scrutare il cielo, ad indicare le dottrine astronomiche/astrologiche caldaiche (la Caldea è la prima terra da cui Abramo emigra), mentre il secondo (Abrahamo) significa padre eletto del suono, dove suono è la parola, cioè il linguaggio articolato (logos prophorikos), e padre l’intelletto, e dunque il linguaggio interiore (logos endiathetos) da cui, come da un padre, si genera quello proferito.)).
La migrazione di Abramo costituisce l’oggetto dell’omonimo trattato di Filone: come anticipato in premessa, il De migratione Abrahami è un commentario allegorico dedicato alla interpretazione di Genesi 12 1 – 4 e 12, 6.  In particolare, i primi 126 paragrafi del De migratione hanno ad oggetto Genesi 12, 1 – 3, i paragrafi da 127 a 215 riguardano Genesi 12, 4, mentre a Genesi 12, 6 sono dedicati i paragrafi rimanenti, da 216 a 225: il contesto scritturistico di riferimento è dunque costituito dal comando di Dio ad Abramo di uscire dalla sua terra,  per dirigersi verso una terra che Dio stesso gli indicherà, con la promessa di doni e benedizioni, comando a cui Abramo presta obbedienza, lasciando Haran a 75 anni e giungendo infine alla terra di Sichem.
Nella interpretazione allegorica fornitane da Filone, la migrazione di Abramo è il cammino – sostenuto dalla fede e dalla grazia divina – che porta dalla dimensione sensibile verso quella delle realtà intelligibili ((La tensione umana all’intelligibile e a Dio – pur diversamente presente negli individui – trova fondamento nella visione antropologica di Filone. L’Alessandrino, nel De opificio mundi, interpretando il libro della Genesi, teorizza una doppia creazione dell’uomo da parte di Dio: dapprima – in senso non cronologico, ma logico – la creazione dell’uomo ad immagine (vera creazione), poi quella dell’ uomo plasmato (plasmazione), il primo concepito come modello intelligibile, immortale, incorporeo, il secondo, invece, inteso come individuo concreto e mortale, plasmato col fango. Se il primo si caratterizza quale immagine di Dio per l’intelletto, guida dell’anima (come Dio è intelletto per l’Universo),  nel secondo – l’uomo concreto -, la familiarità con l’intelligibile e con Dio, ancorché indebolita dal peccato, è data oltre che dall’intelletto dall’insufflazione dello spirito divino. Osserva Filone nel De opificio mundi  (69 – 71) che l’intelletto umano, «con le sue arti, e le sue conoscenze apre tutte le strade in molteplici direzioni e attraversa la terra e il mare […] e ancora levandosi in cielo osserva l’aria e i fenomeni che avvengono in essa per spingersi più in alto fino all’etere e ai rivolgimenti del cielo … dall’alto l’intelletto domina tutta la sostanza sensibile e giunto lassù brama di conoscere il mondo intelligibile e quando ha contemplato in esso i modelli  e gli originali delle cose sensibili viste quaggiù […] cade in una sobria ebbrezza […] traboccando di un altro desiderio di amore e di una passione più nobile, dalla quale viene sospinto verso la suprema volta delle cose intelligibili, tanto che sembra giungere fino allo stesso grande Re». D’altra parte, circa l’uomo plasmato, sempre nel De opificio mundi  (134 – 135), l’Alessandrino  rileva che «la sua costituzione è composta di sostanza terrestre e di soffio ; il corpo non è stato creato, in quanto l’Artefice prese del fango e ne trasse, plasmandolo, una figura umana; l’anima, invece non deriva da nulla di creatoma dal Padre e Signore dell’Universo», così che «l’uomo è al confine tra la natura mortale e la natura immortale in quanto partecipa necessariamente dell’una e dell’altra». Dio, dunque, crea l’uomo a sua immagine e lo plasma nel fango alitandogli il proprio soffio, e l’uomo così impregnato di divinità non può almeno in parte non aspirare alle cose intelligibili e all’unione con Dio.)), fino all’unione con Dio: cammino scandito da una successione di tappe ascendenti (espressioni cioè di crescita), ciascuna delle quali, oltre alla dimensione letterale di specifica area geografica di insediamento del Patriarca — prima la Caldea, poi la terra di Haran, infine la terra di Sichem —, si qualifica soprattutto come allegoria delle dimensioni conoscitive, ma anche etiche e spirituali che Abramo, nel suo migrare successivo di terra in terra alla ricerca di Dio, incarna progressivamente.
Ecco allora che la Caldea è simbolo di un logos umano che, nella osservazione dei cieli, nella scienza astronomica e nella ricerca cosmologica è esclusivamente ancorato alla dimensione sensibile dei corpi. Un pensiero, in verità, che per Filone – anche nel quadro degli studi enciclici ((Per studi enciclici, si intendono quelli (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica, astronomia)  dotati di carattere preliminare al sapere più elevato, quello filosofico, che, a sua volta, è propedeutico alla acquisizione della sapienza.  Ad essi Filone dedica uno specifico trattato, il De congressu eruditionis gratia. Come osserva la Calabi, ancorché per Filone tutte queste conoscenze costituiscano aspetti di un unico sapere, «mentre i saperi enciclici si arrestano alle congetture e alla probabilità, la filosofia giunge al vero, la legge di Dio. Di qui la necessità di non limitarsi ai saperi profani. […] Lo studio delle scienze encicliche ha senso in quanto connesso con l’aspirazione a un sapere superiore, che può essere perseguito solo attraverso lo studio della legge e l’allegoresi»(F. CALABI, Filone di Alessandria, Carocci Editore, Roma, 2013, 138).)) – non è privo di valore in assoluto: i Caldei infatti «hanno dimostrato, attraverso rapporti musicali, la perfetta armonia del tutto in forza del principio della comunanza reciproca e della simpatia delle parti» ((FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione Abrahami, in ID. Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di) Bompiani, Milano 2005, 178, p. 1179.)) , dottrina questa che «sembra che Mosè abbia sottoscritto» ((Ibid.  (180), p. 1179.)). Un logos, tuttavia, che, dando rilievo esclusivo al sensibile, conduce su piste fallaci sia dal punto di vista conoscitivo/teologico sia dal punto di vista etico: sotto il primo profilo, i Caldei infatti «hanno ipotizzato che il nostro mondo di fenomeni sia il solo essere che è veramente ossia che esso è Dio, oppure che include in sé Dio, inteso come l’anima del tutto» ((Ibid., (179), p. 1179.)), cadendo così nel panteismo; sotto il secondo profilo, quello etico, i Caldei, «connettendo i fenomeni terrestri con quelli atmosferici e i fenomeni celesti con quelli che riguardano la superficie della terra» ((Ibid., (178), p. 1179.)), e su queste basi praticando l’astrologia, hanno privato l’uomo della sua libertà/responsabilità.
Per questo Abramo, deve migrare dalla Caldea: se vuole avvicinarsi alla verità, al mondo delle realtà intelligibili e a Dio, non può accontentarsi di un logos dominato dal corpo, deve rinunciare al dominio della esteriorità  sia pure quella elevata dello studio degli astri  ed avviare un processo di esplorazione interiore:

scendete dunque dal cielo e, una volta scesi, non tornate ad esaminare la terra, il mare, i fiumi e le specie animali e vegetali. Piuttosto studiate voi stessi e la vostra natura, non abitando in altro luogo che dentro di voi ((Ibid., (185), p. 1181.)).

Del resto, la ricerca di Dio, passando per l’uomo, costituisce nel contesto della speculazione filoniana un percorso in certo modo obbligato: tra tutti gli esseri creati, infatti, l’uomo è l’unico fatto ad immagine e somiglianza di Dio e da Lui insufflato con l’alito divino ((Su questo aspetto concernente l’insufflazione del pneuma divino, si rinvia alla precedente nota 12.)): è per questo che, osserva Filone, «esaminando le cose di casa vostra […] subito avrete con chiarezza la scienza di Dio e delle sue opere» ((FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione, (185), p. 1181.)), e così scoprire le corrispondenze tra il nostro intelletto che ha dominio sulle cose che ci riguardano (un intelletto dunque egemone e non asservito alla sensazione) e Dio, intelletto dell’universo, che, con il suo potere, guida il cosmo.
Dunque, in questo percorso verso l’interiorità, abbandonata la mentalità caldaica, Abramo deve passare per la terra di Haran, terra di caverne, allegoricamente lette da Filone come simboli della facoltà sensibile: gli occhi sono infatti cavità, così come le orecchie, le narici e il palato e lo stesso intero corpo quanto al tatto. I sensi, in realtà, sono per il migrante non la meta, ma soltanto una dimensione di transito, che – data la costituzione umana caratterizzata da un corpo casa dell’anima – è necessario attraversare per guadagnare la dimensione della interiorità: «e dopo che avrete studiato con la massima attenzione tutta la vostra casa e avrete scoperto qual è la ragion d’essere di ciascuna delle sue parti, muovete voi stessi e cercate di migrare da questo luogo. Un migrare che non è foriero di morte ma di immortalità» ((Ibid., (189), p. 1181.)). Il transito per la sfera del sensibile (corpo, sensazioni e linguaggio) e il suo superamento – avendo acquisito la consapevolezza dei suoi limiti – consente al migrante di sviluppare ulteriormente il suo cammino verso l’ interno ((Il nostro intelletto infatti, per Filone, «è contenuto nel corpo come in un involucro» (De migratione Abrahami, 193).))e di accedere così fino all’intimo della sfera intellettuale. Osserva al riguardo Filone:

In seguito, l’intelletto, dopo che è giunto all’esame di se stesso, filosofando sulla sua propria casa, cioè sulla natura del suo corpo, della sensazione e del linguaggio, riconoscerà secondo la massima del poeta che “nella casa si appresta sia il bene sia il male”. E ancora oltre, aprendosi una via che lo porta a trascendere se stesso e, attraverso questa, sperando di conoscere il Padre inaccessibile e nascosto di tutte le cose – e se ha imparato a conoscere la propria natura, forse, in qualche modo conoscerà anche Dio – non resta più in Haran, fra gli organi della sensazione, ma si volge a se stesso. E’ impossibile infatti rivolgere la mente all’Essere se si è mossi ancora dal sensibile anziché dall’Intelligibile. (( FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione, (195), p. 1183.))

