Vivere la filosofia

Moreno Montanari, Vivere la filosofia, Mursia, 2013, pp.158.

L’autore parte dalle riflessioni di alcuni filosofi, a cominciare da Pierre Hadot celebre autore di Esercizi spirituali e filosofia antica, nonché da altri pensatori contemporanei come Zambrano, Foucault e Mancini, per lanciare un invito a vivere la filosofia ossia a sperimentarne la capacità maieutica che chiama alla vita e sprona non solo a farsi domande ma a essere risposte che mettono in moto la vita verso una più compiuta possibilità d’essere. L’invito si fonda sulla riscoperta delle tecniche già praticate dagli antichi e riportate alla luce grazie al lavoro prezioso di Pierre Hadot consistenti in veri e propri esercizi e tecniche spirituali, a cominciare da esercizi base quali: 1) l’esame di coscienza; 2) lo sguardo dall’alto.
L’esame di coscienza, da praticare al termine o all’inizio della giornata, ci consente di verificare a che punto la verità che conosco e che verifico attraverso l’esame di coscienza è riuscita a dare forma, principi e regole alle mia azioni, in un <em>continuum</em> non solo temporale ma anche etico razionale dell’esistenza, la cui realizzazione è stimata in base alla capacità di adeguare la propria vita alle leggi della verità ossia alla natura. Ciò presuppone tuttavia la capacità di uscire dal proprio punto di vista per abbracciare quello universale, del Tutto, e in ciò consiste il secondo esercizio che Hadot definisce dello “sguardo dall’alto”, immaginando se stessi e il mondo da una stella al di fuori della Terra. Sentirsi parte dell’universo, infatti, non riduce il senso di appartenenza all’umano ma sprona a vivere la dimensione mondana secondo le leggi dell’ordine cosmico, trasformando la razionalità e l’armonia, che nell’universo sono necessità fisiche, in leggi morali alle quali tendere per libera scelta, mediante una decisione che tende al medesimo tempo alla verità e alla responsabilità etica.

Nel secondo capitolo l’autore parla del metodo socratico, della ricerca della verità attraverso il dialogo, con se stessi e con gli altri, interrogando se stessi e gli altri. Poiché la capacità filosofica per antonomasia è proprio la capacità di interrogarsi. Il domandare diventa atto filosofico che non si situa nell’ordine della conoscenza ma nell’ordine del sé e dell’essere. La maieutica socratica non aiuta gli interlocutori a partorire la verità riguardo a ciò di cui si sta parlando ma a generare un nuovo modo d’essere, a rigenerare la vita, rendendola autentica. Per esercitare questa persuasione e indurre in questo cammino spirituale è necessario l’amore: verità dell’amore e amore della verità. Non una teoria ma una esperienza che, come tutte le esperienze, resta indicibile ma mostra sé. A questo servono i discorsi filosofici: a mettere in movimento, a stimolare un comportamento che li inveri, a trascendersi come discorsi per incarnarsi in uno stile di vita. Per questo in Socrate non c’è sventura più grande dell’antipatia per il discorso. Attraverso il reciproco confronto che ispira fiducia si realizza un servizio di reciproca chiarificazione e raffinazione dei propri convincimenti, ha luogo quel vicendevole ascoltarsi e interpretarsi per cui ciascuno aiuta maieuticamente il suo compagno a far uscire la verità di se, la verità incarnata che egli è. Quindi il metodo socratico 1) si pone come sapere lucidamente innamorato capace di non appiattirsi sui meri fatti ma di vedere in essi anche le possibilità inespresse; 2) esso sottrae il pensiero al dilagante dominio della ragione tecnica che lo degrada a mero strumento per organizzare efficacemente il discorso e la comunicazione; 3)promuove il pensiero critico; 4) addestra ad esercitare un’immaginazione creativa capace di ripensare criticamente i valori democratici e di problematizzare i punti di vista dominanti, esercitando quella capacità di giudizio che è la più politica tra le attitudini spirituali dell’uomo.

