Eraclito nel pensiero di Colli e Heidegger

Ripubblichiamo un articolo di Andrea Cimarelli, uscito nel marzo del 2017 qui su RF, su Eraclito fra Colli e Heidegger.

Quando si affronta il labirinto del pensiero di Eraclito, ci si ritrova sempre a ragionare sul celeberrimo panta rei, sulla coincidentia oppositorum e su di un linguaggio dalle molteplici sfaccettature che rende ancora più complesso avvicinarsi davvero alla radice di un pensiero che è sfuggente per antonomasia. Non a caso Giorgio Colli lo annovera fra quei “filosofi sovrumani” che hanno vissuto sulla propria pelle la tragedia di un sapere tanto profondo da varcare le soglie del pensiero per addentrarsi fin dentro la carne viva del reale. L’intento del presente articolo perciò, sarà quello di provare a mostrare non solo il legame indissolubile che unisce tanto i due nuclei speculativi quanto la forma linguistica tramite cui ci vengono comunicati, ma anche e soprattutto quale sia il sostrato di tale legame. L’impresa è titanica, per questo ci varremo del supporto di due fra le menti filosofiche più brillanti del Novecento: Martin Heidegger e il già citato Giorgio Colli. Perché ricorrere a due letture tanto differenti? Il motivo è molto semplice: perché è straordinario notare come due vie tanto distanti finiscano fatalmente per convergere verso il medesimo argomento di fondo; e ciò ad esclusivo beneficio della ricerca della verità. D’altronde quale altro approccio metodologico avrebbe potuto rendere maggior giustizia al filosofo della multivocità?

 

Heidegger e il disvelamento del linguaggio pre-metafisico eracliteo
Punta dritto al sodo il seminario tenuto da Heidegger e Fink sul pensiero di Eraclito nel 1966/67, e per loro stessa ammissione: «Il nostro intendimento è di spingerci fino alla cosa stessa, il che significa fino alla cosa che dovette stare dinanzi allo sguardo spirituale di Eraclito» ((M. Heidegger e E. Fink, Eraclito, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 3.)). Impossibile non notare quell’espressione “sguardo spirituale”. Perché far riferimento ad una componente tanto mistica, tanto empatica, laddove invece da uno studio filosofico ci si sarebbe attesi una maggiore attenzione alla riflessione e ai suoi aspetti più razionali? Heidegger ((da qui in poi sottintenderemo la compresenza di Fink per non appesantire la lettura)) ce lo spiega chiaramente: perché continuare a pensare Eraclito con le categorie concettuali della riflessione metafisica non può avvicinarci nemmeno di un passo alla comprensione di come egli vedesse il mondo. L’unico modo per cercare di perseguire un simile intento passa dal bisogno di lasciarsi alle spalle il pensiero metafisico, per retrocedere fino alle sue forme anteriori, fino a quel linguaggio che era ancora incapace di parlare delle essenze e che solo può permetterci di aprire qualche spiraglio di luce nella nube che avvolge Eraclito. ((Mettiamo volutamente tra parentesi tutta la questione del rapporto fra pensiero e linguaggio che andrebbe ad analizzare l’effettiva realizzabilità di tale pretesa perché ci porterebbe fin troppo lontano da quanto è qui in oggetto.))