2.2. Logos dell’uomo e Logos di Dio.
Come si è visto, Abramo, per pervenire alla dimensione intellettuale, deve progressivamente abbandonare il corpo, la sensazione ed il linguaggio ((Non può non osservarsi, sia pure di sfuggita, che Il pensiero e l’esperienza spirituali e mistici, sia orientali che occidentali (esicasmo, Yoga, ecc.), hanno sempre attribuito grande importanza, ai fini della pratica contemplativa, alla quiete del corpo – al quale si deve fare assumere un contegno idoneo a non ostacolare la pratica – e dell’anima che, anche mediante accorgimenti di diversa natura (es.: attenzione al respiro), deve disciplinare e silenziare la proliferazione automatica del pensiero)). Ciò in obbedienza fiduciosa al Signore che gli rivolge questo comando: «Vattene dalla tua terra e dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò» ((Ibid., (1), p. 1129.)). Filone, infatti, interpreta allegoricamente terra come corpo (poiché la sostanza corporea deriva dalla terra), parentela come sensazione (giacché la sensazione è congenere e consorella dell’intelletto) e casa di tuo padre come parola proferita.

2.3.— Il Logos umano e la migrazione da esso.
La parola proferita (logos prophorikos) è interpretata dall’Alessandrino come casa di tuo padre, giacché l’intelletto (inteso come padre per l’egemonia che esercita sul corpo e sullo spirito dell’uomo) abita nella parola: «il linguaggio è il luogo in cui vive l’intelletto. Esso si mostra mentre dispone in bell’ordine nella parola se stesso e i pensieri che genera, come in una casa» ((Ibid. (3-4), p. 1129.)). Deve anche aggiungersi che il rapporto tra l’intelletto umano e la parola proferita si colloca in perfetta analogia – osserva Filone – con quanto avviene a livello divino, posto che «l’intelletto di tutta la realtà, quello di Dio, si dice che abbia dimora proprio nel Suo Logos» ((Ibid.)).
Alla luce di quanto detto, è necessario indagare la ragione per la quale – oltre che dal corpo e dalla sensazione – il progrediente debba anche migrare dal linguaggio: in fondo, sia per l’analogia con il Logos divino sia per il ruolo di rivelatore dell’intelletto umano e di strumento per conferire ordine al pensiero, la parola – il logos prophorikos – sembrerebbe rivestire per Filone un ruolo di particolare rilievo. L’Alessandrino ci fornisce la risposta, che va naturalmente inquadrata tenendo presente l’orizzonte del migrante, costituito dalla dimensione intelligibile degli archetipi: posta questa meta – la realtà intelligibile –, per chi aspira alla Sapienza, si tratta di puntare decisamente ad essa, senza subire il fascino seduttivo di  realtà di ordine subordinato. Ammonisce Filone:

Migra anche dalla parola proferita […], affinché non ti capiti, sedotto dalle parole e dai nomi, di separarti dalla autentica bellezza, la quale è sita nelle realtà soprasensibili, che parole e nomi designano. Sarebbe ben strano infatti che l’ombra valesse più dei corpi e la copia più del modello. L’espressione, infatti, è simile all’ombra e alla copia; le nature soprasensibili che sono tradotte in parole sono simili, invece, ai corpi e agli archetipi ((Ibid., (12), p.  1131.)).

Per quanto la parola proferita richiami la realtà archetipica, tra la prima e la seconda vi è una sproporzione incolmabile, anche perché, mentre la realtà ideale è intelligibile, la parola – come meglio diremo più avanti – è sensibile: «il nostro organo della fonazione […]  si mescola all’aria e si indirizza verso il luogo che gli è congenere, cioè l’orecchio» ((Ibid., (52), pp. 1141 – 1142.)).
Tuttavia, occorre comprendere bene in che senso Filone intenda la migrazione dal corpo, dalla sensazione e, per quanto ora di interesse, dalla parola proferita. Per l’Alessandrino «l’espressione “vattene da queste cose” non implica una separazione secondo la sostanza – perché, in tal caso, questo sarebbe l’ordine di chi prescrive la morte – ma significa “assumi una mentalità da straniero”» ((Ibid., (7), p. 1129 – 1139.)). Il migrante ha, infatti, per patria la dimensione dell’intelligibile e degli archetipi, la loro eterna bellezza – di lì egli viene, essendo immagine di Dio, da Lui insufflato e lì è diretto -, e quindi ogni altra dimensione di livello inferiore lo vede come straniero di passaggio. La metafora dello straniero è completata da quella del re: «tali realtà sono a te sottomesse, non farne dei padroni. Tu che sei re, impara a comandare e non essere comandato» ((Ibid., (8), p. 1131.)). In sintesi, dunque, la parola, così come il corpo e la sensazione per Filone hanno certamente valore (separarsi da esse significa la morte), ma soltanto all’interno di una visione in cui l’uomo è in grado, da re, di tenerle sottomesse, avendo di mira i beni più alti.
Come abbiamo già osservato, per Filone, la dimensione adeguata alle realtà intelligibili, alla loro bellezza luminosa, è costituita non già dal linguaggio – nel suo duplice senso di pensiero discorsivo e di parola che lo esprime – ma dall’intelletto, dalla visione intellettuale: la bellezza può essere oggetto solo di contemplazione silenziosa. Per giungerci, il migrante deve attraversare la dimensione sensibile – corpo, sensazione, linguaggio – ma sempre nella consapevolezza che questa è terra di transito. Una migrazione non facile, che certamente alcuni – gli stolti – non riescono neppure ad iniziare o comunque a portare a termine, incapaci di sottrarsi alla dimensione del corpo, alla forza delle passioni, e, come osserva Filone, sordi anche ai richiami di Dio che pure indica la via dell’esodo: «dopo che Dio misericordioso mostrò la via dell’esodo, il Profeta li liberò. Tuttavia, ci sono alcuni che fino alla fine sono scesi a patto col corpo e, per questo si sono fatti seppellire come in un sarcofago o in una cassa […] tutte le parti di costoro che sono legate al corpo e alle passioni giacciono sepolte, consegnate all’oblio» ((Ibid., (15 – 16), pp. 1131 – 1132.)). Ma quanti hanno portato a termine la migrazione, difficilmente tornano indietro, giacché «dopo che l’intelletto ha cominciato a conoscere se stesso e ad avere familiarità con la visione intellettuale, rifiuterà ogni inclinazione dell’animo verso la specie sensibile» ((Ibid., (13), p. 1131.)).
Più avanti avremo modo di vedere come, secondo Filone, il Sapiente – che è riuscito a migrare, oltre che dal corpo, anche dalla sensazione e dal linguaggio – riceva da Dio numerosi doni, e tra questi quello di un linguaggio più autentico.