Altra pratica consigliata dall’autore, anch’essa ereditata dagli antichi, è la scrittura. Si tratta cioè di elaborazione di testi pratici che già i filosofi antichi componevano ad uso interno delle loro scuole o come scambio epistolare privato. Ciò allo scopo di annotare riflessioni su se stessi, da rileggere in seguito, o scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli.
Ancora una volta la scrittura è utile a sé e agli altri per favorire la vigilanza mentale che permette di applicare la regola fondamentale alle situazioni particolari della vita. Peculiari sono i “Pensieri a se stesso” di Marco Aurelio o le “lettere” di Seneca. L’autore, sulla scorta di Hadot, considera questa pratica ancora valida per l’uomo moderno anche senza necessità di abbracciare il sistema dottrinario ai quali i filosofi antichi facevano riferimento nell’uso di tali pratiche. L’autore giunge a citare l’esercizio proposto da Romano Màdera consistente in una lectio philosophica in continuità con la lectio divina propria dei Padri della Chiesa della tradizione cristiana, caratterizzata dallo studio e dall’analisi del testo che rimanda al vissuto quotidiano di ciascuno.

Nel quarto capitolo l’autore si confronta con Hadot e Foucault sul pensiero di Aristotele. I primi due pensatori contemporanei infatti considerano non applicabile la categoria di esercizio spirituale alla filosofia dello stagirita il quale si preoccuperebbe invece di costruire una rigorosa architettura concettuale e sarebbe del tutto estraneo a quella idea di conoscenza come trasformazione del proprio modo di essere. In realtà secondo Montanari, Aristotele ne “l’etica nicomachea” si proporrebbe non la pura conoscenza ma un sapere in grado di modellare il modo di essere delle persone per orientarle al bene e alla saggezza attraverso l’esercizio pratico. Anzi, secondo l’autore, Aristotele avrebbe intuito ciò che le neuroscienze oggi hanno dimostrato, cioè che il processo decisionale, cuore della sua proposta etica, si giova dell’esercizio a decidere che fa riferimento non necessariamente al livello cosciente ma anche a esiti di esperienze passate.
Il segnale emozionale non sostituisce il ragionamento vero e proprio ma ha un ruolo ausiliario poiché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. L’abilità della decisione non coinvolge la sola ragione ma è partecipe della ragione e del desiderio, è pensiero desiderante o desiderio pensante. La tradizionale contrapposizione tra ragione e passione è così superata in favore di una visione che le chiama a cooperare alla realizzazione di scelte etiche.
L’etica aristotelica appare, in definitiva, come un un addestramento pratico che permette di sviluppare, acquisire e mettere alla prova nell’incontro con il mondo una particolare sensibilità e capacità etica. Ciò che rende particolarmente interessante la proposta etica di Aristotele è che egli non intende spiegare quale sarebbe la cosa giusta da fare in ogni circostanza eticamente problematica ma fare di noi persone capaci di saperlo valutare di volta in volta, agendo di conseguenza. La sua etica riconosce dunque che la questione “che cosa dovremmo fare?” non è disgiunta da quella che si chiede “che persona dovremmo diventare?”. L’esercizio su di sé al quale l’individuo è invitato a sottoporsi è il punto di partenza di un processo e di un interesse che lo trascendono. Lo scopo è diventare una persona che realizzando se stessa sia al contempo capace di incidere consapevolmente e responsabilmente sulla trama di relazioni sociali alla quale prende parte e di contribuirvi in maniera propositiva.

