Il risolvimento dell’aporia del nulla (IV)

Eravamo pervenuti non soltanto al punto per il quale il nulla «come significato autocontraddittorio» si costituisce di due momenti: «l’incontraddittorio nulla» (o «l’assoluta negatività») e «il positivo significare del nulla», ma anche alla precisazione ulteriore, che consiste nel fatto che «si potrà comunque usare il termine essere per indicare l’intera struttura del positivo significare del nulla (per indicare cioè l’intera struttura di ciò che vale come momento semantico [«il positivo significare del nulla»] del significato autocontraddittorio “nulla”)» (Severino 1981, 214).

In tal modo, non solo il «termine “essere”», valendo come sintesi di essere formale e di significati determinati, esprime una sintesi, dunque una struttura, ma anche il «nulla», nella misura in cui il suo positivo significare può venire espresso con il «termine essere», esprime, esso stesso, una struttura. Tutto il discorso di Severino è funzionale a questo approdo: attribuire una struttura all’assoluta negatività, individuando in essa una positività. Continue Reading

Il nulla autocontraddittorio (III)

Per riprendere il discorso sull’aporia del nulla (prima e seconda parte, ndr), rileviamo che, a quanto detto nel precedente articolo, viene aggiunta da Severino un’importante precisazione, nella quale si dice che il momento positivo del «significato nulla» (inteso come «sintesi») non è costituito soltanto dall’essere formale, come invece poco prima aveva detto: «Precisando il senso del positivo significare del nulla, si osservi che la positività del significare non è data semplicemente dall’essere (essere formale) del nulla, ma anche dal concreto contenuto semantico che conviene al significato “nulla” in quanto distinto dal significato “essere” (formale)» (La struttura originaria, p. 214). In questo passo, egli vuole dire che anche il concreto contenuto semantico del nulla esprime una positività, per il fatto che ciò che esso concretamente significa non è ciò che concretamente significa l’essere.

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L’aporetica del nulla (II)

Per cercare di individuare come Severino potrebbe rispondere alle domande che gli abbiamo rivolto nel precedente articolo, torniamo dunque all’aporia del nulla. Quello che ci sembra di poter dire è che, per configurarla, non può bastare una formulazione: la si deve legittimare. Se la formulazione usata da Severino traduce effettivamente il principio di non contraddizione, allora anche tale principio andrebbe adeguatamente legittimato, perché chi argomenta su un punto cruciale, un punto sul quale poggia l’intero suo discorso, inclusi gli sviluppi ulteriori di esso, non può permettersi di presupporre alcunché. Continue Reading

L’aporetica del nulla (I)

Nel IV Capitolo de La struttura originaria, Severino si occupa dell’aporetica del nulla, della quale individua anche la soluzione. In che cosa consiste tale aporetica? Essa può assumere varie forme. La prima forma può venire espressa così: «La posizione del principio di non contraddizione richiede la posizione del non essere. Non solo, ma il “non essere” appartiene allo stesso significato “essere”» (p. 209).

In quale senso la posizione del principio di non contraddizione richiede la posizione del non essere? Precisamente nel senso individuato nel III Capitolo, e cioè, se il principio di identità afferma che «L’essere è essere» (p. 179), il principio di non contraddizione, invece, afferma che «L’essere non è non essere» (p. 174) o anche «È impossibile che l’essere non sia» (p. 179). «La posizione del principio di non contraddizione richiede la posizione del non essere. Non solo, ma il “non essere” appartiene allo stesso significato “essere”. Questa appartenenza del non essere sia al momento dianoetico (onde si costituisce il principio di non contraddizione), che al momento noetico (onde si costituisce il significato “essere”) è il duplice aspetto di una medesima situazione logica» (p. 209). Qui Severino si occupa soprattutto dell’aspetto dianoetico, che tuttavia è intrinsecamente connesso all’aspetto noetico: i due aspetti verranno trattati insieme più diffusamente nel XII Capitolo.