2.4.— Logos di Dio e Logos dell’uomo.
Ora, invece, è bene approfondire, sempre nell’ambito del De migratione Abrahami, l’analisi di ciò che differenzia la parola di Dio dalla parola dell’uomo, il Logos dal logos. Come abbiamo sopra detto, per Filone il logos umano – pur nella sua dignità di dimora del pensiero – è comunque impastato di materia, è infatti «percussione dell’aria, attraverso gli organi della lingua e della bocca» ((Ibid., (47), p. 1141.)), si articola attraverso l’utilizzo di parti del discorso, si indirizza in forma sensibile dalla bocca del parlante all’orecchio di chi ascolta, è dunque percepito sensibilmente tramite l’udito, comunica il pensiero di chi parla. La voce di Dio, il Suo Logos è invece «pura parola, non mescolata, che sorpassa l’udito per l’assoluta finezza della sua natura, ma è vista dalla pura anima per l’estrema acutezza della sua vista» ((Ibid., (52), p. 1141.)), «luce di virtù la più splendente, fonte stessa della ragione» ((Ibid., (47), p. 1141.)), «voce di Dio, che non si compone di verbi e nomi, e pertanto con esattezza essa è detta visibile, in quanto colta dall’occhio dell’anima» ((Ibid., (48), p. 1141.)). Il Logos divino appartiene dunque alla sfera del mondo intelligibile, non ha una consistenza materiale e quindi non può essere colto attraverso un organo del senso (come la parola umana dall’udito), non è articolato né articolabile in parti del discorso e, conseguentemente, non può trovare espressione al mero livello razionale: Bellezza pura, luce pura non è udibile, ma solo oggetto di visione da parte dell’occhio dell’anima. Udiamo la voce degli uomini (voce udibile), vediamo la voce di Dio (voce visibile), la prima – sensibile – la avvertiamo con l’orecchio, la seconda – spirituale –  la contempliamo con la visione intellettuale. Che il Logos divino sia oggetto della vista dell’anima è, per Filone, omogeneo con il fatto che «le cose più belle che sono in natura sono piuttosto da vedersi che da possedersi» ((Ibid., (47), p. 1141.)), al punto, osserva l’Alessandrino, che la stessa Scrittura «rappresenta le parole di Dio come se fossero viste, alla maniera della luce. Afferma infatti: “Tutto il popolo vide la voce“» ((Ibid., (47), p. 1141.)).
È bene evidenziare che la contemplazione del Logos non attiene ad una dimensione irrazionale: al contrario, Filone, pur attribuendo a tale visione caratteristiche di non discorsività, ritiene che essa sia la cosa più propria della natura razionale: «Quale vita è migliore e più confacente all’essere razionale di quella contemplativa?» ((Ibid., (47), p. 1141.)). La visione intellettuale, la contemplazione, quindi, in quanto visione pura dell’anima, certamente non è attività discorsiva: ma questo, non perché sia qualcosa di irrazionale, bensì, proprio al contrario, in quanto espressione della attitudine dell’anima razionale di rendersi conto che l’attingimento di livelli di conoscenza superiori alla dimensione sensibile – la sfera degli archetipi, il Logos, il mondo di Dio – è possibile soltanto nel silenzio del pensiero discorsivo e nell’attesa che Dio si doni all’essere razionale.
Possiamo ora riprendere il discorso sul logos umano: nel De migratione Abrahami vi è, infatti, come un trascorrere, quanto al logos, tra la sfera dell’umano e quella del divino. Quando il logos umano – insieme al corpo e alle sensazioni – si spegne per lasciare spazio, nella contemplazione, al Logos divino, in realtà, come avevamo anticipato, si spegne ma solo per poi ritrovarsi più ricco ed autentico, grazie al contatto che l’anima razionale – a seguito della purificazione dal sensibile – ha avuto con «la fonte stessa della ragione » ((Ibid., (47), p. 1141.)), sempre prodiga di doni ((Anche in altri trattati, Filone segnala l’insufficienza delle sole facoltà umane (tema della oudeneia dell’uomo), non supportate dalla grazia    divina. Ad esempio leggiamo nel De mutatione nominum: «[…] che è caduta la percezione sensoriale se non è sollecitata dal provvidenziale intervento del Salvatore a percepire gli oggetti materiali;  che è caduta la parola, perché è incapace di esprimere una qualsiasi cosa esistente, a meno che ad aprire la bocca e ad articolare la lingua […] non sia Colui che ha formato e articolato gli organi della fonazione; che è caduta anche la mente sovrana, che rimarrebbe priva della facoltà di concepire se ancora una volta non intervenisse a ridestarla e a conferirle salvezza il Creatore degli esseri viventi e, dotandola di occhi dalle pupille acute, non la guidasse alla contemplazione del mondo immateriale »(FILONE DI ALESSANDRIA, De mutatione nominum, in ID. Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di) Bompiani, Milano 2005, (56), p. 1599).)). Il migrante, infatti, dopo avere abbandonato corpo, sensazioni e linguaggio, tra i vari altri doni – come quello della contemplazione – riceve il dono della bene-dizione. Tale dono – quello cioè del bene dire – non riguarda un solo aspetto del logos, ma interessa invece sia il linguaggio interiore – il pensiero – sia la sua manifestazione esterna tramite la parola, e dunque sia il logos endiathetos sia il logos prophorikos. Per Filone, infatti, il linguaggio è, al tempo stesso,  fonte e corrente «una fonte, come quella che si trova nella mente, e una corrente, come quella che scorre attraverso la bocca e la lingua» ((ibid., (71), p. 1147.)). Ora, «Dio non fa mai grazie imperfette a coloro che gli ubbidiscono, ma tutte sono complete e perfette» ((Ibid., (73), p. 1148.)), ed allora il dono della bene–dizione si manifesterà necessariamente come miglioramento del linguaggio in entrambi i significati, «quello in cui si definiscono chiaramente i pensieri e quello in cui questi pensieri si esprimono con sicurezza» ((Ibid., (73), p. 1148.)): di modo tale che il beneficato possa avere «una mente che usa prudenza nelle piccole e grandi occasioni e una eloquenza che è guidata da una sana educazione» ((bid., (71), p. 1148.)). Il rapporto che sussiste tra il pensiero ed il linguaggio proferito è quello che intercorre tra i figli generati dalla stessa madre: sono fratelli, in quanto generati entrambi della natura razionale loro madre. Osserva Filone: «Ora essendoci per ambedue una sola madre, ossia la natura razionale, coloro che sono da lei generati sono certamente fratelli» ((Ibid., (78), p. 1149.)).