In epoca ellenistica la filosofia si prefigge dichiaratamente lo scopo di liberare l’uomo dalle malattie dell’anima che è innanzitutto, per dirla con Severino la non-verità che produce angosce, turbamenti, terrori da cui sono affetti i mortali. La filosofia libera dalla malattia dell’anima perché possiede il criterio della verità, cioè la capacità di distinguere la verità dalla negazione.
Mostrando quanto i nostri stati d’animo sono influenzati dalle nostre aspettative, dalla nostra cultura e dalle oltre visioni del mondo, i filosofi ellenistici, e stoici in particolare, aprono la strada a una possibile cura delle passioni mediante la ragione, superando la visione tradizionale che confinava le emozioni, i sentimenti e i desideri come fenomeni irrazionali che l’uomo non poteva che subire passivamente. Gli stoici in particolare sembrano aver compreso che le emozioni non sono un atto meramente privato ma una questione sociale, culturale e politica che chiama in causa il sistema di valori e di regole nel quale viviamo. Ne consegue che l’esame critico dei pregiudizi che informano inconsapevolmente le nostre personali risposte emotive diviene al contempo critica all’ethos vigente e al peso che esso esercita sulla condotta dei singoli individui. La filosofia si presenta così come la via maestra per vivere un progresso spirituale di elevazione verso la saggezza e compito del filosofo è quello di diventare non il saggio ideale e divino ma il saggio tra gli uomini con il compito di descrivere il saggio ideale nel discorso filosofico.
L’imperturbabilità del saggio non deve essere confusa con una forma di imperturbabilità alle emozioni, che sarebbe peraltro impossibile, come dimostrato dalle neuroscienze. Il saggio è tale perché si rivela capace di gestire il livello d’intensità delle passioni, immune dal patologico turbamento delle emozioni. Ancora una volta tale saggezza non può essere raggiunta solo mediante la conoscenza ma attraverso l’esercizio costante. Oggi tali esercizi vengono relegati, alla luce della cultura dominante, soprattutto nell’ambito dello sport, del fitness, della dieta. Ma, anch’essi, praticati coll’esclusivo scopo della prestazione e del potenziamento di sé sono del tutto estranei al senso degli esercizi spirituali della filosofia antica.

L’autore conclude il suo libro con un capitolo dedicato alla speranza la quale, dichiara subito Montanari, non ha goduto presso gli antichi di particolare considerazione. Lo stesso dicasi per il pensiero moderno e contemporaneo. L’autore, tuttavia, partendo dalla definizione di Bloch precisa che la speranza non va confusa né con la fede né con l’illusione. Essa non nega la realtà anzi ne è pienamente fedele in quanto forza che attiva la spinta a realizzare quella piena fioritura dell’umanità che è meta del cammino filosofico. La filosofia con la speranza sono consapevoli che il carattere intrinsecamente trascendente della realtà eccede sempre il mero dato, per cui restarle fedeli significa non fissarla in ciò che è ma, al contrario, aprire alle sue possibili evoluzioni.
La capacità di anticipazione e immaginazione di ciò che non è ancora reale colloca la speranza al centro delle percezione e delle funzioni cognitive, in particolare la memoria. La speranza va vista non solo all’interno della costellazione dei sentimenti e degli affetti ma anche come una dimensione che attraversa l’intera vita soggettiva, anzi, come comprese Leopardi, ne costituisce l’essenza stessa. La speranza obbliga a guardare alla realtà alla luce della verità. La speranza con al filosofia condivide la capacità di vivere la crisi come una opportunità, consente quella trascendenza del negativo la cui forma più feconda, nella filosofia antica, era caratterizzata dal memento mori, la meditazione sulla morte che trasforma la paura della morte nella migliore alleata della vita. Essa infatti mira a favorire una presa di coscienza della vanità dei desideri superflui e illimitati della vita, a stabilire una più autentica priorità delle nostre urgenze e dei nostri valori. L’accento sulla possibilità di cambiare, conclude l’autore, è oggi particolarmente importante per smontare la diffusa cultura dell’apparente ineluttabilità della condizione umana che solo la malafede può farci apparire come tale, perché sono sapevano bene i greci “tutto è sottomesso alla necessità (ananke), eccetto l’indomani le audacia dell’animo umano, che con altro nome chiamiamo Speranza” (Hadot).

La riforma dei partiti?

Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario dalle celebrazioni dei referendum che segnarono, secondo la convenzione della storiografia recente, la fine della Prima Repubblica e l’inizio della lunga transizione dalla quale l’Italia non è ancora uscita.

