Nello spot pubblicitario con cui Meta, la società di Mark Zuckenberg che ingloba tutte le sue piattaforme, compresa quella legata al progetto sul metaverso, si dice che quest’ultimo sarà utile anche alla realtà. «Il suo impatto – dice il claim finale – sarà reale». Lo sarà, sostiene la narrazione pubblicitaria, poiché un chirurgo potrà operare moltissime volte nel metaverso, prima di entrare fisicamente in sala operatoria; perché un gruppo di studenti potranno tornare al 32 a.c. e parlare con Marco Antonio.
Come si vede già da questo tentativo di descrizione, i giochi linguistici che abbiamo dovuto attivare sono molteplici e l’ambiguità di alcune parole viene smorzata o, almeno, spostata da una parte invece che dall’altra, grazie a un termine che svolge il ruolo di àncora a tutto il discorso: reale. La definizione di reale/realtà è, infatti, così scontata e forte da non essere mai posta in dubbio. Ma in che rapporto si trova con il concetto di virtuale? E, più indietro, cos’è il virtuale?
Il virtuale e il potenziale
Nel linguaggio corrente, virtuale è spesso utilizzato come sinonimo di potenziale, o almeno con un’accezione analoga che pone i due termini sul medesimo piano. Il potenziale, il possibile insomma, è però un concetto che ha alle spalle una tradizione enorme, quella aristotelica. È però nella metafisica scolastica, che da Aristotele ha attinto a piene mani, che rintracciamo le prime formulazioni del concetto di virtuale. In questo contesto esso è sostanzialmente identico al concetto di potenziale, ma le piccole differenze di definizione all’interno del pensiero scolastico sono così minute da risultare, spesso, inconsistenti e puramente formali.
Molto più interessante è l’accezione che gli consegna il Novecento. Per il contemporaneo, infatti, è virtuale qualcosa di plausibile, di sostanzialmente possibile, che però coinvolge uno strumento digitale. Il virtuale è, nella nostra vulgata, un potenziale digitale che richiede un elemento intermedio per rendersi “visibile” e che però – proprio per questo – si solleva dalla realtà, si emancipa soprattutto del suo lato corporeo e duro. Nel mondo virtuale sembrano venir meno i corpi, la fisicità, il nostro esserci in quanto cose ingombranti: non è un caso che, nella pubblicità richiamata all’inizio, il chirurgo nel metaverso opera un corpo fatto d’aria, l’idea di un’idea di corpo malato, qualcosa che sembra andare anche al di là della più radicale forma di virtuale. Sono allora virtuali anche le idee, i sentimenti, i legami, e tutto quello che intendiamo – da sempre – come elementi mentali?
Prima di porsi questi interrogativi, i quali potrebbero condurre la discussione a un livello non del tutto comprensibile, è bene tornare un passo indietro e ragionare sulla meccanica del possibile e su quella del virtuale.
La meccanica del possibile
Il possibile ha senso solo se posto in relazione al reale. Il reale è la realizzazione di un possibile, ovvero il concretizzarsi delle premesse: il finale di un libro è, in questo senso, contenuto già nel suo capitolo iniziale. Era possibile, è diventato reale. Oppure, a un grado di complicazione diverso: sembrava impossibile, eppure è diventato reale. Ovvero: quella minuscola possibilità che diventasse reale ha vinto un conflitto che l’ha fatta diventare reale. Questo processo di spiegazione della realtà appare inattaccabile, così scontato, eppure contiene in sé un enorme bug, come direbbero gli informatici. La meccanica del reale e del possibile, infatti, come ci insegna Bergson, funziona attraverso un movimento retrogrado: il reale, una volta datosi, riflette all’indietro il suo percorso e determina le proprie cause, riconoscendo nel passato il fatto che fosse – da sempre – possibile.
«Via via che la realtà si crea, imprevedibile e nuova, la sua immagine si riflette dietro di sé nel passato indefinito. Si trova così a essere stata in ogni tempo possibile, ma è in questo momento preciso che comincia a esserlo sempre stata […]» (Bergson 2000, 93) scrive Bergson in un famoso passo che su questa rivista abbiamo già citato altre volte.
Il possibile ha dunque un rapporto ambivalente con il reale, poiché quest’ultimo – apparentemente figlio del primo – è caratterizzato dalla contestuale possibilità di e possibilità di non. Il reale, insomma, è tale perché contempla la negazione. Per di più, concettualmente, il possibile divenuto reale e il possibile sono la medesima cosa. In questo senso, lo svolgersi dell’Essere presuppone un passaggio a vuoto, l’idea che il pieno si confronti con il suo opposto, il fatto in definitiva che il possibile rimanga inespresso.
La meccanica del virtuale
Se rovesciassimo lo sguardo rispetto a questa meccanica così usuale, che ci sembra spiegare in maniera così convincente la realtà, dovremmo immediatamente affermare che il virtuale è però «l’idealmente preesistente» (Bergson 2000, 94). Il virtuale, insomma, non è il possibile. Esso non si rapporta a un’antologia del reale comunemente intesa. Una volta che lo sguardo non è più singolare, bensì “totale” la realtà non risulta essere il frutto di una serie di possibili, essa piuttosto è l’attualità di un Essere in atto, l’explicatio di una complicatio che non può che darsi, esplicarsi appunto.
Il virtuale, in Bergson e poi in Deleuze come in Whitehead e altri, non aggiunge nulla di nuovo all’attuale in atto, poiché la negazione, il passaggio, la mutazione da un vuoto a un pieno, non si dà mai, non è mai concepita. L’Uno non si perde, non degrada nei molti, ma si fa facendosi nei Molti, nell’espressione costante di sé. Il virtuale, allora, «ha a che fare, per dirlo nella lingua di Aristotele, proprio con l’energheia, con la pura attività. […] Come per il Dio di Spinoza, alla cui essenza il mondo non aggiunge (o toglie) nulla, così l’esplicazione dell’Idea (differenziazione) non aggiunge o toglie nulla all’Idea differentiata. L’Idea non può non esplicarsi. L’esplicazione è la sua espressione. Essa ha la sua consistenza in quelle specie e in quelle parti in cui si differenzia, in quelle soluzioni in cui l’Idea come problema s’incarna» (Ronchi 2015, 92).
Conclusioni
Alla luce di queste riflessioni, il concetto di virtuale non deve e non può rapportarsi col reale. La realtà, intesa come l’espressione di una serie di possibili, non “dialoga” con la virtualità. Quest’ultima, infatti, non concepisce l’idea per cui il mondo è il frutto della potenza, delle scelte, della possibilità, della degradazione dell’Essere.
Il virtuale, in definitiva, non è un possibile-digitale, nemmeno una “realtà parallela”. Il virtuale è ciò che necessariamente si attualizza, il suo primo movimento. La realtà, l’idea antropocentrica di un mondo in cui tutto si condensa intorno all’uomo, non può che riconoscersi in ciò che erroneamente definisce virtuale: anch’esso è già da sempre realtà.
Bibliografia
Bergson, Henri. 2000. Pensiero e movimento. Milano: Bompiani.
Ronchi, Rocco. 2015. Deleuze. Milano: Feltrinelli.
Photo by Lucrezia Carnelos on Unsplash