Tentare un simile approccio però, è molto più complesso di quanto potrebbe sembrare inizialmente, per questo Heidegger senza troppi indugi decide che dovrà essere lo stesso Eraclito a guidarci, perché il canone di riferimento per decifrare ogni singolo frammento sarà il riferimento a tutti gli altri che trattano il medesimo argomento. Certo, c’è il rischio di entrare in un circolo vizioso all’interno del quale ogni “concetto” è vincolato ad altri per poter significare, tuttavia in un contesto non ancora metafisico che parla solo la lingua del fenomeno tale apparente fallacia finisce per svanire. Ciò è massimamente visibile per la delineazione di quel nucleo concettuale che noi “metafisici” abbiamo ridotto alla parola fuoco, ma che sta a significare per Eraclito quell’elemento luminoso che irrompe nell’oscurità per portare all’apparire (quindi alla dimensione fenomenica, che è l’unica conoscibile per l’uomo pre-metafisico) le cose, che in virtù di ciò diventano oggetto di conoscenza. Questo elemento luminoso che non determina né sostanzia i παντα (panta, concetto che per Heidegger si può rendere nel linguaggio metafisico con “gli enti”) ma li porta semplicemente all’apparire, una volta è il κεραυνός (fulmine) del fr. 64 (82) ((Per l’enumerazione dei frammenti di Eraclito si fa riferimento a Diels-Kranz, I presocratici, Bompiani. Di fianco, fra parentesi, compare il medesimo frammento secondo la numerazione data da Colli in La sapienza greca, Adelphi.)), un’altra Ηλιος (il sole) del fr. 94 (81), un’altra ancora πῦρ ἁείζωον (fuoco sempre vivente) del fr. 30 (30); e ogni volta rafforza il proprio carattere e ogni volta mostra un volto nuovo. Non è possibile, nemmeno ex post pensare di imbrigliare la sovrabbondante portata semantica di questo continuo ribadire ed integrare i significati in un unico termine, senza per ciò stesso indebolirne estremamente la portata. Perciò Heidegger evita di farlo e con un lavoro di estrema precisione rievoca l’intero nucleo semantico ogni volta che si giunge ad una sua ulteriore estensione, mettendo in luce come questo schema di linguaggio non sia solo frutto di un tempo che non conosceva il parlare metafisico, ma anche e soprattutto che il fondamento di questa forma ci riporta ai suoi contenuti.

Tenendo come punto di partenza questo elemento luminoso infatti, Heidegger ci mostra come non solo il suo portare all’apparire sia un rendere visibili le differenze tra le cose (i panta) e la loro contrapposizione (polemos), ma sia anche un portarle all’interno del tempo attraverso la contrapposizione a ciò che resta nell’oscurità. Ecco dunque che tutti gli elementi per accedere alla comprensione del fondo del pensiero eracliteo sono disposti. È l’alternarsi di luce e buio dato dalla successione di giorno e notte che porta i panta ad apparire nel tempo e quindi a rendere visibile tanto il loro contrapporsi quanto il reciproco confluire l’uno nell’altro. “L’immorsatura di vita e morte” (ossia tutto quel sistema di contrapposizione e convergenza emergente in diversi frammenti fra i quali 76(), 62(43), 88(115) è l’espressione con cui Heidegger cerca di rendere tale continuo contrapporsi e confluire, il quale però non ci svela solo che la coincidenza degli opposti è infondo essa stessa la dinamica di fondo del divenire, ma si spinge ad un livello di profondità maggiore; ci porta a intravedere quel sostrato di cui parlavamo all’inizio. Tutto è parte di un unico ἕν, di un’unica totalità che pur nelle infinite manifestazioni che porta ad apparire l’elemento luminoso, non perde mai la propria capacità di abbracciare tutto perché essa è il Tutto.

Colli e il misticismo tragico di Eraclito
Diverso invece è l’approccio di Colli. Lungi dal porsi questioni interpretative analoghe a quelle heideggeriane, il filosofo italiano intesse un dialogo con Eraclito che nelle diverse sedi in cui si manifesta ((Si vedano G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano, 1988.; G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2009.; G. Colli, La sapienza greca. III Eraclito, Adelphi, Milano, 1980.)) tradisce un rapporto di profonda intimità e insieme di profonda ammirazione. Tanto legato a quel “dionisiaco” cui Nietzsche aveva dato lustro in La nascita della tragedia, Colli vede nell’efesino una delle più grandi personificazioni del tragico recato con sé da quell’istinto che, comparso nel VI sec. a. C., aveva spinto l’uomo ad indagare la propria interiorità tanto a fondo da trovarvi il mondo stesso. È un mistico l’Eraclito di Filosofi sovrumani, e non potrebbe essercene uno più distante da quello heideggeriano in costante dialogo con Hegel, e lo è proprio per le ragioni sopra indicate: perché cerca in se stesso una verità che comunica solo dopo molto, per vendetta (anche lui, come Nietzsche, per aver troppo amato gli uomini, ripaga la propria delusione con il disprezzo nei loro confronti) e senza curarsi troppo della sua comunicabilità. Tutto l’impianto argomentativo del misticismo eracliteo si regge su di un passaggio costituito dalla serie fr. 36 (53), fr. 31(31) e fr. 76 (), che di fatto porrebbe in essere un’uguaglianza tra anima e fuoco: «E poiché per Eraclito fuoco significa principio di tutte le cose, questa eguaglianza vuol dire coincidenza tra interiorità dell’uomo e il mondo esterno. […] il principio primo di ogni misticismo» ((Filosofi sovrumani, Op. cit., p. 39.)).