Segue qui.

Hawking – Mlodinow, La grande storia del Tempo.

Stephen Hawking – Leonard Mlodinow, La grande storia del Tempo, Rizzoli, Milano, 2007 (Edizione originale: A Briefer History of Time, Random House, New York, 2005).

Vorrei inaugurare questa rubrica provando a recensire un libro che ho appena letto, consapevole dei limiti e delle possibilità di errore derivanti dalla lettura di un libro divulgativo, ma comunque difficile da digerire, tanto da rimettermi alla comprensione del responsabile della rubrica. La spunto per la lettura è stato il viaggio fatto alla scoperta della civiltà Maya. Si tratta di una civiltà che raggiunse, per l’epoca nella quale si sviluppò (2000 a.C.-1200 d.C.), avanzatissimi studi in campo astronomico.
In questo libro, il noto scienziato, considerato il maggior astronomo vivente, con la collaborazione del fisico americano Mlodinow, compie un aggiornamento ed una sintesi del precedente bestseller “Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo” del 1988.
Anche questo è un libro divulgativo, scritto con l’intento dichiarato dall’autore, di condividere con la gente comune gli straordinari risultati raggiunti dalla scienza. L’impresa non può dirsi del tutto riuscita, vista l’estrema difficoltà dei temi trattati. Tuttavia, per almeno 2 minuti dopo la chiusura del libro, si ha la sensazione di essere entrati all’interno dei più grandi misteri dell’uomo contemporaneo: come ha avuto origine l’universo? Dove stiamo andando? Siamo soli?
Gli autori passano in rassegna velocemente le concezioni storiche del tempo e dello spazio attraverso le scoperte più importanti da Galileo, a Newton e Einstein. Dopo aver descritto come attraverso queste scoperte l’uomo abbia scoperto la relatività dello spazio, non più assoluto, Hawking ci spiega come nel XX secolo si sia arrivati ad affermare pure la relatività del tempo (non più assoluto ma dipendente dall’osservatore), fino alla scoperta di una nuova dimensione, quella dello spazio-tempo, da cui l’affascinante discussione sulla possibilità dei viaggi nel tempo, attraverso i tunnel spazio-temporali.
Ma l’obiettivo dichiarato della fisica oggi, secondo l’autore, è la definizione di una “Teoria Unificata del Tutto” che sia in grado di mettere d’accordo le spiegazioni scientifiche sull’infinitamente grande (la Teoria della Relatività di Einstein), con quelle sull’infinitamente piccolo (la teoria delle stringhe).
Sulla possibilità di arrivare alla costruzione di questa teoria (che tale resterebbe, cioè la costruzione di un modello soggetto, in ogni caso, a continue e costanti riscontri e possibilità di errori), l’autore afferma che potrebbe anche rivelarsi vana. Ma se l’Uomo vi riuscisse, questi spiegherebbe perché egli e l’universo esistano, decretando, infine, “il definitivo trionfo della ragione umana, arrivando a conoscere il pensiero stesso di Dio“.
Proprio le difficoltà nelle costruzione di una “Teoria del Tutto” sembrano indurre Hawking alla chiamata in causa della filosofia, o meglio dei filosofi, cui nel finale del libro viene dedicato uno specifico appello/rimprovero.
Il linguaggio scientifico è pressoché inaccessibile alla gente comune, complice l’incapacità dei filosofi di aggiornare il loro linguaggio alle nuove scoperte scientifiche, da cui sono stati travolti.
Per questo, forse, in una intervista rilasciata in coincidenza con l’uscita di questo libro, l’autore ha dichiarato “senza senso” la domanda su cosa vi fosse prima del Big Bang e su cosa o chi vi abbia dato origine. Egli, probabilmente, ritenendo appannaggio della filosofia e della religione la risposta a queste domande, ritiene comunque sufficiente, per la sfida intellettuale dell’uomo, la costruzione di una teoria scientifica del tutto che di darebbe, “in teoria”, il pensiero stesso di Dio.