2.5.— La funzione del linguaggio.
Ma qual è esattamente, per Filone, la funzione del linguaggio? E’ quella di lavorare sulla materia grezza del pensiero, conferendogli forma, espressione: «quando il linguaggio incontra i pensieri e applica loro i nomi e i predicati, incide sul materiale grezzo, lasciandogli come una impronta» (( Ibid., (79), p. 1149 – 1150.)). Il logos umano, allora, opera in modo analogo al Logos di Dio: come vedremo più avanti, infatti, il Logos reca alle cose l’impronta (sphragis) divina. Il linguaggio è, dunque, lo strumento di cui l’intelletto si serve «per esprimere i contenuti di pensiero che (l’intelletto) ha impressi» ((Ibid., (78), p. 1149.)). Mosè e suo fratello Aronne sono allegoria del rapporto tra pensiero e linguaggio: il primo è sapiente ma poco abile a parlare, il secondo si fa allora per Mosè strumento per l’espressione del pensiero.
Il linguaggio ha dunque funzione meramente strumentale rispetto al pensiero: a quest’ultimo spetta  il ruolo preminente e la maggiore responsabilità, è lui a suggerire che cosa dire: con la conseguenza che, «quando i pensieri non sono chiari, il linguaggio va a vuoto» ((Ibid., (80), p. 1151.)). D’altra parte, quando il pensiero si lascia plasmare da Dio, il linguaggio che avrà la capacità di esprimerlo sarà linguaggio profetico, caratterizzato «dalla divina ispirazione e dalla divina mania» ((Ibid., (84), p. 1151.)). Sembra tuttavia che, più in generale, anche nel linguaggio ordinario la caratteristica della autenticità sia originata dalla vicinanza interiore del parlante a Dio: se chi parla esprime un pensiero formulato nell’ascolto della Parola divina, il suo parlare sarà un buon parlare. Osserva infatti Filone che «senza il suggeritore, il linguaggio non potrebbe emettere alcun suono e se il suggeritore del linguaggio è l’intelletto, Dio lo è dell’intelletto» ((Ibid., (80), p. 1151.)). Pertanto, la sequenza discendente – dall’intelletto al pensiero al linguaggio – va completata, ricordando che il pensiero autentico si ha solo se l’intelletto è in ascolto del Logos divino. La sequenza discendente completa è dunque la seguente: Logos divino, intelletto umano, pensiero umano interiore, pensiero espresso con il linguaggio. Occorre aggiungere che, secondo l’Alessandrino, l’illuminazione che il Logos divino apporta all’intelletto umano si distingue per la sua discrezione, come ricorda l’augurio di Isacco all’amante delle Sapienza: «Dio faccia scendere continuamente su di te una pioggia celeste e intelligibile, non con violenza, come se dovesse sommergerti, ma dolcemente e soavemente, a mo’ di rugiada per recarti giovamento» ((bid., (101), p. 1157.)).