Severino precisa, dunque, lo status quaestionis e lo specifica in riferimento alla posizione di Platone, il quale si occupa non tanto del non essere assoluto (nihil absolutum), ma di «un certo non essere» (ibidem), che è il non essere relativo. Secondo Severino, Platone, introducendo i concetti di “essere relativo” e di “non essere relativo”, risolve l’aporia del «non essere che è» nella misura in cui illustra il senso in cui del non essere relativo si può affermare l’essere, ma non risolve l’aporia che si produce allorché si parla del non essere assoluto. Continue Reading

Dal tramonto della politica alla politica dell’eternità

Un primo livello costituito dal conflitto tra individui, stati, ideologie, religioni e tutto ciò che rientra nell’ambito della visibilità quotidiana. Sotto di esso il sottosuolo (secondo livello) costituito dalla verità (definita come fede) secondo cui le cose oscillano tra l’essere e il nulla, in termini ontologici la convinzione dell’agire libero da ogni immutabile grazie alla verità evidente del divenire. Ancora più sotto infine un terzo livello denominato di nuovo Sottosuolo (con la S maiuscola, vero e proprio sottosuolo del sottosuolo) che costituisce la negazione più radicale della convinzione del sottosuolo (con la s minuscola) in quanto mostra come il divenire è la Follia estrema e che l’eternità è ciò che costituisce lo spessore ontologico di ogni ente. Su questi tre livelli, come sanno i suoi lettori più fedeli, si gioca tutta l’opera di Emanuele Severino il quale ha saputo costruire con essi un’interpretazione della realtà che non ha pari nel panorama filosofico contemporaneo. La griglia è all’opera anche nel suo ultimo libro, Il tramonto della politica, che raccoglie i più recenti articoli e discorsi del pensatore insieme ad un’analisi inedita del pensiero di Carl Schmitt. Continue Reading

Il castello del destino di Emanuele Severino

Prendendo a prestito un’immagine tratta da Jacques le fataliste di Diderot, Schopenhauer ricorda, come sintesi della sua dottrina dell’eternità dell’individuo, la metafora del castello sul cui ingresso c’era scritta la seguente frase: «Non appartengo a nessuno e appartengo a tutti: c’eravate prima di entrarvi, ci sarete ancora quando ne uscirete». Non sappiamo se Leonardo Messinese avesse in mente questa metafora, ma l’immagine del castello utilizzata nel suo ultimo saggio per introdurre e descrivere la filosofia di Emanuele Severino è sicuramente appropriata. In poco meno di 200 pagine, il libro di Messinese si rivolge sia ai lettori e frequentatori delle pagine culturali e dei festival filosofici, che conoscono Severino per i suoi interventi essoterici e di grande impatto evocativo, sia agli addetti ai lavori, coloro che, dopo una frequentazione dei testi severiniani particolarmente intensa, sono dei veri e propri iniziati ad un linguaggio esoterico arduo ed impegnativo. Il tentativo può dirsi riuscito anche perché il libro alterna in modo sapiente le pagini facili a quelle difficili di Severino, descrivendo genesi ed evoluzione del suo pensiero.

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Filosofie & Scienze: pratiche, metodi e linguaggio

Questo articolo raccoglie le prime uscite della rubrica “Filosofie e scienze: pratiche e metodi” ed è stato pubblicato, nelle scorse settimane, “a puntate” sulla pagina Facebook dell’Associazione Culturale METOPE, che ringraziamo insieme all’autore per la gentile concessione.

Premessa
Perché iniziare una riflessione sulla scienza e sulla filosofia oggi, e cosa c’entra questo con tutti noi? È innegabile che i traguardi delle scienze hanno aperto orizzonti di possibilità straordinarie che seguono un sogno iniziato in Grecia 2500 anni fa, rinato nel Rinascimento, proseguito con l’Illuminismo e Positivismo ed arrivato fino ai giorni nostri; un sogno che auspicava il raggiungimento di una conoscenza certa, razionale, utile, condivisibile a cui affidarsi nei momenti di incertezza e che avrebbe sollevato gli uomini dalle miserie fisiche, mentali e sociali.

È un sogno che si è avverato? O è una specie di mitologia, una forma di pensiero magico che vorrebbe il realizzarsi di un “paradiso tecnico” nel futuro (per dirla alla Severino) e noi in eterno cammino verso di esso? In un momento come questo, dove aspettiamo quotidianamente dalla scienza una risposta unica e certa nei confronti di un fenomeno planetario che ha cambiato le nostre vite, un fenomeno che si iscrive e descrive nel linguaggio scientifico di un’epidemia da virus, siamo dunque soddisfatti? Ci ha dato le risposte che più intimamente volevamo? O forse meglio, gli abbiamo posto le giuste domande, quelle a cui sa e può rispondere?

