Sempre più spesso troviamo nei giornali, nei libri, nei “dibattiti” politico-culturali, le parole pluralità, pluralismo, multiculturalità, interculturalità, etc, etc.
Ebbene la maggior parte di chi ne parla, non me ne voglia nessuno, non ha mai veramente pensato a cosa sia tale necessità. Alludo alla necessità che culture diverse, ambienti sociali lontani, ma che condividono lo stesso territorio, vengano a sintesi, e trovino una posizione in cui convivere senza lasciare sul campo tensioni di alcun genere, che sarebbero (e sono) solo dannose. Mi sembra chiaro che tale necessità sia stata affrontata, storicamente, ed in modo sterile, solo da parte di qualche confessione religiosa che – proteggendo a spada tratta le proprie posizioni dogmatiche – voleva, allo stesso tempo, allargare l’orizzonte del dialogo alle altre culture, alle altre credenze, religioni.
Aria fritta. Mai se n’è venuto a capo. Una evidente lotta fra ciechi.
Recandosi in una capitale europea qualsiasi, anche Roma, si può chiaramente vedere come siano presenti diverse etnie che non sono autoctone del paese in cui, ora, vivono. Questo è il dato: le culture si sono mescolate in un territorio condiviso, ed esse non hanno mai cercato – né da una parte né dall’altra – di trovare un sostrato unico, universale, sul quale accordarsi e sul quale legittimare la propria diversità.
Perché vi sia dialogo fra culture differenti è ovvio che sia necessaria una zona in cui le varie culture si identificano tutte, un universale. La filosofia, come spesso accade, secondo chi scrive, può rispondere a questa problematica.
Se definiamo una cultura come un sistema di credenze e pratiche che vanno ad identificare i propri appartenenti, anche in relazione alla storia che quel sistema ha avuto nel corso dei secoli, e che – a sua volta – lo ha forgiato; dobbiamo ammettere che vi sono due fattori comuni a tutte le culture. Tutti hanno vissuto una storia che li ha cambiati, e tutte le culture hanno a che fare con l’uomo in quanto tale.
Prendiamo in esame il secondo fattore (il primo lo lasciamo, momentaneamente, perché troppo vasto e oltre i limiti delle nostre possibilità). Il fatto che ogni cultura è cultura perché ha a che fare con l’uomo, è una cosa fondamentale da riscoprire. Perché in ogni parte del mondo, e non solo in Occidente, l’uomo ha avuto una primordiale paura da sconfiggere: quella della morte. Egli ha sconfitto tale paura con vari rimedi: Severino dice che la Filosofia è stato il grande rimedio teoretico alla paura della morte (al terrore, il thaumazein); Hobbes ha scritto che il rimedio alla paura della morte, nelle masse, fu quello di affidare parte delle proprie libertà ad uno stato che controllasse l’ordine pubblico; Giordano Bruno disse che la paura della morte era alla base di ogni superstizione, e con lui molti altri.
Ecco, lascio al lettore un abbozzo di conclusione, che ognuno possa poi completare o smontare completamente. E se la diversità delle culture fosse una necessità? Nel senso che ogni cultura è necessaria per se stessa e per chi ne fa parte, ma è necessaria anche alle altre culture che riconoscendosi come altro si riconoscono per se stesse.
Secondo chi scrive è necessario che vi siano diversità culturali. Esse sono l’espressione della paura umana, sono il tentativo del rimedio, ma ciò non può giustificare le assurde barricate fra noi e l’altro. Questa paura umana, questo essere uomini in origine, ci dovrebbe aiutare a trovare un punto in comune su cui intavolare un dibattito. Ma è necessario che chi si metta al tavolo faccia una cosa: abbandoni i dogmi e accenda la luce della ragione.