Indice, o dell’amore per la conoscenza

In una luminosa giornata del settembre 1675, Baruch Spinoza ricevette la lettera con la quale Albert Burgh, tardivamente rientrato nel cattolicesimo, gli chiedeva di dimostrare la correttezza delle tesi per le quali Spinoza era considerato, nella migliore delle ipotesi, eccentrico. Spinoza si limitò a rispondere laconicamente che «verum index sui et falsi» (Ep. 88), per far intendere al petulante corrispondente che la verità è unica guida dell’indagine, anche quando è essa stessa l’oggetto della ricerca.
L’indice come bussola e guida nel mare immenso della conoscenza non è dunque una novità né Google ha risolto definitivamente il problema. Mancava tuttavia una approfondita storia di questo strumento a volte trascurato. Con il suo ultimo libro Dennis Duncan, professore all’University College di Londra, ha colmato la lacuna in maniera eccellente, raccontando la storia dell’indice con piglio accattivante ed  incredibilmente privo di paludamenti accademici, nell’ottima traduzione italiana di Chiara Baffa.

Callimaco e il catalogo della Biblioteca di Alessandria
Nel III secolo avanti Cristo la Biblioteca di Alessandria viveva il suo massimo splendore. Le stime più prudenti dicono che custodisse quarantamila rotoli (altre fonti indicano la cifra di mezzo milione). Per essere davvero utile, una collezione di questa portata doveva essere disposta rispettando un ordine. Di tale titanica impresa si occupò il poeta Callimaco il quale compilò un grande libro o tavola, il cui nome per esteso era «Tavole di uomini illustri in ogni campo del sapere e dei loro scritti», e che era sostanzialmente il catalogo di tutte le opere custodite nella Biblioteca, organizzato in modo che un lettore che lo andasse a consultare potesse trovare il volume che gli interessava tra migliaia di titoli. Duncan ne deduce plausibilmente che l’opera fosse suddivisa prima di tutto in base al genere, e che Callimaco avesse poi disposto i nomi degli autori in ordine alfabetico.

Se fosse così, allora quelle Tavole sarebbero una forma embrionale di indice, ossia di qualcosa che istituisce una relazione tra riferimento e referente: come chiarisce Duncan «qualcosa che è qui indica la posizione di qualcosa che è lì: un titolo nel catalogo indica il suo equivalente sugli scaffali».

Mappatura e concisione
Il concetto di indice è, per chi si occupa di libri, l’equivalente della mappa per chi si occupa di geografia. Se l’indice di Callimaco mappava la collocazione fisica dei rotoli sugli scaffali, l’indice analitico distilla il contenuto di un libro in una lista di parole chiave: nomi, luoghi, concetti. Astrazioni, quindi, cui si perviene attraverso la sintesi del contenuto del testo, per creare qualcosa di nuovo e diverso. 

Chiarisce poi Duncan che c’è un tacito legame proporzionale tra un indice e l’opera a cui si riferisce. L’uno, per definizione, deve essere più breve dell’altra. L’indice impone al compilatore di assimilare un testo (di digerirlo, direbbe un canonico medievale) al punto da riuscire a distillarne gli argomenti depurati dalla polpa narrativa, amplificando al massimo la virtù della brevitas: «La brevità è l’anima dell’ingegno», osserva in Amleto Polonio – anche se costui, come ci ricorda puntualmente Duncan, era un incorreggibile trombone.

Se l’indice è una mappa, esso deve adattarsi al territorio che vuole rappresentare. Un mutamento nella struttura del territorio corrisponde dunque ad un cambio di paradigma della mappa. Con il tramonto dell’antichità il libro si trasforma: dal rotolo (il volumen di Callimaco) si passa al libro con pagine da sfogliare (il codex). Insieme a tale rivoluzione strutturale, poi accelerata dall’invenzione della stampa, Duncan ci descrive vividamente il fertile brodo di cultura dal quale è poi nato l’indice nella forma con cui lo conosciamo oggi. 