2.6.— Logos e vita etica.
Nel De migratione Abrahami, il logos divino deve essere preso in esame anche sotto il profilo della vita etica. Filone, richiamandosi alla tradizione filosofica greca – e più specificamente alla morale stoica – afferma: «Ecco il fine celebrato da coloro che filosofarono nel modo migliore: vivere in conformità della  natura» ((Ibid., (128), p. 1165.)): tale principio, precisa tuttavia l’Alessandrino, si realizza «quando l’intelletto […] si muove sulle orme della retta ragione (orthos logos) e segue Dio, ricordandosi dei suoi comandamenti e mettendoli in pratica» ((Ibid., (128), p. 1165.)) . La vita secondo natura, in ultima istanza, si risolve, secondo Filone, nella vita modellata sulla volontà di Dio e sui suoi comandamenti. E’ evidente allora come il richiamo alla tradizione greca – insito nel riferimento alla legge di natura ed alla retta ragione – risulti ricondotto all’ethos giudaico in virtù della sostanziale equiparazione della legge di natura alla volontà di Dio e, più in particolare, ai suoi comandamenti. Lo stesso riferimento filoniano all’orthos logos, del resto, deve intendersi come relativo ad una ragione umana capace di lasciarsi illuminare dal Logos divino circa le esigenze della vita etica. Ciò rende comprensibile il motivo per cui, anche prima della promulgazione mosaica delle Tavole dei comandamenti, alcuni uomini (leggi animate) – e tra questi proprio Abramo – riuscirono a vivere secondo natura, cioè nel rispetto della volontà di Dio ((Per Filone, osserva la Calabi, leggi animate, «sono figure superiori, esseri eccezionali che incorporano la legge, sanno ciò che bisogna fare e ciò che non bisogna fare, praticano le norme prima che siano rivelate. Con le loro azioni, esplicitano la possibilità di seguire la legge, costituiscono, un esempio, un modello di persuasione»: leggi animate sono i Patriarchi, Abramo in primis: «L’adeguamento a un ordine superiore, a una legge intuita anche se non chiaramente conosciuta, è ben presente in Abramo, che non ha ricevuto la legge per rivelazione, ma la incorpora. La pratica prima che essa sia rivelata. La acquisisce attraverso lo studio» (F. CALABI, Filone di Alessandria, Carocci Editore, Roma 2013, 112 – 114). Un rilevante approfondimento teorico sull’argomento è fornito dalla Termini. Per la Termini, Filone – affermando che i Patriarchi vivono in conformità con la legge (prima della sua promulgazione) – retroproietta la legge dal Sinai alla Creazione, «ma egli spinge tale retroproiezione ad un punto tale che il rapporto quasi si capovolge. La legge di natura, incarnata in modo esemplare dai Patriarchi, assume un valore archetipico, mentre la Torah mosaica  diventa una copia di assoluta perfezione: la rivelazione sinaitica viene così assorbita nell’orizzonte della creazione, anche se mantiene un carattere di eccezionalità» (C. TERMINI, Il rapporto tra legge naturale e legge rivelata in Filone di Alessandria, in A.M. MAZZANTI e F. CALABI (a cura di),  105 – 122). In estrema sintesi, può dirsi che, secondo la Termini, l’obbiettivo perseguito da Filone sia stato quello: a) di evidenziare la corrispondenza tra fusis (intesa come componente razionale, estetica e armonica che permea il Cosmo e che deriva dalla azione creatrice di Dio) e  Legge; b) mostrare la possibilità di seguire la legge scritta, posto che i Patriarchi sono stati capaci di seguirla quando ancora non era stata positivamente rivelata. E’ evidente che al fondo del pensiero filoniano vi è l’idea di una Creazione ad opera di Dio, permeata dal suo Logos, del quale l’uomo è reso partecipe mediante la ragione.)): le Tavole, in realtà, hanno reso semplicemente indubitabile, a maggior vantaggio degli uomini, la volontà di Dio, che essi – come fu per i Patriarchi – avrebbero comunque potuto conoscere, sin dalla Creazione (da intendersi come prima manifestazione del volere divino), seguendo la retta ragione (orthos logos), riflesso del Logos divino nell’essere umano ((Roberto Radice nella nota 37 al paragrafo 128, osserva che Filone, in modo originale, porta a sintesi e identificazione (vita secondo natura = vita secondo la volontà di Dio manifestata nella Legge) quattro principi, capisaldi di altrettante visioni etiche: a) vivere secondo natura e b)  seguire la retta ragione, quali espressioni della morale stoica; c) seguire Dio, di origine platonica e neo-platonica; d) osservare i Suoi comandamenti, di origine biblica (FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005, nota 37, p. 1201).)).