Messico: tradizione e futuro

Il Messico è uno stato federale di 110 milioni di abitanti di cui un quinto nella sola capitale. Diviso in 32 Stati dotati di ampia autonomia e molto diversi tra loro non solo geograficamente, è uno Stato in forte crescita, molto influenzato dalla vicinanza con gli USA e al tempo stesso assai diverso da questo.
Il tour di due settimane ci ha permesso di scoprire sia la immensa capitale Città del Messico sia i due stati più meridionali, Chiapas e Yucatàn, simili per origini ma con uno sviluppo storico ed economico completamente diverso.
Anche noi, come Maurizio Greganti in Egitto, abbiamo avuto modo di conoscere le origini della civiltà messicana e l’attuale stato sociale ed economico. Anche qui i contrasti emergono in maniera evidenti ma con impressioni completamente diverse da quelle tratte in terra egiziana, in particolare per il dinamismo della società messicana, concentrata sulle possibilità di crescita del Paese.
Il Messico precolombiano
Il Messico prende nome dai Mexicas “figli della Luna” meglio conosciuti come Aztechi, una delle tante civiltà mesoamericane che si insediò in questa terra del nord e centro America.
Gli Spagnoli che nel 1521, alla guida di Hernan Cortes, conquistarono queste Terre, si trovarono di fronte proprio gli Aztechi di Montezuma II, i quali, a partire dal VIII secolo d. C., estesero gradualmente il loro dominio sull’America centro-settentrionale, sottomettendo le altre civiltà mesoamericane. A Sud gli Spagnoli trovarono quel che restava della civiltà Maya, costituita da tanti piccoli imperi, sempre in lotta tra loro, e per questo facilmente sopraffatti dagli spagnoli.
A differenza di quello che si potrebbe pensare, tuttavia, la civiltà Maya, diversamente da quella Azteca, non è affatto scomparsa ed è sopravvissuta in maniera sorprendente a cinque secoli di sopraffazioni e tentativi di evangelizzazione forzata.
Tutte le culture native americane si contraddistinguono per una cultura in cui gli elementi naturali hanno assoluta preminenza tanto che ad ogni manifestazione della natura corrispondeva l’esistenza di un dio cui celebrare riti propiziatori.
I Maya, come si diceva, sono stati la civiltà più evoluta. Il loro calendario, utilizzato anche dagli altri popoli mesoamericani, fa risalire la fondazione della civiltà al 3113 a.C. Svilupparono grandi conoscenze in matematica, architettura e soprattutto astronomia. Conoscevano perfettamente la precessione degli equinozi ed il loro calendario civile di 365 giorni corrisponde al nostro. Ciò gli era necessario per esercitare nel modo migliore l’agricoltura e, in particolar modo, la coltivazione del mais.
Avevano anche un calendario religioso che intrecciandosi con quello civile dava luogo a cicli di tempo più lunghi al termine dei quali si praticavano feste, riti e si rinnovavano le strutture cerimoniali. Più in generale i Maya e le altre civiltà mesoamericane erano convinti che il mondo in cui vivevano non fosse che uno di una serie di mondi e questa natura ciclica delle cose permetteva loro di prevedere il futuro studiando il passato.
Come detto, nonostante l’oppressione e l’evangelizzazione forzata, in Messico sopravvive una consistente discendenza diretta dai Maya. Per essa il cristianesimo costituisce solo una facciata e in Chiapas abbiamo assistito a guarigioni e riti propiziatori (compreso soffocamento di una gallina) all’interno di una chiesa. Pare che lì (San Juan de Chamula) la Chiesa Cattolica si accontenti di amministrare una volta all’anno il battesimo ai nuovi membri della comunità, i quali lo ricevono come uno dei propri riti propiziatori. L’esercizio di tali riti in una chiesa si spiega con il fatto che gli edifici di culto sono di proprietà dello Stato (dopo si capirà perchè).
In pratica per facilitare l’evangelizzazione, assai difficile, le antiche divinità furono ribattezzate con i nomi dei santi cristiani ma le cerimonie sono più o meno le stesse di quelle precedenti alla conquista.
Anche qui i miti fondativi della civiltà sono simili a quelli di nostra conoscenza (lo spostamento verso la terra promessa ripreso anche nella bandiera con l’aquila che cattura il serpente come luogo indicato, la creazione ecc.).
È evidente ad ogni modo che i culti nativi, almeno alcuni, abbiano resistito all’evangelizzazione forzata, non sappiamo se per le caratteristiche intrinseche di questi culti, fortemente legati alla natura, e/o se per lo sviluppo politico dello Stato del Messico che già dal 1821 conquistò l’indipendenza.
Il Messico moderno
Conquistata l’indipendenza dagli Spagnoli il Messico oggi è un Paese di meticci e forti minoranze native (raramente di altri paesi). È uno Stato fieramente e orgogliosamente laico (tantissimi gli omosessuali nella Capitale, in alcuni Stati è consentito il matrimonio e l’adozione anche per gli omosessuali). Ciò lo si deve ad un passaggio importante della storia moderna messicana.
Il neonato Stato, fortemente diviso al suo interno e oppresso dal debito verso gli Stati europei, a metà del XIX secolo portò a termine una serie di riforme liberali grazie all’azione di Benito Juarez, primo e unico presidente indigeno della storia messicana, considerato padre della Patria (come Garibaldi per noi, a lui si deve il nome di Benito Mussolini).
Tra queste vi fu l’acquisizione di tutte le proprietà ecclesiastiche (comprese gli edifici di culto) e il pagamento delle tasse da parte della Chiesa Cattolica; l’assoluta libertà religiosa (sono tantissimi i culti praticati qui); il divieto assoluto per i chierici di esprimere preferenze politiche o fare campagna elettorale (si tratta di reato federale).
L’oppressione dei latifondisti e l’opposizione della Chiesa Cattolica portò nel 1910 alla scoppio di una nuova rivoluzione, dopo quella che aveva portato all’indipendenza, guidata da Zapata e Pancho Villa. Repressa nel sangue si concluse comunque con la promulgazione di una nuova costituzione.
Dal 1920 al 2000 vi è stata una democrazia monopartitica da parte del PRI (dal nome contraddittorio Partito Rivoluzionario Istituzionale) che nel 1940, con Cardenas, ha nazionalizzato le industrie nei settori strategici.
Dal 2000 il Paese ha conosciuto l’alternanza di governo e sebbene sia visibile una forte differenza tra alcuni Stati del Paese e tra i vari strati della popolazione, il Messico sembra avere le carte in regola per essere una delle nuove potenze mondiali.