Questo ci spinge evidentemente ad interrogarci più a fondo sul nucleo fondante del pensiero scientifico, su cos’è scienza o forse sarebbe meglio dire scienze; sul metodo, o forse sarebbe meglio dire sui metodi scientifici. Sì perché è sempre più evidente che i metodi e le pratiche della biologia c’entrano poco con quelli della geologia o della fisica o della medicina, e non perché si condivida un comune metodo sperimentale, un fisico ne capisce “tout court” di agraria o biochimica. Certo ci sono paradigmi comuni, a volte richiami, sovente intersezioni, ma poi nella pratica le scienze sono saperi molto differenti e specializzati, con linguaggi differenti che molto spesso faticano a capirsi, se non arrivare a posizioni anche contraddittorie.

E come potremmo interrogarci su che tipo di sapere è un sapere scientifico, se non all’interno di una riflessione più ampia su cos’è sapere in generale? Su chi è e cosa sa l’umanità che sa? In questo la filosofia ci verrà in soccorso, sia per la sua propensione metodologica ad affilare ed affinare la domanda, sia per la sua storia di essere stata la prima sapienza razionale e critica e che, per certi aspetti, ha contribuito alla genesi del pensiero scientifico.

Quello che cercheremo di fare è usare il domandare filosofico, non tanto per seguire le posizioni dei vari pensatori, ma per “arroventare” e dunque evidenziare, le precondizioni necessarie, l’oramai assodato, le tacite premesse (non per complottismi vari, ma proprio per suo statuto), affinché funzioni un particolare metodo d’indagine.

Cercheremo di lavorare sui metodi e sulle pratiche del pensiero scientifico, servendoci dei contributi di filosofi, scienziati e divulgatori, consapevoli che: è dalle pratiche che si configurano i metodi e da questi le teorie e i paradigmi e che gli uni non stanno senza gli altri. 

Dividere le prime dalle ultime è sicuramente fonte di enorme confusione e di grossolani errori, è un peccato di “hybris” direbbero i greci, che corre il rischio di creare una descrizione del mondo (una narrazione scientifica) là dove invece ci sono metodi e pratiche di previsione. 

Quindi per concludere, tornando alla domanda iniziale, cosa c’entra questo con noi tutti? L’immagine che noi abbiamo del mondo, che ad oggi è planetariamente un’immagine scientifica, condiziona come pensarci o ri-pensarci nel mondo? Che valore dare alla nostra esperienza intima e vissuta, all’interno di una narrazione così vasta e pervasiva come quella scientifica?

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Severino e il tema delle «tracce» (II)

Traccia e contraddizione
Riprendiamo dal passo di Severino con cui concludevamo la prima parte del nostro articolo: “Essendo in relazione agli altri essenti, un essente include una traccia, cioè un aspetto finito di ogni altro essente; e la include come traccia dell’altro, appunto perché, se la includesse semplicemente come parte di sé stesso, tale essente non sarebbe in relazione all’altro. La traccia è sì parte dell’essente, ma, appunto, come traccia dell’altro” (Severino 2010, pp. 225-226).

La traccia, come emerge da questo passo, è contenuta in un essente, quindi è parte di esso, ma è quella “parte di sé” che rinvia ad altro da sé. Essa, pertanto, è un segno, il cui essere si risolve nell’inviare a ciò di cui è segno. Per esemplificare: secondo Severino, in “A” v’è una parte di “A” che deve venire considerata come un segno che rinvia a “non-A”.

Tra tutti i segni, non di meno, Severino sceglie la «traccia»: proviamo a spiegare il perché. L’ipotesi che formuliamo è che venga scelta la «traccia» perché è il segno che qualcosa ha lasciato in altro qualcosa, come se si fosse impressa in “A” la passata presenza di “non-A”. Vengono subito in mente le orme sulla sabbia: esse sono l’indice che qualcuno ha camminato su di essa, lasciando appunto la traccia della sua passata presenza.

