La nozione di “evento” ha goduto di uno scarso interesse in ambito filosofico fino all’inizio del XX secolo quando – schiacciato fra una meccanica quantistica che propugnava una possibilità di verità meramente probabilistica; una letteratura che sempre più narrava la singolarità dell’individuo e il suo spaesamento; una storia spaccata in due fra la necessità politica di svolgere un grande racconto e l’altra necessità anti-sistema di dare testimonianza, appunto, degli eventi – ha acquisito una nuova vitalità.
Potremmo dire che la categoria filosofica «evento» si ritrova per lo più all’interno di una critica radicale dell’ontologia classica, promossa nel Novecento – sull’onda della filosofia nietzschiana, e non solo – da Bergson, Deleuze e Whitehead. Non certo da Heidegger. Le grandi teleologie, le quali hanno sempre guardato ad una totalizzazione del reale storico, vengono criticate mediante la nozione di evento non solo da un punto di vista storico (l’emergere di un evento dissonante, di una sferzata della storia, di una rivoluzione che rompe i piani), ma anche dalla prospettiva ontologica.
Se, infatti, in Aristotele (il primo grande filosofo a prendere in considerazione questo concetto) l’evento ha ancora una connotazione tragica, poiché esso è ciò che accade all’uomo e che ne testimonia una certa fragilità nella virtù, nella contemporaneità esso acquisisce una valenza ontologica. L’evento non è né rivoluzione, né svolta epocale, né altro inizio, ma è certamente la «parola chiave della filosofia contemporanea», come scrive Donatella Di Cesare recensendo la pubblicazione italiana, per Mimesis (a cura di Giusi Strummiello), de «L’Evento», un testo che Heidegger compone nel complicatissimo biennio 1941-1942.
Ciò che Bergson, Whitehead e poi chiaramente Deleuze, intendono per “Evento” non è un irruzione sul piano dell’Essere di una frattura. Esso, piuttosto, acquisisce una duplice valenza più sotterranea: da un lato esso è il processo stesso attraverso il quale il reale si dà, il tutto accade in maniera spontanea, secondo quella enorme rivoluzione (questa sì!) che conduce Bergson a pensare il reale già reale “prima” che si dia come possibile; d’altra parte l’evento è la cristallizzazione, fornita dall’esterno, di una continuità nella quale esso è totalmente immerso. Quest’ultima occorrenza ci dice però molto di più; poiché la manifestazione dell’evento, pensata come un fuori dalla continuità, è essa stessa manifestazione dell’unità dell’Essere. Solo chi si pone fingendosi al di fuori dell’Essere può coglierne i suoi vettori, le sue cristallizzazioni che, dunque, sono tutte arbitrarie. Il reale vero non è l’evento in sé, ma l’Evento stesso del manifestarsi del reale.
Non sarà dunque inopportuno sostenere che tutto è Evento, nella misura in cui tutto accade, emerge e risuona nel darsi di una Sostanza che è sostanza nel suo stesso darsi. L’Evento non è, allora, qualcosa che riguarda colui che osserva il reale, non è qualcosa di “personale”. Che nessuno si senta investito di buona o cattiva sorte per ciò che gli accade. L’ontologia che fa dell’Evento il cuore della sua manifestatività, non scindendo l’apparire dell’Evento dall’Essere, è un pensiero dell’immanenza che non potrà che definire la storia altrimenti se non come la narrazione di ciò che accade sul piano del reale.
Tutto questo nulla ha a che fare con la filosofia heideggeriana (nemmeno col secondo Heidegger), nella quale l’evento non si definisce mai e appare, in definitiva, sempre qualcosa di irriducibile al Dasein, sebbene assuma svariate forme. Lo sguardo finito, antropologico, umano, ricolmo di passioni, di Heidegger, è pur sempre il grande limite oltre il quale il pensatore tedesco, e la sua straordinaria ontologia, non è saputo andare.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su Ritiri Filosofici il 26 novembre 2017