Capitoli, distinctiones e concordanze
Negli anni settanta dell’XI secolo le radicali riforme di Gregorio VII avevano imposto una robusta professionalizzazione del clero. I funzionari della chiesa dovevano essere amministratori qualificati, esperti non solo di Scritture ma anche di legge e contabilità. A distanza di un secolo, la nascita delle università e degli ordini dediti alla predicazione richiedeva una non comune agilità testuale. Se voleva stare dietro ai bisogni dei nuovi lettori, predicatori e professori, la forma-libro doveva evolversi. Le pagine dovevano essere ripensate, suddivise in base a un codice di colori, disseminate di segni e divisori, progettate per proporre le informazioni – spezzettate, categorizzate – in maniera efficiente: «Era il momento di inventare nuovi strumenti, prima la distinctio poi l’indice, che avrebbero offerto a questi lettori vivaci ed esigenti non dei percorsi ma qualcosa di istantaneo, di non lineare, una rete di tunnel irregolari che attraversassero le Scritture».

Stephen Langton, che in seguito sarebbe diventato arcivescovo di Canterbury ma che all’inizio del Duecento era ancora professore a Parigi, “inventa” la divisione in capitoli di un libro. Un modo per costruire una rete di riferimenti di un testo, non precisissima (la precisione del puntatore dipende infatti dalla lunghezza del capitolo) ma capace di consentire un accesso non lineare al testo.

Nello stesso periodo comincia farsi strada il concetto di distinctio, scomposizione di un concetto nei suoi possibili significati, poi raccolti a loro volta in un libro/indice. La distinctio non definisce una parola ma ne raccoglie la mappa concettuale e serve a costruire uno schema riassuntivo ben organizzato su un dato tema. La raccolta di distinctiones, dunque, rappresenta un tipo di lettura “indicizzata” perché definisce una sorta di mappa mentale del testo: «non è né metodica, né cronologica, ma associativa, innescata da un’unica parola o concetto e poi orientata in mille direzioni diverse. Nient’altro, dunque, che un indice per soggetto o una mappa mentale».

Ed è Robert Grosseteste, professore a Oxford dalle mirabolanti capacità intellettuali (nomen omen) che compila nella prima metà del Duecento una Tabula distinctionum, un indice per soggetto estremamente dettagliato, a tratti pittoresco, di una vita immersa nelle letture più disparate. Un’esplosione di glifi – puntini, ghirigori, forme geometriche, piccole illustrazioni, un sole, un fiore – ognuno abbinato a un concetto dell’indice di Grosseteste. A differenza delle distinctiones alfabetiche, la Tabula di Grosseteste segue un ordine concettuale: gli argomenti, in tutto 440, sono suddivisi in nove macro-categorie. Di fatto si tratta di una legenda, da consultare per sapere a cosa corrisponde ogni minuscolo glifo. Ovviamente, non si tratta ancora dell’indice come lo conosciamo noi. La Tabula di Grosseteste è più dell’indice di un libro; è l’indice di tanti libri, un catalogo per soggetto che aspira ad avere la qualità enciclopedica della mente del suo creatore.

In perfetta contemporaneità, segno appunto che l’esigenza era nell’aria, sul continente sta per nascere un altro strumento per mappare il contenuto di un libro. Il modello è però diverso, perché concentra tutta la sua attenzione, con una maniacalità senza precedenti, su un unico testo. Stiamo parlando della prima concordanza della Bibbia, che vede la luce nel 1230 sotto la supervisione di Hughes de Saint-Cher, da poco priore del convento di Saint Jaques di Parigi. Si tratta dell’indice parola per parola, poi disposte in ordine alfabetico, della Bibbia Latina. L’opera gigantesca, una volta conclusa, elencherà più di diecimila termini. Oltre alla novità dello strumento, non va sottovalutata l’importanza del ritorno all’ordine alfabetico. Nel Medioevo, difatti, l’ordine alfabetico era visto con sospetto, perché considerato arbitrario ed irrazionale, in un’epoca in cui l’individuazione della ratio era il fondamento di ogni ricerca e rinunciare alla ipotesi di un ordine fondativo poteva far pericolosamente concludere che quell’ordine non esisteva.