Carnage ovvero Il dio del massacro

“Véronique, davvero pensa che ci si interessi ad altro che a se stessi? Vorremmo tutti credere a un possibile cambiamento. Di cui saremmo gli artefici e che non sarebbe legato al nostro personale vantaggio. Ma le pare possibile? Ci sono uomini indolenti, sono fatti così, altri che non vogliono perdere un solo attimo di tempo, e si danno da fare, che differenza c’è? Gli uomini si agitano fino a quando non muoiono. L’educazione, i mali del mondo… Lei scrive un libro sul Darfur, okay, capisco che uno pensi, prendo un bel massacro, ce ne sono una quantità nella storia, e ci scrivo sopra un libro. Ognuno si salva come può”.

E’ questa la frase chiave dell’ultimo film scandalo di Roman Polanski “Carnage” (carneficina o massacro, ndr) presentato all’ultimo Festival di Venezia. Si tratta della bellissima e fedele trasposizione cinematografica della pièce teatrale “Il dio del massacro” (Adelphi, pag. 91, € 9,00) dell’autrice francesce Yasmine Reza.

Protagonisti sono due coppie dell’upper e middle class newyorchese (parigine nel libro) che si incontrano nel salotto di quest’ultima per risolvere celermente e all’insegna della civiltà e della tolleranza un litigio tra i rispettivi figli che finisce con delle ferite a danno di uno dei due.

