Il tentativo di fondare una morale della virtù pura, una teoria morale che ponesse alla sua base anche una intersoggettività positiva, che – con statuto ontologico a sé – avesse una legittimità ed una applicabilità davanti ad ogni evento è risultato inconcludente. Troppo forte lo sconquasso che gli eventi generano nelle vite umane, troppo imprevedibile il corso delle cause esterne, incontrollabili e non dipendenti da noi.
La lettura della prima sentenza del Manuale di Epitteto, quando il filosofo stoico – in modo chiaro come nessun’altro prima, forse – afferma: Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro altre no [1] è l’emblema del fallimento di un’etica della virtù pura. Epitteto, ma prima di lui tutto lo stoicismo ed il grande Aristotele, ci mette davanti ad una verità evidente nell’esperire umano: il semplice fatto che alcune cose (l’opinione, il movimento dell’animo, l’avversione…) sono in nostro potere, ma altre (il corpo, gli averi, la reputazione e quello che non sono nostri atti) no. In altre parole: gli atti e le cose che sono in potere nostro dipendono da noi, dalle nostre scelte, dal nostro sentire; le cose che non sono in nostro possesso sono sottoposte alla giurisdizione della Fortuna.
L’esposizione dell’uomo alla serie delle cause esterne, o Fortuna, e la sua precarietà nel fluttuante scorrere inesorabile dell’esistenza, sono stati eletti come motivi principali per affermare un’intersoggettività positiva di fondo e quindi la reale possibilità di un’etica della virtù. Ovvero: si è creduto che la precarietà umana potesse permettere all’uomo di provare un sentire positivo nei confronti dell’altro, un sentire solidale e che la socialità potesse emergere come tratto distintivo e naturale fra gli uomini.
L’esperienza e la storia, a mio avviso, attestano il contrario. Il tentativo di placare, sul piano sociale – e di riflesso su quello individuale -, l’incontrollabilità della Fortuna si è risolto con la costruzione di una gabbia di sicurezza (lo Stato) e ci si è affidati perlopiù alla speranza.
La linea vincente nella storia dell’Occidente è questa: uno Stato forte, che toglie libertà per dare sicurezza (Hobbes) e un’umanità che affida il proprio agire ad un ente trascendente, o al sentimento della speranza, che è – a sua volta – temere.
Non mi interessa, in questa sede, sviluppare il tema dello Stato e della sicurezza sociale, ma mi preme proporre qualche riflessione sull’etica della virtù pura e l’intersoggettività positiva.
La fragilità del bene della filosofa americana Martha C. Nussbaum [2] affronta la questione dell’etica della virtù arricchendola di considerazioni sulla scorta di ciò che, precedentemente, abbiamo detto grazie ad Epitteto. La Nussbaum, in realtà, intraprende un percorso di studio che parte dall’analisi della tragedia greca, passando attraverso il tentativo risolutivo di Platone, e arrivando ad Aristotele. La tesi che qui vorremmo sostenere, anche grazie al prezioso studio dell’autrice, è la seguente: non si può opporre alla Fortuna un atteggiamento morale che indichi un Bene altro da noi come riferimento per le nostre azioni; è necessario invece prendere in forte considerazione il carattere tragico dell’esistenza e porre un argine fra noi (le cose in potere nostro) e il fluttuante mare delle cause esterne. Si tratta, insomma, di rivalutare in modo deciso un’etica stoica, e prima ancora aristotelica, che sì è un’etica della virtù, ma non è ingenua e sa che la potenza delle cause esterne è molto maggiore della forza della virtù.
A questo proposito, la Nussbaum intende riportare al centro dell’attenzione etico-morale il ruolo della tragedia, gli insegnamenti dei poeti tragici (che furono ripresi già da Aristotele). Il conflitto tragico e la precarietà di fronte agli eventi espresso da Eschilo e da Sofocle, ad esempio, è un modo per riportare la vita dentro l’etica.
Come aveva ben capito Nietzsche, la tragedia è l’espressione pre-filosofica di una problematica umana molto stringente e decisiva per le sorti dell’esistenza particolare di un uomo. Escludere questa realtà dall’analisi morale vuol dire proporre una teoria morale legata, come si diceva in precedenza, ad un Bene trascendente, intatto e infinitamente buono, dotato – nella modernità – di intelletto e volontà. O generare un’etica formale che poco si adatta alle vicende umane e terrene.
È così possibile affermare una intersoggettività positiva fra gli uomini, ma essa non regge alla prova dell’esperienza.
La tragedia ci insegna che l’uomo possiede un forte senso di auto-conservazione di sé (il conatus spinoziano) e che tende in prima istanza a soddisfare questo bisogno. Successivamente tende a proteggere i propri cari e la prole: veicoli che permettono ai propri geni di continuare a vivere anche dopo la sua morte, come ci dirà molto più tardi la teoria evoluzionistica [3].
Queste sono tutte tematiche riprese e sviluppate dall’etica stoica, e da filosofi che hanno visto nello stoicismo un’alternativa alla tradizione etico-culturale classica facente capo a Platone. Oggi, più che mai, la Nussbaum intravede la necessità di riproporre questo dibattito. Le conseguenze pratiche delle tesi espresse in questo libro sono delineate nei volumi pubblicati successivamente dall’autrice, intenta a fondare una teoria della giustizia che prenda in considerazione il carattere tragico e sfuggente dell’esistenza.
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[1] Manuale di Epitteto, nella traduzione di Giacomo Leopardi. (http://www.classicitaliani.it/leopardi/epitteto.pdf)
[2] M. C. Nussbaum, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 832
[3] Si legga, ad esempio, R. Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, 1992; ma anche R. Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli, 1986.