La stampa e il numero di pagina
Un salto di un paio di secoli ci porta al cospetto di una nuova invenzione che cambierà radicalmente la civiltà: la stampa.  Anche qui, il prodotto finale è il risultato di una serie di spinte tecnologiche che ne posero i presupposti. I caratteri mobili – piccoli, separati, riutilizzabili – e il metodo per disporli; l’inchiostro oleoso che poteva essere trasferito su una pagina di testo senza impregnare la carta come avrebbe fatto quello per il pennino; il torchio che avrebbe distribuito equamente la pressione sulla pagina. Con la standardizzazione assicurata dalla stampa, l’ultimo “componente” dell’indice compare all’orizzonte: il numero di pagina. Il numero di pagina aveva visto la luce sul finire del XIV secolo ma, ovviamente, il puntatore era altamente inaffidabile in tempi di manoscritti: lo stesso testo infatti era trascritto in libri di formato sempre diverso e il numero di pagina aveva dunque un’utilità piuttosto modesta. Con la stampa, invece, il  numero di pagina diventa l’unità di riferimento universale, il secondo ingrediente base – insieme all’ordine alfabetico – di tutti gli indici di libri degli ultimi cinquecento anni.

Benché dunque forme artigianali di indice fossero diffuse da secoli, il numero di pagina stampato diede un impulso decisivo alla diffusione dell’indice come lo conosciamo oggi. Dopo Gutenberg, l’indice cominciò ad apparire in opere di ogni tipo: manuali religiosi, di storia o di giurisprudenza, ma anche testi di medicina e matematica, libri di favole e canzonieri.

L’indice, internet e l’eterno snobismo dei moralisti
Il successo universale dell’indice gli attirò feroci critiche. Contro l’indice venne riesumata la moralistica indignazione che colpì per primo il dio egiziano Theuth il quale, come racconta Socrate nel Fedro, venne aspramente redarguito per aver inventato la scrittura, che avrebbe reso gli egiziani non più devoti della verità ma proni a un’apparenza di sapienza (doxa): costoro «divenuti informati di molte cose senza insegnamento, sembreranno degli eruditi pur essendo per lo più ignoranti».

Siamo di fronte a una sorta di archetipo dei sospetti e dei dubbi che hanno investito la stampa e, oggi, internet. Nei primi due secoli dall’invenzione della stampa non si contano le invettive contro coloro che si limitano a scorrere l’indice per assorbire rapidamente e a buon mercato il contenuto del libro. Fedele a se stesso, il copione ci viene riproposto oggi nei confronti dell’immenso indice che costituisce l’intelaiatura di internet, quando sembra che tutta una serie di vecchi dubbi – sulla lettura e l’attenzione, sul rapporto tra fatica e convenienza, sull’esperienza diretta o mediata – siano tornati alla ribalta dopo secoli di latitanza. Come saggiamente osserva Duncan, un po’ di prospettiva storica farebbe bene ai nostri nervi e consentirebbe di trascurare molte, inutili polemiche.

Per rafforzare questa visione prospettica, Duncan ci propone una serie di affascinanti perle, sull’importanza dell’indice nei rapporti (alle volte patologici) fra intellettuali e sulla costruzione dell’indice satirico, dove l’indice è usato per far sì che le parole di un autore gli si ritorcano contro – e in cui un compilatore astuto può portare l’attenzione sull’assurdità o sulle incoerenze di un testo altrimenti innocuo.

Ciò che dunque emerge chiaramente dallo studio di Duncan è che la compilazione di un indice, qualunque ne sia il formato, analogico o digitale, è un’attività di assoluto rispetto, che richiede grande forza d’animo e robustissima capacità intellettuale, perché deve essere in grado di catturare lo spirito del testo. Ne fa fede il superbo indice che chiude il libro, creato non dall’autore ma da Paula Clarke Bain, «indicizzatrice professionista nonché essere umano». 

Come ha giustamente notato il recensore del Guardian, con questo libro Duncan esprime la sua veemente passione per i libri allo stesso modo dei canonici medievali che compilarono i primi indici: per i veri devoti della lettura, ogni libro è potenzialmente sacro.

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Duncan, Dennis. 2022. Indice, Storia dell’. Dai Manoscritti a Google, l’avventurosa storia di come abbiamo imparato a orientarci nel sapere. Torino: UTET – traduzione di Chiara Baffa (edizione originale: 2021. Index, A History of the. A Bookish Adventure. London: Allen Lane)

 

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