2.7.— Il Logos e Dio.
Circa i rapporti tra Logos e Dio, nel De migratione Abrahami, Filone, nel contesto di un discorso sulla necessaria complementarietà tra realtà soprasensibili e realtà sensibili, descrivendo il vestito del Sommo Sacerdote – simbolo del Logos – vestito intessuto delle potenze sensibili e intelligibili, così scrive: «Dunque sulla testa (del Sommo Sacerdote) c’è una lamina d’oro puro che porta una iscrizione: “oggetto sacro a Dio” […]. Quella incisione (sphraghis) ((Sphraghis è incisione o impronta: osserva al riguardo Danielou : «Portando con sé i modelli delle cose create, il Logos le segna con una impronta. Egli sotto questo aspetto, è designato con il nome di sphraghis: “il mondo è stato creato ed è interamente prodotto da una causa. E’ il Logos stesso del Creatore che è sigillo (sphraghis), attraverso il quale ogni essere è informato. Così ogni creatura possiede dall’inizio la sua forma perfetta in quanto impronta ed immagine del Logos perfetto” (Fug. 12) […] Questa sphraghis è figurata dall’impronta incisa sul pettorale del Gran Sacerdote, lui stesso rappresentazione del gran sacerdote cosmico che è il Logos (Migr. 103)» (J. DANIELOU, Filone d’Alessandria, Edizioni Arkeios, Roma 1991, p. 181).)) è l’Idea delle Idee, in conformità della quale Dio diede forma al cosmo, si tratta certo di una realtà incorporea e intelligibile» ((FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione, (103), p. 1157.)). L’incisione – l’Idea delle Idee – è collocata sulla testa del Sommo Sacerdote e rappresenta il Logos di Dio. In conformità ad essa (Idea delle Idee),  Dio ha dato forma al mondo: potrebbe ritenersi che il mondo in questione sia anzitutto il mondo intelligibile (cosmo noetico), cioè il mondo delle Idee, rispetto alle quali l’Idea (Logos) è modello, e che poi le altre Idee (modellate sul Logos), svolgendo una funzione di mediazione, rappresentino gli archetipi per la conformazione delle varie realtà del mondo sensibile, secondo lo schema filoniano di una doppia creazione (mondo noetico, intelligibile, delle Idee e mondo sensibile). Ma si tratta di pura ipotesi, giacché dal testo non è possibile desumere alcunché di certo. Parimenti incerto e non desumibile dal testo è se l’Idea delle Idee (il Logos) e le Idee in generale siano pensiero pensante di Dio o pensiero pensato da Dio: problema rilevante, giacché, nel primo caso (Logos come pensiero pensante), il Logos è Dio stesso, la sua mente, mentre nel secondo caso (Logos come pensiero pensato) il Logos, pur presente, in Dio dovrebbe intendersi come da Lui distinto ((Su questi aspetti, si rinvia a R. RADICE, Monografia introduttiva, in  FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005,  p. XC.)). In termini più generali, la questione se il Logos – al pari delle Potenze divine e della Sapienza – costituiscano metafore impiegate da Filone per esprimere l’azione divina o, invece, ipostasi separate da Dio, con un autonomo rilievo ontologico, ancorché a Dio subordinate rimane un problema di difficile soluzione ((Osserva la Termini: «It remains a matter of debate wheter the figures of Logos and Wisdom represent  the culmination of metaphorical language employed to express […] the action of God […],or actual hypostates separate from God, with autonomous ontological status and subordinate to God » (C. TERMINI, Il rapporto tra legge naturale e legge rivelata in Filone di Alessandria, in A.M. MAZZANTI e F. CALABI (a cura di),  p. 98).)).
Da ultimo verificheremo come, nel De migratione Abrahami, Filone consideri il Logos in sé. L’Alessandrino, all’inizio del trattato, concludendo il discorso sulla parola come casa dell’intelletto umano in analogia al Logos dimora del nous divino, osserva: «E che cosa potrebbe essere questa casa (dell’intelletto divino) se non il Logos che è nato prima delle realtà generate? Il Nocchiero dell’Universo l’ha afferrato come fosse la barra di un timone, e dirige tutta la realtà, e quando crea il cosmo si serve proprio di tale strumento per costituire tutto il creato in un ordine irreprensibile?» ((FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione, (6), p. 1129.)). Come è evidente, Filone attribuisce al Logos una funzione strumentale, funzione che viene esplicata in due modi: il Logos, da un lato, è strumento– con capacità conformante e ordinante – di cui Dio si avvale nel momento della Creazione, intesa come cosmo ordinato (ordine irreprensibile); dall’altro lato, una volta che la creazione è avvenuta, il Logos è la barra del timone con cui Dio (Nocchiero) governa la realtà. Al Logos, in sintesi, è quindi affidato il ruolo di strumento per l’azione creatrice e provvidenziale di Dio (( L’immagine del Logos come strumento di Dio all’atto della creazione del cosmo lo ritroviamo ad esempio in De Cherubim (127). Funzione parimenti strumentale è quella racchiusa nel concetto di logos divisore, di cui Dio si avvale allo scopo di dividere la sostanza indeterminata del tutto: immagine presente in altri scritti di Filone ma non nel De migratione Abrahami.)).
È evidente che il ruolo di mediazione assolto dal Logos garantisce, specialmente nel governo provvidenziale del cosmo, l’attributo della trascendenza di Dio.
Per completezza, occorre anche ricordare che Filone – oltre alla funzione ordinatrice –  attribuisce al Logos – il ruolo di legame (desmos), di vincolo coesivo che – in un certo senso dall’interno e dunque in modo immanente – tiene unite ed in armonia le realtà create, impedendone  la dispersione. In altri trattati, tale funzione – che indubbiamente è eco del concetto platonico di anima mundi – è esplicitamente affermata ((Leggiamo ad esempio nel De somniis: «In effetti, il Logos di Colui che è, in quanto vincolo dell’universo, come si è detto, tiene strettamente unite le singole parti, impedendo loro di disgregarsi» (FILONE di ALESSANDRIA, De somniis I,  in ID, in ID. Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di) Bompiani, Milano 2005, (112), p. 1471).)), diversamente dal De migratione Abrahami, nel quale tuttavia leggiamo: «Supera, dunque, anche l’uomo più grande e perfetto,  questo universo e analizzane le parti, come esse sino divise dallo spazio ma unite dalle Potenze, e quale sia questo legame (desmos) universale che porta armonia e unità» ((FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione, (220), 1191.)).