La domanda che ci si deve rivolgere, pertanto, è la seguente: come si è formata la traccia di “non-A” in “A”? La risposta non può che essere questa: “non-A” è stato presente in “A”. Per avere lasciato una traccia in “A”, “non-A” non può non essere stato presente in “A”, ossia la sua presenza in “A” deve appartenere al passato. In effetti, “non-A” è stato in “A” proprio per la ragione che, solo in quanto presente, la negazione posta in essere da “A” può averlo investito. Affinché “A” neghi “non-A”, infatti, “non-A” deve essere ed essere proprio in “A”, in quanto negante “non-A”, come afferma la formula “A = non non-A”.

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Emanuele Severino e le «tracce» (I)

La differenza come «traccia»
Nel pensiero di Emanuele Severino il tema della «differenza» riveste un ruolo cruciale. Egli fa valere un punto teoreticamente nodale e cioè la necessità che l’identità determinata venga intesa non come autonoma e autosufficiente, bensì come intrinsecamente vincolata alla differenza. Tuttavia, l’altro viene conservato solo «come negato», cioè «come tolto», nell’identico. Che cosa significa ciò? Che cosa significa che la differenza viene conservata nell’identità, ma solo come tolta? Orbene, la dialettica di identità e differenza viene trattata inizialmente ne La struttura originaria, ma successivamente viene ripresa e approfondita in un’altra opera: La Gloria.

Nel presente lavoro, seguiremo l’argomentazione che compare in questo secondo scritto, perché è precisamente mediante il concetto di «traccia», comparente appunto ne La Gloria, che egli intende indicare ciò che nell’identico v’è del diverso. Nell’affermare che ogni identità include bensì tutte le altre, ma nella forma di «tracce» di queste ultime, egli ritiene di evitare la contraddizione di un identico che include in sé il diverso, inclusione che configurerebbe l’«identità dei contraddittori».

Scrive, infatti, Severino: “il qualcosa è in qualche modo presente nel qualcos’altro, ma vi è presente come rovesciato, cioè come altro. […] Questa stanza e il giardino che è lì fuori (che non sono cose in sé, ma interpretazioni) sono necessariamente uniti. Pertanto, anche in quanto distinta dal giardino (e la distinzione non è separazione o isolamento), questa stanza appare mostrando in sé una traccia del giardino; e viceversa (e ha in sé una traccia di tutti gli essenti). Se questa traccia non esistesse e non apparisse nella stanza (in quanto distinta dal giardino), non vi sarebbe relazione necessaria tra i due” (E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 20102, p. 70).

Il passo merita un’attenta analisi, per la sua rilevanza. Le cose dell’esperienza, cioè i dati empirici, non sono cose in sé, ma interpretazioni. L’espressione «interpretazioni» ha qui il significato di «fenomeni». Da Kant in poi, «fenomeno» è l’espressione che viene usata per indicare il dato d’esperienza, proprio perché questo viene contrapposto alla cosa in sé, cioè al noumeno. Il fenomeno si pone in una trama di relazioni, che vincolano inscindibilmente gli uni agli altri, nonché in virtù di quella relazione che sussiste tra il campo dei fenomeni e il soggetto che li rileva e ne ha coscienza.

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Gli esploratori allo sbaraglio e la voce nel deserto

All’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger piace cimentarsi con tematiche di carattere filosofico. Un paio di anni fa un suo articolo dedicato ai problemi posti dall’intelligenza artificiale dal titolo How the Enlightments End (Come finisce l’Illuminismo) ha fatto parecchio discutere. La tesi era quella secondo cui il nostro tempo si troverebbe nella situazione opposta a quella dell’Illuminismo: mentre quest’ultimo sarebbe nato da idee filosofiche poi sostenute e diffuse dalle nuove tecnologie, il nostro tempo avrebbe generato una tecnologia ancora alla ricerca di una filosofia che le faccia da guida. Kissinger affrontava e dava risposta ad un tema classico del pensiero, quello del rapporto tra filosofia e scienza che, nella storia della filosofia, è stato più volte e a vario titolo oggetto d’indagine. Da questo punto di vista, Bacone e Popper, rispettivamente con la tesi del primato della scienza e di quello della filosofia, sono tra i pensatori che maggiormente hanno dedicato la loro attenzione su tale problema. Diversa la strada presa da Emanuele Severino il quale ha invece suggerito una terza quanto inaudita modalità di porre la questione. Essa, varie volte indicata nei suoi scritti, è stata formulata in uno dei suoi libri essoterici più noti, A Cesare e a Dio del 1983, con la metafora degli esploratori allo sbaraglio.  

