Nell’ultimo almanacco della scienza (5/2015) di MicroMega, Carlo Rovelli pubblica un saggio dal titolo emblematico e attuale: «Scienza e certezza». Rovelli, di professione fisico, si è dimostrato più volte uomo di cultura, in generale, capace di pubblicare alta divulgazione accessibile a tutti (come ad esempio le Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi 2015; ma anche La realtà non è come ci appare, Cortina 2014) e di saper intrecciare temi più scientifici e questioni filosofiche (Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori 2011). Ha saputo, e quindi sa, fare davvero Filosofia della scienza.
Il suo saggio non ci aiuta solo a capire un po’ meglio qual è il rapporto che intercorre fra la scienza e la certezza, e come la scienza tenti (invano) di pervenire ad uno stato di indubitabilità, di evidenza. L’analisi di Rovelli, infatti, insegna anche a noi che ci occupiamo principalmente di filosofia, e di storia della filosofia, a darne una diversa configurazione, certamente meno hegeliana e più propriamente critica.
Rovelli nello scritto compie una breve ricognizione storico-filosofica e scientifica intorno al tentativo umano di ricercare «un fondamento solido alla certezza» (p. 4), e lucidamente ci ricorda che solo negli ultimi tempi, in filosofia, dal primo novecento in poi, si è abbandonata «l’idea di cercare un fondamento assoluto della certezza assoluta» (p. 7). Questo abbandono – piccolo inciso che non rientra, evidentemente, nelle affermazioni di Rovelli – non avviene, come molti credono con Nietzsche, ma di certo con l’avvento di una certa lettura di Nietzsche, post-moderna e post-ideologica. Nietzsche ha preso a colpi di martello la metafisica al fine di costruirne un’altra ma non è certo l’unico e assoluto fautore di una “ragione debole” ((Si veda a tal proposito l’analisi di Emanuele Severino in L’anello del ritorno, Adelphi 1999.)).
Anche la scienza, dopo il progressivo abbandono di un ideale deterministico, si è trovata di fronte ad un’incertezza, a lavorare l’incertezza. E in questo ruolo si è calata perfettamente, dice Rovelli, nella misura in cui: «in larga misura, la scienza non è la ricerca di assolute certezze, è l’apprendere a gestire l’incertezza» (p. 7). Essa non ha, dunque, la pretesa di eliminare l’incertezza (causa di infinite problematiche esistenziali), ma di governarla, gestirla e renderla costantemente più sottile. Lo fa, ad esempio, per mezzo della probabilità; così come la medicina attraverso la prevenzione. Ma sul piano generale, la scienza gestisce l’incertezza perché in continuazione si mette in dubbio, e quindi fa sue categorie filosofiche (dalla quale proviene, non a caso). Ciò non costituisce un limite che determina e ferma l’indagine scientifica, ma anzi: «il dubbio continuo, la consapevolezza continua dell’incertezza del nostro sapere sono le armi più affilate per continuare a fare crescere la nostra conoscenza. Il sapere sul quale possiamo fare più affidamento non è quello che non viene criticato, è quello che accetta continuamente di essere criticato e sopravvive alla critica» (pp. 18-19), scrive Rovelli.
Al di là della grande, a mio avviso, onestà intellettuale di Rovelli, il quale non si imberbica in disquisizioni metafisiche, come invece fanno molti suoi colleghi non proprio teneri con la filosofia, i cui discorsi anti-filosofici cozzano con una insopprimibile tendenza a spiegare il Tutto, vi sono altri due dati che dobbiamo cogliere. In primo luogo dobbiamo prendere atto della qualità del dubbio nel quale si muove la pratica (e teoria) scientifica, secondo il fisico italiano; un dubbio metodologico prettamente filosofico, che ci testimonia ancora una volta come sia il sapere filosofico, attraverso i secoli, ad aver predisposto gli essenziali strumenti d’azione. La filosofia “segna” il campo, avrebbe detto Severino. In secondo luogo è importante, e dovrebbe esserlo anche per chi fa storia della filosofa, notare l’atteggiamento propositivo di chi ridiscute costantemente l'”utilità” e la problematicità del proprio sapere.
Così come la scienza che si confronta di continuo con l’incertezza (almeno in questa definizione di Rovelli), così dovrebbe agire la filosofia quando interroga la sua, medesima, storia. La storia della filosofia non è né il campo della certezza, né il luogo di perdizione del sapere. Chi fa filosofia attraverso la storia della filosofia, senza cadere nella sterile esegesi dei testi, dubitando di sé, deve essere capace di riproporre continuamente la problematicità della filosofia stessa; non alla ricerca di una legittimazione ma al fine di non dare per scontato il fare filosofia. Perché, come ha scritto più volte Deleuze, ogni filosofia deve giustificare la possibilità per lei di cominciare, nella misura in cui essa è, in definitiva, la ricerca di un sapere puro, un atto (e non un fatto compiuto), svincolato sì il più possibile dall’esperienza, pensiero talmente ampio che determina le categorie di ogni sapere, ma che non per questo si dà per assunto, in eterno.