3.— Conclusioni.
È possibile, a questo punto, tracciare una breve sintesi riepilogativa del concetto di Logos quale emerge nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria.
Il Logos appartiene alla sfera delle realtà intelligibili ed incorporee, è Idea delle Idee, nato prima di ogni realtà generata (dunque, ingenerato), costituisce lo strumento di cui Dio si avvale nell’opera della Creazione (prima delle realtà intelligibili, poi delle realtà sensibili) e nel governo provvidenziale del cosmo (è la barra del timone, nelle mani del Nocchiero). Svolge dunque un ruolo di mediazione – tra Dio e le realtà create – sia all’atto della Creazione sia nella guida del creato, garantendo – soprattutto per questo secondo aspetto –  il carattere trascendente di Dio. Il Logos inoltre è il vincolo (desmos) che armonizza e tiene unite tutte le realtà create.
Nel Logos ha dimora l’Intelletto di Dio: Dio si fa trovare nel suo Logos.
Riflesso del Logos divino è il logos nell’uomo, nella duplice accezione di linguaggio interiore o pensiero (logos endiathetos) e di parola (logos prophorikos).
Come l’Intelletto divino si manifesta nel Logos, allo stesso modo il linguaggio interiore si manifesta nel linguaggio parlato: il primo è la fonte, il secondo è la corrente che scorre dalla fonte. Sono dunque necessari entrambi, in particolare quando si tratta di parlare di realtà sensibili e comunque per la gestione della vita materiale quotidiana. Chi mira alla perfezione – conoscitiva, etica e spirituale – deve tuttavia andare oltre (migrare) il linguaggio discorsivo (senza tuttavia potervi rinunciare), per aprirsi alla contemplazione (vista dell’anima) delle realtà intelligibili.
Il pensare/parlare umano autentico richiede la purificazione del pensiero/parola. Occorre esercitare la propria regalità sul linguaggio (interiore ed esteriore), mettendosi nell’ascolto del Logos divino, fonte della ragione umana. Avremo allora il Logos divino che suggerisce all’intelletto umano (in particolare nel linguaggio profetico) e l’intelletto umano che partecipa il proprio pensiero al linguaggio parlato, nel quale si manifesta.
L’orthos logos, infine, consente all’uomo  anche se privo della conoscenza della volontà di Dio manifestata nei Comandamenti  di vivere secondo natura, cioè in modo conforme alla volontà divina. La Creazione stessa, infatti, è la prima manifestazione della volontà di Dio: in essa sono inscritte le leggi di natura, e l’uomo è in grado di conoscerle tramite la propria ragione, riflesso del Logos divino di cui Dio si avvalso nella creazione del mondo.

Bibliografia.

— FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005.
— P. BORGEN, K. FUGLSETH, R. SKARSTEN, The Philo Index: a complete Greek word Index to the Writings of Philo of Alexandria, Grand Rapids – Leiden, 2000.
— CALABI Francesca, Filone di Alessandria, Carocci Editore, Roma, 2013.
— DANIELOU Jean, Filone d’Alessandria, Edizioni  Arkeios, Roma, 1991.
— KAMESAR A. (a cura di), The Cambridge Companion to Philo, Cambridge University Press, New York 2010.
— MONDIN Battista, Storia dell’antropologia filosofica ( Vol. 1),  ESD, Bologna 2002.
— RADICE Roberto, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Vita e pensiero, Milano, 1989.

 

2 Comments

  1. Esaudiente disamina su di un aspetto del più largo tema, la allegoria delle Scritture, che è molto importante e che deve essere criticamente condotto oltre ciò che dice e vede Filone il quale, nelle sue analisi, resta comunque legato alla visione farisaica e separatrice di quei documenti.
    Sono tali, ad esempio, la sua ribadita -centralità dei comandamenti- come pure anche la sua -mancata visione universale di quei testi-, egli resta infatti legato ad una storia ed elezione solo ebraica, ma farisaico e separato è pure il suo Dio che resta un -Dio altro, lontano e creatore- ). E ciò nondimeno Filone è importatissimo.
    Vuole detto anche che la comprensione e discussione allegorica delle Scritture, lettura sapienziale e filosofica, in quei tempi era fatta e vista da molte voci come conferma anche Paolo (..cose…dette per allegoria..>Gal 4.24), ed è lettura che si deve cercare e vedere, in un produttivo confronto, anche nei testi di Enoch come pure nelle parole di Gesù.
    Anche Gesù infatti ha letto allegoricamente le Scritture e non ha fatto altro che cercare di mostrare la sua lettura : filosofica, apocalittico-profetica, misterica e molto legata a quella dei testi di Enoch.
    Ma questo lavoro di comprensione allegorica, che sfocia come dice Origene nella gnosi, è lavoro a noi oggi non facile e non deve essere, come in fondo invece è stato per Filone, una “ellenizzazione della Scrittura” ma piuttosto la visione di un Vero che è Unico ed universale e che si può vedere anche oltre il mondo ellenico.
    Da riconsiderare, delle letture di Filone ed anche di quelle cristiane ad esse successive, il problematico e generico “portarsi ad un Dio comunque altro” , lettura lontana dal (Gv 10.34) ricordato da Gesù che riporta Salmi 81.6 e sottolinea che (Gv 10.35) .
    Da riconsiderare la lettura filoniana di Giacobbe/Isra-El : etimologicamente “contrario a Dio” le Scritture con chiarezza dicono della sua -divina finizione- ed è quindi da vedere quale universale umano passaggio che è il portarsi ad un errore che dovrà essere superato, errore che Gesù vede e dichiara nel fariseismo.
    Ma tanto altro sarà, in Filone, da riconsiderare, in quella importante opera filosofica che è la lettura allegorica, e quindi misterica oltre che chiaramente apocalittica e profetica, in una parola gnostica, delle Scritture giudaiche.
    @benadam49

    1. correggo un vuoto :
      “…lettura lontana dal -Voi siete dei- (Gv 10.34) ricordato da Gesù che riporta Salmi 81.6 e sottolinea che -la Legge…ha chiamato dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio- (Gv 10.35)…”

Lascia un commento

*