«Dalla linea di frontiera della scienza partono verso l’ignoto avventurosi esploratori senza equipaggiamento adeguato, con  molti entusiasmi e poche speranze di ritorno. (Qualcuno è anche uomo di scienza che però la scienza non se la porta dietro).  A volte, di rado, qualcuno ritorna con qualche notizia utile per chi è rimasto.  Sempre trovata per caso.  Colpi di fortuna. Si organizza allora un corpo di spedizione che costruisce mappe e strade e riesce a strappare al deserto, come si suol dire, un altro lembo di terra. E la scienza “fa un passo avanti”. Ma la maggior parte dei suoi passi avanti la scienza è convinta di farli anche e soprattutto durante l’assenza di quegli esploratori allo sbaraglio.  Il resto è accessorio. Quegli esploratori possono essere considerati indispensabili da parte di qualche amico della scienza in vena di generosità, ma più spesso sono guardati con compatimento; li si può decorare sul campo, quando la scienza vuol mostrare di essere di ampie vedute, ma il più delle volte si constata che quando ritornano hanno soltanto abiti sbrindellati e notizie confuse.
In questa situazione capita anche che qualche avventuriero indossi abiti sbrindellati, si sporchi il viso di fango, faccia qualche passo oltre la linea di frontiera, dia sfogo alla sua fantasia inventando banali avventure e torni indietro presentandosi come un “filosofo”. C’è sempre qualcuno disposto a credergli. Si trova così il modo (ma non è certamente il solo) di scrivere libri, e in particolare libri “facili” che chiunque può leggere con piacere perché si accorge che le cose raccontategli dall’avventuriero le sapeva già anche lui. E questo gli dà la possibilità di sentirsi anche lui un esploratore e un “filosofo”».

Come si vede, Severino ironizza sulla filosofia intesa come terra di nessuno, luogo in cui avviene l’esplorazione di concetti nuovi, spesso residuali rispetto alle grandi edificazioni della religione e della scienza.  Quello della filosofia come esplorazione allo sbaraglio (o come terra di nessuno) è un grande mito che dimentica la grandezza della vera filosofia che dimora in un sottosuolo ancora più sconosciuto.

I grandi pensatori dell’Occidente non sono gli esploratori ma le voci nate nel deserto, le quali hanno consentito la nascita delle oasi in cui consiste la civiltà occidentale (tecnica, ideologie, ecc.). Continuando nella metafora, Severino sostiene che da quelle oasi continuano a partire corpi di spedizione i quali si imbattono in relitti, scheletri e altri resti i quali, opportunamente raccolti, vengono sistemati in cimiteri comuni: ecco spiegata la storia della filosofia che è la vera storia della follia, a causa dell’evocazione del suo concetto centrale, quello di divenire, ovvero l’andare degli enti dall’essere al nulla. 

In realtà, continua Severino, bisogna uscire da quel mito e abbracciare lo sguardo che comprende sia il deserto che l’oasi.  Quest’ultima infatti non si contrappone al deserto ma è il deserto stesso che cresce, «il frutto del seme che il grande grido della follia ha lasciato nella sabbia». Lo sguardo che vede tutto ciò, ovvero sia il deserto sia l’oasi che le appartiene, è «lo sguardo della Gioia la quale sta già da sempre al di là del deserto e dell’oasi». Questo significa che prima della filosofia, prima della scienza e prima della religione, prima del bene e del male, esiste uno sguardo non neutro, vero e proprio sguardo divino, nel quale risiede la beatitudine eterna. Questo sguardo sta al di là della filosofia così come l’ha pensata l’Occidente, ed esso rivela un’anima ancora più sconosciuta in cui già da sempre sappiamo di essere la Gioia del tutto. Se questo è vero, la risposta al dilemma iniziale di Kissinger è presto data: la scienza del nostro tempo non è alla ricerca di alcuna filosofia perché essa stessa è già nata dalla filosofia di cui costituisce l’espressione ultima e più avanzata. Il vero problema è che questa scienza e questa filosofia sono entrambe espressioni della follia estrema.

 

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