Ma il clima conciliante, tra parole e non dette e piccole allusioni, scivola lentamente su un piano inclinato dove la ragione lascia spazio agli istinti e alle passioni. Le offese reciproche, dapprima velate, vengano a galla fino a far emergere le nevrosi dell’uomo borghese occidentale. Le coppie, prima solidali, si frantumano e una parte finisce col solidarizzare con l’altra in uno scontro di genere che mette a nudo le difficoltà della coppia chiusa nella gabbia/salotto dei suoi rigidi schemi sociali.

L’unico personaggio che appare subito se stesso, guadagnandosi la simpatia dello spettatore (forse per la comune professione) è Alan, avvocato superbo e spocchioso, che almeno però sa che cosa deve nascondere (continuamente impegnato col suo BB ad impedire una class action verso l’azienda farmaceutica che difende), diversamente dagli altri che tanto accusano e blaterano ma poi sono totalmente acritici su se stessi prima che le spalle al muro li costringano a rivelarsi. Sarà Alan/Polanski a rivolgere a Veronique la frase citata sopra.

Homo hominis lupo. E’ questo il messaggio che il regista e l’autrice del libro intendono ribadire allo spettatore. Non c’è spazio per l’ottimismo.

Il film mi ha fatto pensare alla tesi di René Girard sulla nascita della cultura e delle istituzioni umane, di origine religiosa. E’ per salvarsi dalla forza mimetica della violenza che nasce prima la religione, poi la società e il diritto e la filosofia, infine la tecnica. Già Stanley Kubrick aveva magistralmente riassunto questa tesi sul grande schermo nella famosa scena iniziale di “2001 Odissea nello spazio” accompagnata dall’Also sprach Zarathustra di Richard Strauss.

Popsophia. 1° festival del contemporaneo

Segnalo che a Civitanova Marche (MC) partirà il prossimo 15-16-17 luglio il 1° Festival del Contemporaneo (http://www.popsophia.it/). Si svolgerà in 4 weekend consecutivi il primo dei quali dedicati alla Filosofia. Ospiti di spicco: Umberto Galimberti, Giulio Giorello e Umberto Curi.

La presentazione del weekend filosofico prende le mosse da un aforisma di Oscar Wilde: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze“.

Da cui la seguente riflessione:
Gioco, mente, parole. È un asse a tre quello attorno al quale ci invita a riflettere la Pop filosofia per definire l’indefinibile. Che cos’è la filosofia? O meglio, di cosa deve occuparsi oggi la filosofia per essere la forma del pensiero collettivo e contemporaneo. Finite le disquisizioni sull’essere, sul tempo, sulla definizione stessa di filosofia, cosa attira oggi l’attenzione degli intellettuali e dei pensatori? La filosofia è gioco e, come tale, è la ricerca di una soluzione lungo un passaggio ludico che coinvolge la mente e che si esplica nelle parole, nel linguaggio. È tempo di portare la battaglia filosofica nella ‘popular culture’, usando le armi migliori a disposizione della filosofia: dal pensiero critico alla decostruzione. Ma in modo inedito. È tempo di portare il confine della filosofia nella cultura di massa televisiva per prendere parte attiva alla loro trasformazione. Mutazione genetica della filosofia in pop filosofia. Perché la vera essenza delle cose è nella superficie“.

A leggere le premesse mi pare che i marchigiani si avventurino su un pericoloso piano inclinato. Se da un lato il Festival sembra perseguire la lodevole intenzione di dare ribalta al pensiero filosofico attraverso il confronto con la cultura contemporanea, il rischio è quello che, alla fine, il ragionamento filosofico rimanga schiacciato e relegato nello spazio di ars minor a cui gli stessi filosofi che vanno per la maggiore in Italia (tra cui lo stesso Giorello) sembrano rassegnarsi nel nome di quel pensiero relativista che pervade (per quanto ancora?) la cultura e la società odierna.

P.S.: I temi degli altri weekend saranno: fashion, fiction, futuro.