Per questo Eraclito completamente rivolto in se stesso alla ricerca della sapienza, era indispensabile focalizzarsi sulle modalità con cui si articolava la spinta conoscitiva. Tutto parte dall’evidenza suprema: la molteplicità con cui il reale si dà. La sua esperienza immediata è senz’altro una via efficace per giungere alla conoscenza, ma di per sé insufficiente, perché nell’intenzione di conoscere le singole cose si commette l’errore di isolarle dal tutto entro il quale sono incontrovertibilmente inserite. Solo dall’unione di approccio empirico e approccio interiore si può arrivare alla “nuova realtà”, in cui le antitesi non intaccano l’identità di fondo. Questo è il “conoscere le cose nella loro essenza”, il sapere che la frantumazione della realtà è legata alla «conoscenza interiore, fondata su base intuitiva di un oggetto nella sua essenza» ((La natura ama nascondersi, Op. cit., p. 196.)). Il polemos è l’elemento che sintetizza questa visione radicalmente pluralistica, mentre il logos è quello che ne contiene la portata isolatrice unendo la contrapposizione all’insegna del dominio che il contrario con “maggior forza vitale” impone all’altro. Un dominio che però non è destinato a durare a causa della subentrante sazietà (χόρος) che permette alla privazione vissuta dal contrario “più debole” di insorgere e scardinare il perfetto immobilismo verso cui si sarebbe finiti senza χόρος. Ecco dunque apparire in tutta chiarezza quale sia il significato di quel: «Ciò che si oppone converge» rivelato dal fr. 8 (5): il logos ricongiunge la dispersione portata da polemos nell’ξυνόν, nella concatenazione di tutto, nell’unità di fondo del Tutto. Se però il divenire è questo avvicendarsi infinito di contrari indistruttibili che non lasciano spazio ad alcun nulla, siamo di nuovo al punto cui ci aveva condotto la precedente analisi: tutto è parte dell’unica totalità esistente.

Conclusione
Sia che si parta alla ricerca dell’oggetto del suo pensiero, come Heidegger, sia che ci si voglia concentrare sulla natura più intima della sua rappresentazione del reale, come Colli; l’interrogativo finale che pare d’intravedere sembra sempre il medesimo: si può pensare ad Eraclito come al filosofo di un monismo in movimento? Al di là di ogni difficoltà linguistica e degli innumerevoli limiti interpretativi (siano essi cronologici o metodologici), ciò che sembra emergere è che la persuasione nella molteplicità del reale promossa dall’efesino avesse poco a che fare con un’effettiva frantumazione del tessuto sottostante, dominio esclusivo dell’Essere. Se tale lettura fosse legittima, di certo molte delle conclusioni tratte nel corso degli anni su Eraclito andrebbero riviste, ma come abbiamo notato, quando si parla di questo straordinario pensatore, affermare qualcosa è molto più complicato di quanto possa sembrare. Perciò, visto che «la natura ama nascondersi» ((D.K., fr. 123. (92).)) e che «la trama nascosta è più forte di quella manifesta» ((D.K., fr. 54. (20).)), non resta che continuare il nostro incessante cammino verso la sapienza, inseguendo la ragione che «governa tutte le cose attraverso tutte le cose» con la leggerezza di un «fanciullo […] che sposta i pezzi sulla scacchiera» ((D.K., fr. 52. (18).)).

Almeno questo, Eraclito, ce l’ha detto chiaramente.

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